Ventitré

 

Mi svegliò il rumore di un urto violento, da fuori. Mi alzai e mi trascinai verso la finestra. Avevo la bocca che sembrava impastata col calcestruzzo. Provai a dire qualche parola – sconcia – tanto per verificare che tutto funzionasse. Poi aprii le persiane e mi affacciai.

C'era stato un tamponamento fra camion. Due uomini, vicini al punto dell'impatto, gesticolavano e si muovevano spostando il peso un po' sulla gamba destra, un po' sulla sinistra. Sul marciapiede un gruppetto di spettatori seguiva la scena. I due litiganti erano entrambi alti e grossi, con identiche magliette di cotone scuro tese su spalle e pance ipertrofiche. Si muovevano e gesticolavano quasi a ritmo e sembrava seguissero una specie di coreografia. Tutta la scena aveva una sincronia bislacca, una strana simmetria che non riuscivo a decifrare.

Poi mi resi conto che i due camion erano uguali. Stesso modello, stessi colori – bianco e malva – e stesse scritte sulle fiancate. Appartenevano alla stessa ditta di traslochi, e i due omaccioni indossavano magliette aziendali. A quel punto persi interesse, scrollai le spalle e rientrai.

Francesco non era ancora tornato e così decisi di prendere tempo. Lavarmi, vestirmi, scendere a fare colazione, fumare una sigaretta. Erano le nove passate e in quel modo avrei tirato almeno fino alle dieci. Poi, se Francesco non fosse riapparso, avrei pensato al da farsi.

Non riapparve, e cominciai a sentirmi inquieto. L'euforia della sera prima era scomparsa e adesso, nella sala della colazione di quello squallido albergo, sentii montare l'angoscia e qualcosa di simile al panico. Per qualche minuto pensai di impacchettare la mia roba e scappare via, da solo.

Poi, recuperato un minimo di controllo, chiesi al portiere dell'albergo una cartina di Valencia, lasciai un biglietto per Francesco e uscii.

Faceva molto caldo. La città di quella mattina infuocata era un posto diverso da quello surreale e leggermente incantato in cui avevo vagato la notte prima. I negozi erano tutti chiusi, per le strade pochi passanti, con facce avvilite dal gran caldo. C'era un senso di squallore, di smobilitazione.

All'uscita dall'albergo, Valencia mi sembrò una donna bella ma non giovane che rivedi al mattino dopo averci fatto l'amore tutta la notte. La sera prima era ben vestita, truccata, profumata. Adesso invece si è appena alzata, ha gli occhi assonnati, i suoi capelli ti sembrano troppo lunghi. Lei si aggira con addosso una vecchia maglietta. Tu vorresti essere altrove. E probabilmente anche lei vorrebbe che tu fossi altrove.

Girai per le vie con una strana determinazione. Più avanzava il giorno, più aumentava il caldo, più camminavo a passo rapido. Senza senso, perché non avevo nessuna meta, non conoscevo la città, non avevo nemmeno aperto la cartina e, insomma, non sapevo dove stavo andando.

.. Passai davanti a palazzi che davano un'idea di decadenza e arrivai a dei grandi giardini. Una signora anziana, senza che le chiedessi niente, mi spiegò che eravamo nel letto asciutto di un fiume, il Turia. Questo fiume anni prima era stato deviato e nel letto ci avevano fatto un parco.

È uno strano ricordo senza suoni, quel giorno di sole feroce a Valencia. Solo immagini come in un film muto, ma a colori violenti.

Camminai molte ore, mi fermai a mangiare tapas e bere birra in un bar che aveva tavoli all'aperto, con vecchi ombrelloni scoloriti, camminai ancora a lungo, cercando l'albergo. Quando lo ritrovai ero disposto a sopportarne lo squallore in cambio dell'aria condizionata. Era rumorosa ma funzionava, mentre fuori c'erano più di quaranta gradi.

Il passato è una terra straniera
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