Otto
Faceva quei sogni da quando era bambino. Riguardavano un passato indistinto e forse mai esistito. In posti sconosciuti e rassicuranti, con presenze amiche. Tepore, attesa, ordine, desideri, eccitazione, stanze luminose e calde, bambini che giocavano, voci remote e familiari, serenità, profumi di cibo e di pulito.
Nostalgia un po' malinconica, e dolce.
Erano sogni ricorrenti. Non c'era una vera storia, o personaggi riconoscibili, o posti noti. Eppure, quello era lo strano, gli sembrava di essere a casa, in quei sogni.
Quando li faceva, il risveglio era molto brutto.
Assomigliava sempre, nello stesso modo, a quando la mamma era morta.
Lui non aveva ancora nove anni e una mattina, svegliandosi, aveva trovato la casa piena di gente. La mamma non c'era. La moglie di uno degli ufficiali di suo padre – il generale – lo aveva preso in consegna, portandoselo a casa sua.
«Dov'è mamma?»
Quella signora non aveva risposto subito. Prima lo aveva guardato a lungo con una faccia mista di imbarazzo e dispiacere. Era grossa, con una faccia buona e impacciata.
«La mamma non sta bene, tesoro. È all'ospedale.»
«Perché? Che è successo?» E mentre parlava il bambino sentiva le lacrime che irrompevano insieme a una disperazione sconosciuta fino a quel momento.
«Ha avuto un incidente, la mamma. Sta... molto male.» Poi, non sapendo che altro dire lo abbracciò. Era morbida e dava un odore simile a quello della loro donna di servizio. Un odore che il piccolo Giorgio non avrebbe mai più dimenticato.
La mamma non aveva avuto nessun incidente.
La sera prima il babbo era uscito, come capitava spesso. Cene ufficiali, lavoro, altro. La mamma non andava quasi mai con lui. Alle nove e mezzo in punto, come al solito lo aveva messo a letto e gli aveva dato il solito bacio sulla fronte.
Poi era andata nel punto più lontano di quella casa sterminata – l'alloggio del generale comandante, il più grande di tutti – si era chiusa in un bagno di servizio portando con sé un cuscino e una piccola pistola calibro 22 che il babbo le aveva regalato anni prima.
Nessuno aveva sentito il rumore dello sparo, smorzato dal cuscino e disperso per i corridoi oscuri di quella casa troppo grande, e tetra.
Aveva compiuto trent'anni proprio quella sera, la mamma.
Li avrebbe avuti per sempre.
Il tenente Giorgio Chiti pensava che anche lui sarebbe diventato pazzo. Come la mamma. Era malata di nervi, gli aveva spiegato molti anni dopo il padre, con il suo tono gelido e distante. Senza compassione, senza rimpianto, senza niente.
Malata di nervi voleva dire pazza.
E lui assomigliava alla mamma, questo era certo. La stessa faccia, gli stessi colori; qualcosa di leggermente femminile nella fisionomia di lui, qualcosa di leggermente maschile e remoto nella fisionomia di lei in quelle poche fotografie sfuocate. Nei ricordi sempre più sbiaditi.
Aveva paura di diventare pazzo.
In certi momenti era sicuro che sarebbe diventato pazzo. Come la mamma. Non avrebbe più avuto il controllo sui suoi pensieri e sulle sue azioni, come era successo alla mamma. A volte questa idea – la pazzia come un destino ineluttabile – diventava ossessiva e insopportabile.
Era in quei momenti che si metteva a disegnare.
Disegnare e dipingere – insieme al pianoforte – erano le cose con cui la mamma riempiva le sue giornate lunghe e vuote, in quelle case nascoste dentro le caserme. Case sempre troppo pulite, dai pavimenti lucidi, tutte con lo stesso odore di cera; tutte senza rumori, senza voci.
Spietate.
Giorgio era uguale alla mamma anche in quello. Sin d piccolo era capace di copiare disegni difficilissimi, inventare animali fantastici eppure incredibilmente realistici.
Mezzo gatto e mezzo colombo; mezzo cane e mezza rondine; mezzo drago e mezzo uomo; altri. E soprattutto gli piaceva disegnare i volti. Gli piaceva fare ritratti a memoria. Vedeva un viso, se lo imprimeva nella testa e dopo – anche ore o giorni dopo – lo ricopiava sulla carta. Questo soprattutto gli era rimasto diventando grande. Disegnava a memoria le facce della gente. Erano uguali a quelle viste e contemporaneamente diverse, come se sulle fisionomie di altri venissero innestate la sua inquietudine e le sue paure.
Facce. Facce folli. Facce infelici. Facce gelide, lontane e scostanti come quella di suo padre. Facce crudeli.
Facce remote, piene di malinconia e rimpianto, che guardavano in qualche punto lontano.
Dal lavoro di archivio non era venuto fuori niente. C'erano una trentina di soggetti con precedenti specifici compatibili con le modalità degli stupri su cui stavano lavorando. Qualche stupratore conclamato, guardoni, molestatori da giardini pubblici. Li avevano controllati tutti, no per uno.
Alcuni erano in carcere all'epoca delle aggressioni; altri avevano alibi inattaccabili. Alcuni erano invalidi o vecchi.
Comunque fisicamente incapaci di commettere quel genere di stupro.
Alla fine ne avevano selezionati tre, privi di alibi e il cui aspetto non contrastava con i frammenti di descrizione fisica forniti dalle vittime.
Si erano procurati i decreti ed erano andati a perquisire le loro case. Alla cieca, senza una idea precisa. Cercavano qualcosa di collegabile ai fatti dell'indagine. Anche solo un ritaglio di giornale su quella storia, tanto per dire che c'era – se non un indizio – almeno uno spunto per cominciare a indagare.
Non avevano trovato niente, a parte mucchi di sporcizia e di giornali pornografici.
Per un mese erano andati a battere i posti delle aggressioni per cercare possibili testimoni, qualcuno che avesse visto qualcosa. Magari non proprio l'azione, ma per esempio un tipo sospetto appostato da quelle parti poco prima, qualcuno ripassato di li poco dopo, o i giorni successivi.
Chiti aveva letto che questi soggetti a volte amano ritornare sul posto dove hanno consumato la violenza. Gli piace rievocarla, sul posto appunto; assaporare il senso di controllo, di potere che la violenza gli ha regalato. Così i suoi uomini, e lui stesso, erano andati in giro per ore e giorni, avevano mostrato fotografie, avevano parlato con negozianti, portieri di stabili, guardie giurate, inquilini, portalettere, mendicanti.
Niente.
Stavano cercando un fantasma. Uno stramaledetto fantasma. Chiti pensò esattamente queste parole mentre diceva ai suoi che per il momento si poteva sospendere quel servizio. Era una mattina inondata dal sole di giugno, quasi due mesi dopo l'ultimo episodio. Il periodo di quiete più lungo, da quando era cominciata quella storia. Senza avere il coraggio di confessarselo Chiti sperò che tutto finisse così, come era cominciato. Lo stesso tipo di speranza che il mal di testa notturno passasse da solo.