Tre
In poltrona, avvolto dalla vestaglia. Al buio, perché con quel mal di testa la luce era insopportabile ancora più del rumore.
Si raggomitolò in una posizione antica mentre la musica cominciava. La stessa che suonava la mamma, tanti anni prima. In altre case fredde e deserte come quella, mentre lui ascoltava raggomitolato nello stesso modo, al sicuro. Per quei pochi minuti.
Il pianoforte di Rubinstein aveva la consistenza del cristallo. Liberava immagini di radure illuminate dalla luna, misteri familiari, oscurità quiete piene di profumi, e promesse, e nostalgia.
Quella notte la medicina funzionò.
Prese sonno in un momento indistinto e necessario, nel mezzo delle nitide note.
Un'altra notte di quelle.
Funzionava sempre allo stesso modo. Chiti si addormentava quasi subito, un paio d'ore di sonno cupo e plumbeo, poi il mal di testa lo svegliava. Una fitta sorda fra la tempia e l'occhio, a volte a destra, altre volte a sinistra. Rimaneva a letto qualche minuto, mentre quel dolore aumentava e lo svegliava del tutto. Ogni volta aveva, per quei pochi minuti, l'assurda speranza che il mal di testa passasse, spontaneamente così come era venuto, e lui potesse riaddormentarsi. Non passava mai.
Così quella notte. Dopo cinque minuti si alzò con la tempia e l'occhio pulsanti. Andò a prepararsi quaranta gocce di novalgina, pregando che facessero effetto. A volte funzionavano, altre volte no e il mal di testa durava, devastante, per tre o quattro, o anche cinque ore. Con l'occhio che gli lacrimava e quella specie di metallo ovattato, implacabile che gli batteva, ritmico e lancinante, dentro la testa.
Di nuovo mattina. Di nuovo ora di scendere in ufficio.
Stesso fabbricato, stesso percorso claustrofobico fra alloggio di servizio, spaccio, locali del nucleo operativo, mensa ufficiali. E viceversa.
L'alloggio era arredato con pochi mobili dell'amministrazione e pochissime cose sue. L'impianto stereo, i dischi, e i libri; e poco più.
Vicino alla porta era appeso uno specchio a figura intera. Brutto. Classico pezzo di casermaggio.
Prima di uscire era quasi costretto a specchiarsi. Da quando era arrivato a Bari in quella casa, gli succedeva di nuovo, sempre più spesso, una cosa che gli era capitata verso i quindici, sedici anni e che pensava seppellita fra i meandri remoti dell'adolescenza trascorsa in un collegio militare.
Si guardava allo specchio, esaminava la figura, i vestiti — pantaloni, giacca, camicia, cravatta — e provava l'impulso di rompere tutto. La superficie riflettente insieme all'immagine riflessa. C'era una specie di rabbia fredda in quell'impulso, come il tamburo sordo della pazzia.
Per quella banale superficie; per quella figura intera – la sua nello specchio – così diversa da quello che aveva dentro. Schegge, frammenti, vapori, lapilli incandescenti, ombre, bagliori. Urla improvvise. Abissi dove non si poteva nemmeno guardare.
Quella mattina provò lo stesso impulso, violentissimo.
Voleva rompere lo specchio.
Per vedere la sua immagine riflessa nei mille frammenti sparpagliati.
Ingoiò la bibita amara con un brivido. Poi accese l'impianto stereo, mise il primo cd dei Notturni, si assicurò che il volume fosse quasi al minimo, andò a sedersi in poltrona.
Quella mattina era in programma una cosiddetta riunione operativa con il maresciallo e i due brigadieri che costituivano la squadra investigativa voluta dal colonnello.
«Cerchiamo di riepilogare i dati che abbiamo, per vedere se è possibile tirar fuori uno spunto, o qualcosa. Le carte le conosciamo tutti e allora a turno ognuno dice la sua opinione e quello che, a suo parere, c'è in comune fra i cinque episodi. Cominci lei, Martinelli.»
Martinelli era un vecchio maresciallo. Un vecchio duro.
Trent'anni da sbirro passati fra briganti sardi, mafiosi siciliani e calabresi, brigatisti rossi. Adesso stava a Bari, vicino al suo paese di origine, per gli ultimi anni prima della pensione. Era alto, grosso, con la testa pelata, mani grandi come racchette da ping pong; e ugualmente dure. Bocca sottile, occhi a fessura.
Nessun delinquente era mai stato contento di avere a che fare con Martinelli.
Non sembrava a suo agio, quando si spostò sulla sedia, facendola scricchiolare. Non gli piaceva prendere ordini da un ragazzino di accademia. Così pensò Chiti mentre quello cominciava a parlare.
«Signor tenente... non lo so. Tutti e cinque gli episodi si sono verificati fra San Girolamo, il quartiere Libertà e... no, aspetti, ce n'è uno – uno di quelli per cui procede la questura – che è successo a Carrassi. Non so se significa qualcosa.»
Chiti aveva un foglio davanti a sé. Annotò quello che aveva detto Martinelli, e mentre scriveva pensò che stava solo cercando di darsi un tono, che cercava di dirigere quell'indagine come pensava si dovesse fare. In astratto.
In base a quello che aveva letto nei libri e soprattutto visto nei film. Forse quel coglione del colonnello aveva ragione e probabilmente quegli uomini, tutti più esperti di lui, ne erano perfettamente consapevoli. Si sforzò di scacciare quel pensiero molesto.
«Lei che dice, Pellegrini?»
Il brigadiere Pellegrini, grassottello, miope, diplomato ragioniere. Non propriamente un uomo d'azione, ma uno dei pochi a saper usare un computer; a sapersi orientare fra i documenti di un'amministrazione, a saper leggere le carte di una banca. Per questo lo avevano preso, e se lo tenevano, al nucleo operativo.
«Io credo che dobbiamo fare un lavoro di archivio. Dobbiamo cercare quelli che hanno precedenti specifici per queste porcate negli ultimi anni e dobbiamo controllarli a uno a uno, per vedere se hanno degli alibi per le sere delle aggressioni. Dobbiamo verificare se qualcuno è uscito di prigione recentemente, magari poco prima dell'inizio di questa storia. In questo modo almeno abbiamo qualcuno su cui lavorare. Voglio dire che questi maiali non perdono il vizio, il carcere non gli fa passare la voglia. Se troviamo molti nomi che quadrano potrei anche impostare un programma al computer per schedarli; man mano che andiamo avanti inseriamo i dati e poi li incrociamo... insomma non si sa mai quello che può uscire da un buon archivio...»
Giusto. Questa era un'ipotesi con un minimo di prospettiva e Chiti si sentì un po' meglio.
«Cardinale, e lei? Che idea si è fatto?»
Cardinale era diventato brigadiere prima del tempo.
Uno dei pochissimi casi, nell'arma dei carabinieri, di promozione per meriti speciali. Era piccolo, magro, una faccia da ragazzino. Due anni prima mentre era, come si dice, libero dal servizio, si era trovato in banca quando erano entrati dei rapinatori. Erano in tre, uno con il fucile a pompa, gli altri due con le pistole. Cardinale ne aveva ucciso uno e aveva arrestato gli altri due. Roba da film, solo che era tutto vero, incluso quel morto. Un ragazzo di diciannove anni alla sua prima rapina. Cardinale era più vecchio di poco e lo avevano promosso brigadiere sul campo, con la medaglia d'oro che di solito viene data soltanto ai carabinieri morti.
Un tipo strano. Era iscritto all'università, facoltà di scienze naturali. Per questo i colleghi lo guardavano con un misto di diffidenza e rispetto. Parlava poco, pochissimo tanto da sembrare – o da essere – brusco, a volte. Aveva occhi scuri, fulminei ed enigmatici.
«Non lo so, signor tenente» fece una pausa, come se stesse per aggiungere qualcosa. Come se quel non lo so fosse stato solo un modo per introdurre qualche idea che aveva già ben chiara in mente. Poi però non aggiunse altro.
La riunione durò ancora qualche minuto. Si decise di fare il lavoro proposto da Pellegrini, su quelli con i precedenti per violenza carnale. Tirar fuori i loro fascicoli, controllare i periodi di detenzione, esaminare i modus operandi, prendere le foto segnaletiche – se ce n'erano di recenti, oppure farne di nuove – e cominciare a mostrarle in giro, vicino ai posti dove si erano verificate le aggressioni.
Sperando di arrivare da qualche parte.
Prima di quello, lì fuori.