Sette

 

Due giorni dopo Francesco mi telefonò, dicendomi che ci saremmo visti il pomeriggio alle tre. Per cominciare.

Non ero mai stato a casa sua prima, e non me l'ero nemmeno immaginata.

Era un appartamento buio e opprimente. Odore di chiuso, di stantio. Mobili vecchi, ma senza nessuna dignità. Non antichi; vecchi e basta.

La casa era in ordine, ma un ordine strano. C'era qualcosa fuori posto al di sotto della superficie; qualcosa sostanzialmente fuori posto.

Sapevo che Francesco viveva da solo con sua madre, ma quel pomeriggio scoprii che lei era una donna anziana. Con una faccia secca, ostile, piena di risentimento.

Francesco mi fece entrare nella sua stanza e chiuse la porta. Era una stanza piuttosto grande. Lì dentro l'odore stantio che stagnava in tutto il resto dell'appartamento si avvertiva molto meno. Una scrivania da bambini, coperta di libri; libri sugli scaffali, libri per terra e anche qualche libro sul letto. Una grossa scatola di cartone piena di fumetti di Tex Willer e dell'Uomo Ragno. Le pareti spoglie.

C'era solo un vecchio manifesto, con la faccia di Jim Morrison che guardava in un punto imprecisato. Il destino già scritto, tutto, in quello sguardo.

Francesco non disse niente e nemmeno mi guardava.

Aprì un cassetto dell'armadio, ne tirò fuori un mazzo di carte francesi, fece spazio sulla scrivania spostando alcuni libri sparsi, mi indicò una sedia, si sedette sull'altra. Solo a quel punto alzò lo sguardo verso di me. Rimase così per molti secondi, con una strana espressione, come se non sapesse cosa fare. Per la prima volta, da quando lo conoscevo, sembrava vulnerabile. In quel momento ebbi un moto di affetto e di tenerezza per lui.

Alla fine poggiò le carte sulla scrivania.

«Mio padre ha lasciato questa casa quando avevo tredici anni. Era più giovane di mamma e andò via con una donna più giovane di lui. Molto più giovane. Una cosa piuttosto banale, immagino. Due anni dopo ebbe un incidente stradale, con la sua amica. Morirono tutti e due.»

Si interruppe quasi bruscamente, andò alla finestra e l'aprì. Poi prese un posacenere da un cassetto, si sedette e accese una sigaretta.

«Non l'ho mai perdonato. Voglio dire: non semplicemente di essersene andato. Non l'ho mai perdonato di essere morto senza darmi la possibilità di fargliela pagare per essersene andato, lasciandomi solo. Quando morì ebbi una sensazione strana e molto brutta. Provavo un dolore terribile e contemporaneamente una rabbia furibonda. Mi era sfuggito. Maledizione, mi era sfuggito. Non pensavo testualmente queste parole ma il senso era quello. Avevo pensato tante volte a come gli avrei rinfacciato, da adulto, quello che aveva fatto. Io adulto di successo e lui vecchio padre che magari voleva recuperare un rapporto con il figlio abbandonato tanti anni prima. Troppo comodo ora, avrei detto. Troppo comodo dopo che mi hai lasciato da solo quando avevo bisogno di te. Troppo comodo morire in quel modo, senza pagare i conti.»

Strofinò le mani sulla faccia. Su e giù, con forza, come se volesse farsi male.

«Cazzo, gli volevo bene a quello stronzo. Mi sentii solo da morire quando andò via. Cazzo. Mi sono sempre sentito solo, dopo.»

Come aveva cominciato, smise. Bruscamente. Riprese il mazzo di carte, fece due o tre esercizi velocissimi con una mano sola e poi disse che potevamo cominciare.

Il tono di voce era di nuovo quello che conoscevo. La faccia anche.

Prese dal mazzo la regina di cuori e i due dieci neri, fiori e picche.

«Conosci il gioco delle tre carte?»

Lo conoscevo, nel senso che ne avevo sentito parlare, ma non lo avevo mai visto fare dal vivo.

«Allora seguimi. La regina vince, il dieci perde. La regina vince e il dieci perde.»

Lasciò andare delicatamente le tre carte sulla scrivania, una vicina all'altra. Vidi chiaramente che la regina veniva depositata a sinistra.

«Dov'è la regina?»

Toccai con l'indice la carta a sinistra. Lui mi disse di scoprirla e così vidi che era il dieci di fiori.

Come aveva fatto? Le aveva poggiate così lentamente che era impossibile mi fossi sbagliato.

«Rifallo» dissi.

Lui prese la regina e un dieci con la mano destra, tenendole fra il pollice e l'indice e fra il pollice e il medio. Prese l'altro dieci con la sinistra, tenendolo fra il pollice e il medio.

«La regina vince, il dieci perde. Va bene?»

Non risposi, e gli guardavo le mani per non farmi sfuggire nessun movimento. Si mosse di nuovo lentamente, depositò le carte, mi chiese di trovare la regina. Indicai di nuovo la carta a sinistra. Lui mi disse di scoprirla e di nuovo trovai un dieci.

Ripeté il gioco sei o sette volte e io non riuscii mai a scoprire dove fosse la regina. Anche tirando a indovinare, per sfuggire all'illusione di quelle mani che si muovevano in modo ipnotico e inafferrabile.

È difficile spiegare, a chi non l'ha sperimentato, il senso di frustrazione prodotto da un gioco che sembra così semplice. Le carte sono solo tre. La regina c'è, sicuramente, e tutto si svolge sotto i tuoi occhi, a pochi centimetri.

Eppure non hai nessuna speranza di trovarla.

«Le possibilità per lo scommettitore in questo gioco sono molto vicine allo zero. Imparare questa manipolazione è un buon modo per cominciare. Si capiscono subito tutti i principi fondamentali.»

Mi spiegò, e dopo ripeté il gioco due o tre volte, ancora più lentamente. Per farmi capire la tecnica. Anche allora, quando ormai conoscevo il trucco e sapevo dove era la regina, mi veniva di indicare la carta sbagliata.

Poi mi diede le tre carte e mi disse di provare.

Provai. E riprovai e riprovai ancora tante volte. Lui mi correggeva, mi spiegava come dovevo tenere le carte, come dovevo lasciarle andare, come dovevo dirigere lo sguardo – non sulla regina – e tutto il resto.

Era un bravo insegnante, e io un bravo allievo.

Quando smettemmo, forse tre ore dopo essere entrati in quella stanza, avevo le mani che mi facevano male, ma ero già capace di fare accettabilmente quella magia.

Questo mi diede una sensazione di ebbrezza. Bruciavo dalla voglia di farla vedere a qualcuno, magari ai miei genitori appena tornato a casa. Francesco mi lesse nel pensiero.

«Inutile dire che i giochi non si fanno vedere a nessuno, fino a quando non li si padroneggia del tutto. Fare un gioco di prestigio e lasciarsi scoprire è una cosa banale e frustrante. Fare un trucco al tavolo da gioco e lasciarsi scoprire comporta rischi un po' più seri.»

Feci un gesto di sufficienza con le mani, come a significare che mi stava dicendo cose ovvie.

Inutile dire, appunto.

Il passato è una terra straniera
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