Ventisette
Uscimmo insieme al tramonto. La morsa del caldo si era allentata solo leggermente. Francesco aveva il suo zainetto militare e dentro c'erano quaranta milioni in biglietti da cento e da cinquanta. Facemmo un pezzo di strada insieme e poi ci separammo. Ci saremmo rivisti in albergo, la notte o la mattina dopo, mi disse.
Sicuramente la mattina dopo, pensai mentre lui scompariva da qualche parte, fra le case e l'oscurità che scendeva rapida.
Me ne andai al parco del Rio Turia. Mi piaceva l'idea di passeggiare fra le piante e il verde, dove prima, chissà quando, c'erano stati il fiume, l'acqua, le barche. Un altro mondo.
Molti anni dopo avrei provato una sensazione simile — ma molto più forte — a Mont Saint Michel, camminando sulla sabbia umida, fra le pozzanghere della bassa marea.
Scrutavo in lontananza, per cercare di vedere il mare. Mi immaginavo che arrivasse all'improvviso. Mi immaginavo quest'onda che si formava all'orizzonte. Una schiuma grandiosa, che si confondeva con il cielo e le nuvole, anche loro grandiose. Tutti scappavano via, ma io restavo lì, fra sabbia e cielo, con il monte e la fortezza alla mia destra. Guardando l'onda arrivare.
Passai delle ore, camminando per quei giardini. Guardavo la gente – ragazzi, ragazze, famiglie con i bambini – che si godeva il fresco e, strano, avevo una sensazione di infanzia, di malinconia dolce, di vacanza. Mi ero dimenticato di Francesco, della cocaina, di quello che era successo nei giorni e nei mesi prima. Era tutto molto, molto lontano. Era un languore dolce. Simile a quello di inizio estate, ai tempi delle scuole medie. Tutto era possibile allora, e il mondo era un giardino incantato, luminoso e insieme ricco di ombre fresche e accoglienti. Pieno di segreti benigni da scoprire.
E chi lo sa per quale motivo rivissi così intensamente le sensazioni della mia tarda infanzia, quella notte di agosto, in un posto sconosciuto della Spagna? Come un'isola, nel mezzo di tutto quello che stava succedendo.
Mangiai qualcosa, bevvi delle birre, fumai delle sigarette e poi mi stesi su un prato, le mani dietro la testa. Guardavo il cielo, cercando di decifrare le costellazioni. Come al solito l'unica che riuscii a riconoscere fu l'Orsa Maggiore.
Senza accorgermene, mi addormentai.