Quattordici

 

Fino a quel martedì di giugno i miei ricordi si susseguono in una normale sequenza cronologica. Dopo, i fatti presero una strana accelerazione, un ritmo sincopato e surreale. Ci sono solo tante scene, alcune a colori, altre in bianco e nero; spesso mute come certi sogni; a volte con un bizzarro sonoro non sincronizzato.

Queste scene riesco a vederle solo dall'esterno, come uno spettatore.

Molte volte, negli anni, ho fatto lo sforzo di rientrare mentalmente nelle situazioni che avevo vissuto. Ho cercato di rivedere le scene dalle stesse posizioni in cui mi trovavo quando sono accadute, ma non ci sono mai riuscito.

Anche adesso, mentre scrivo, provo e riprovo e, non appena mi sembra di riuscirci, una specie di elastico invisibile mi fa schizzare via e mi fa perdere le coordinate.

Quando torno a mettere a fuoco quella scena, sono di nuovo uno spettatore. Da un'angolazione diversa, a volte più da vicino, a volte da lontano. A volte, e questo è un po' pauroso, dall'alto.

Ma sempre spettatore.

Tornai spesso a trovare Maria. Quasi sempre la mattina, ma talvolta anche la sera tardi. La casa era sempre silenziosa e pulitissima. Quando me ne andavo avevo una leggera nausea e per farla passare mi ripetevo che quella era l'ultima volta.

Qualche giorno dopo ritelefonavo.

Non ricordo una sola conversazione con i miei genitori.

Cercavo di evitare di incontrarli, e quando li incontravo evitavo di guardarli.

Tornavo tardi la sera, restavo a letto fino a tardi la mattina. Uscivo, andavo al mare o da Maria o semplicemente in giro fuori città con la macchina, l'aria condizionata accesa e la musica a tutto volume. Ritornavo il pomeriggio tardi, mi lavavo, mi cambiavo, uscivo di nuovo, rientravo a notte fonda.

Ricordo molte scene di partite a poker, prima e dopo il nostro viaggio in Spagna.

Partite in stanze con l'aria condizionata e il fumo stagnante, su terrazze, in giardini di case al mare. Una volta anche su una barca.

E una volta in un circolo ricreativo. Vale a dire in una bisca. Quella non me la potrò dimenticare mai più.

Francesco di regola non voleva giocare nelle bische. Diceva che era pericoloso, ci esponeva a rischi inutili.

Quello dei circoli ricreativi e delle sale da gioco è un ambiente chiuso, più o meno come quello dei tossicodipendenti. Si conoscono tutti. Con i nostri ritmi – quattro, cinque, anche sei partite al mese – ci avrebbero subito individuato. Avrebbero notato che io vincevo quasi sempre. Poi avrebbero notato che eravamo sempre insieme.

Infine qualcuno ci avrebbe osservato e si sarebbe accorto che io vincevo i piatti più grossi quando era Francesco a dare le carte.

Così giocavamo fuori da quei circuiti, grazie all'incredibile capacità che aveva Francesco di trovare sempre nuovi tavoli e gente nuova, spesso di fuori Bari. Quasi sempre dilettanti che avremmo rivisto al massimo un'altra volta, per la rivincita.

Come facesse Francesco a organizzare tante partite, con tante persone che fra loro non si conoscevano, questo non sono mai riuscito a capirlo.

Nei mesi però era progressivamente cambiato il tipo di giocatore che incontravo al tavolo. All'inizio erano sempre persone con soldi; molti soldi. Persone per le quali perdere cinque, sei, dieci milioni al tavolo da poker, costituiva un fatto molesto, ma non una tragedia personale e familiare. Col tempo, assieme a questi soggetti – sempre di meno – cominciai a trovare persone diverse. Col tempo i nostri tavoli cominciarono a popolarsi – e poi ad affollarsi – di piccoli impiegati, qualche studente come noi, qualche operaio, anche qualche pensionato. A volte poco più che dei poveracci. A volte poco meno. Perdevano come i ricchi ma, per loro, non era esattamente lo stesso.

Le cose non andavano come nei nostri patti originari e ogni episodio era uno smottamento.

Non volevo sapere verso cosa.

  

All'ingresso del circolo stava seduto un uomo calvo in canottiera, con ciuffi di peli neri sulle spalle. Gli dissi che dovevo andare da Nicola. Non sapevo chi fosse, Nicola, ma quelle erano le istruzioni di Francesco. Il calvo si guardò intorno muovendo solo gli occhi e poi fece un cenno con la testa verso l'interno. Attraversai una grande sala che un impianto di aria condizionata vecchio e rumoroso non riusciva a rinfrescare. Vidi decine di videogiochi dall'apparenza innocua. Guerre stellari, corse di auto, sparatorie e così via. Quella sera alle macchinette c'era poca gente. Erano tutti adulti e mentre attraversavo la sala mi chiesi distrattamente a che giochi giocassero. Francesco mi aveva spiegato che molti di quegli apparecchi erano dotati di un dispositivo – attivato da un telecomando o anche solo da una banale chiavetta – che li trasformava in micidiali videopoker. Il cliente chiedeva al gestore di fare una partita. Se non era conosciuto gli veniva detto bruscamente che non ce n'erano di videopoker, in quel circolo.

Giusto in caso fosse un poliziotto o un carabiniere. Se invece il cliente era già conosciuto o veniva presentato, il gestore trasformava il monitor girando la chiave o schiacciando un pulsante del telecomando. C'era gente che perdeva milioni giocando poche migliaia di lire alla volta, per ore e ore. Se l'apparecchiatura non riceveva un impulso per quindici secondi, sullo schermo riappariva automaticamente il gioco innocuo e lecito. Quello che vedeva la polizia se entrava per un controllo, magari dopo aver ricevuto una lettera anonima da qualche moglie disperata.

Dalla sala dei videogiochi si passava a un altro ambiente, più piccolo, con tre tavoli da biliardo. Nessuno giocava, l'aria condizionata si sentiva un po' di più e c'era un altro tipo che mi chiese chi cercavo. Cercavo ancora Nicola.

L'uomo mi disse di aspettare, lì dov'ero. Raggiunse una porticina metallica in fondo alla sala, parlò a un citofono dicendo qualcosa che non riuscii a sentire. Dopo meno di un minuto si affacciò Francesco che mi fece cenno di entrare. Attraversammo un corridoio illuminato a malapena da una lampadina appesa a un filo, scendemmo una scalinata stretta e ripida e alla fine arrivammo a destinazione.

Era uno scantinato dal soffitto basso, con sei o sette tavoli verdi rotondi, già tutti occupati tranne uno. In fondo al locale, dalla parte opposta all'entrata, c'era una specie di banco bar. Dietro, un uomo anziano dall'aria macilenta e cattiva.

L'aria condizionata era ben funzionante lì dentro. Anche troppo, ed entrando ebbi un brivido di freddo. Si sentiva l'odore stantio degli ambienti in cui si fuma molto e il ricambio dell'aria è assicurato solo dal condizionatore.

Sopra ogni tavolo c'era un lampadario verde, nella pretesa di dare un tono professionale a quella bisca di periferia.

L'effetto di insieme era fra il surreale e lo squallido. Uno scantinato semibuio, coni di luce gialla, fili di fumo che si perdevano in volute dall'aspetto vagamente malefico, uomini seduti a cavallo fra quelle luci e l'oscurità.

Arrivammo al banco e Francesco mi presentò il vecchio e due tizi anonimi che avrebbero giocato con noi. Aspettavamo un'altra persona: quella sera si giocava in cinque.

Nell'attesa, Francesco mi spiegò le regole della casa.

Per prendere un tavolo si pagava mezzo milione al gestore. Così, visto che eravamo in cinque, avremmo dovuto dare centomila lire ciascuno. In cambio avremmo avuto un mazzo di carte nuovo, fiches e il primo caffè. Oltre alla possibilità di giocare fino al mattino successivo. Per avere altro caffè, alcolici, sigarette, si doveva pagare un supplemento. Si giocava con una posta di partenza di cinquecentomila lire e alla fine della partita bisognava lasciare al gestore il cinque per cento della vincita. Chi vinceva, naturalmente.

Il quinto arrivò qualche minuto dopo. Si scusò molto per il ritardo, mentre respirava a fatica asciugandosi il sudore dal volto con un fazzoletto bianco dall'aria antica.

Tutto in lui era leggermente fuori posto. Una camicia bianca con uno strano collo che sembrava di trent'anni prima. Capelli grigi un po' troppo lunghi, l'indice e il medio della mano sinistra ingialliti dalla nicotina.

Gli occhi, incorniciati da occhiaie nere e profonde, avevano una strana mitezza attraversata da lampi di angoscia.

Era rasato di fresco e dava un odore di dopobarba che mi ricordò qualcosa della mia infanzia remota. Un odore sentito sulla faccia di un nonno, o di uno zio, o di qualcun altro, già molto grande quando io ero molto piccolo. Qualcosa che veniva dal passato.

Lui sembrava venire dal passato, come fosse uscito da un film neorealista o da un vecchio telegiornale in bianco e nero.

Era un avvocato, o almeno così me lo presentarono. Il cognome non me lo ricordo ma tutti lo chiamavano avvocato, oppure per nome: Gino. L'avvocato Gino.

Ci sedemmo al tavolo, ci portarono caffè, carte e fiches e quando stavo per fare il gesto di prendere il portafogli per pagare la tassa, Francesco mi fermò con uno sguardo e un cenno impercettibile del capo. Non era un posto dove si pagava anticipato, quello. I titolari, chiunque fossero, non avevano problemi di insolvenza dei clienti.

Giocammo per molte ore, e certo più del solito. Se guardo quella scena vedo una nebbia fatta di fumo, luce artificiale e ombre. Da questa nebbia vengono fuori quasi solamente la faccia e i gesti dell'avvocato Gino in tanti fotogrammi, staccati l'uno dall'altro. Non mi ricordo le facce e i nomi degli altri giocatori e probabilmente se li avessi incontrati il giorno dopo non li avrei riconosciuti.

Per tutta la partita avevo osservato solo quel signore di oltre cinquant'anni, dal respiro faticoso, la sigaretta – fumava emmesse del tipo più forte – sempre accesa, l'espressione a prima vista imperturbabile. Mi attirava in modo incomprensibile e ipnotico.

Notando di nuovo che era appena rasato, pensai che doveva essersi fatto la barba apposta prima di venire a giocare. In quello scantinato fumoso e sordido. Fra balordi e delinquenti di vario genere, me incluso.

Ha l'età di mio padre, pensai a un certo punto, e mi sentii a disagio.

Quando perdeva un piatto aveva per un attimo un leggerissimo tremito all'angolo sinistro della bocca. Un attimo dopo però sorrideva, come volesse dire: «Non preoccupatevi per me; assolutamente non preoccupatevi per me. È che sarà un piatto perso!».

Di piatti ne perse tanti. Accettava tutte le scommesse.

Giocava in modo metodico e febbrile insieme. Come se non gli importasse nulla dei soldi che erano lì sul tavolo, sotto forma di lerce fiches. Forse, in un certo senso era proprio così. Forse era lì seduto per una ragione diversa dai soldi.

E però c'era qualcosa di febbricitante, di malato nel suo modo controllatissimo di allungare le fiches verso il piatto, quasi sempre per non recuperarle alla fine della mano.

Avrebbe perso anche se non ci fossimo stati noi, a quel tavolo.

Smettemmo di giocare alle quattro del mattino. Gli altri tavoli erano vuoti, quando ci alzammo; quasi tutte le luci erano spente e nell'aria aleggiava una nebbiolina grigiastra e inquietante.

Naturalmente vinsi e vinse anche, molto meno di me, uno dei due tipi anonimi. Francesco mi avrebbe spiegato che era uno con cui era meglio non avere conti in sospeso.

Ed era meglio non renderlo nervoso. Per questo lo aveva fatto vincere. Per lasciare che, come al solito, tutto filasse liscio; senza intoppi di nessun tipo.

Gli altri, Francesco incluso, persero. Più di tutti l'avvocato Gino. Si accese un'ennesima sigaretta, tirandola fuori dal pacchetto sgualcito e ormai quasi vuoto, e disse che se non mi dispiaceva avrebbe pagato con un assegno, perché ovviamente non portava con sé tutti quei contanti. Se non mi dispiaceva avrebbe postdatato quell'assegno. Non c'era da preoccuparsi perché aspettava dei soldi da un cliente. Questione di due o tre giorni. In ogni caso, per sicurezza, se non mi dispiaceva, avrebbe postdatato di una settimana, quell'assegno. Dissi che non c'era problema e però, non so perché, evitai di guardare Francesco.

Pagammo il vecchio, Francesco pagò in contanti il signore anonimo con cui era meglio non avere conti in sospeso, passarono di mano poche altre banconote e alla fine io mi ritrovai con un assegno postdatato, compilato in una grafia elegante e nervosa. Aristocratica, mi venne di pensare. Così in contrasto con l'aspetto disfatto di quell'uomo. Come fosse l'ultima traccia della persona diversa che una volta doveva essere esistita. In qualche posto sperduto del passato.

Il passato è una terra straniera
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