Sei

 

Camminammo in silenzio per un paio di isolati fino a una famosa, storica pasticceria, tutta di legno, concreta, piena di profumi antichi e buonissimi. Era quasi sempre vuota, ormai, e la sala da tè sembrava sospesa in un passato indecifrabile.

«È vero che non stai studiando più, Giorgio?»

Rimasi allibito. Come faceva a sapere che non stavo studiando più? Glielo avevano detto i miei genitori, ovviamente. Ma questo significava che i miei genitori e mia sorella si parlavano. E parlavano di me. Cioè due cose inconcepibili.

« È vero.»

«Perché?»

«Te lo ha detto mamma?»

«Me lo hanno detto tutti e due.»

Ci sedemmo a un tavolino. Erano tutti liberi, tranne uno dall'altra parte della sala, dove due signore sulla settantina, con i capelli tinti di azzurro, fumavano sigarette multifilter, circondate da buste di negozi di abbigliamento.

«Quando te l'hanno detto?»

«Che differenza fa? Che ti succede? Stai facendo qualche cazzata?»

Stavo facendo qualche cazzata?

Sì, direi che questa è un'espressione sintetica, forse un po' riduttiva ma insomma, efficace per definire quello che ho fatto negli ultimi mesi.

Non dissi così, ma pensai proprio quella frase e quelle parole.

«No, no. È un periodo... è che non...» Poi pensai che non mi andava proprio di dire fesserie. Avrei voluto raccontarle tutto, invece. Ma questo era impossibile, e così rimasi zitto.

«In qualche modo mi sembra naturale che tu abbia smesso di studiare quella roba. Mi è sempre sembrato strano che tu ti fossi iscritto a giurisprudenza. Quando eri piccolo dicevi che volevi fare lo scrittore. Scrivevi quelle storie sui quaderni delle elementari. Io non le ho mai lette, ma tutti dicevano che eri bravissimo.»

Cioè, mia sorella si era accorta che io, da bambino, scrivevo. Quelle storie, sui quaderni delle elementari. Avevo sempre pensato di essere completamente invisibile per lei, e adesso scoprivo che sapeva delle cose su di me. Questo era incredibile. Mi venne da piangere e allora mi passai la mano sulla faccia, con il gesto di chi ha delle preoccupazioni, ma che comunque tiene tutto sotto controllo. Feci cenno al cameriere. Lui si avvicinò e ordinammo due caffè.

«Vuoi una sigaretta?» le dissi prendendo il mio pacchetto.

«No. Ho smesso.»

«Quante ne fumavi? Tante, è vero?»

«Due pacchetti. A volte anche di più. A parte le altre porcate che mi ficcavo dentro. Come capitava.»

La guardai senza farla ad alta voce, la domanda. Che cosa si ficcava dentro, mia sorella? Avevo capito bene?

Sì, avevo capito bene. Avevo capito benissimo. Mia sorella era stata tossicodipendente da eroina – con incursioni nel campo di altre, varie sostanze psicotrope – per cinque anni. Non ne avevo saputo mai niente.

«Quando... come hai smesso?»

«Le sigarette, o la merda?» Le sue labbra si erano increspate appena. L'ombra di un sorriso, un po' amaro, un po' beffardo. Ovviamente volevo sapere come, quando aveva smesso di farsi. No. In realtà volevo sapere soprattutto come, quando, perché aveva cominciato.

Mi raccontò una storia comune di cui, fino a quel momento, avevo conosciuto solo una parte. I mesi, gli anni a Londra, a Bologna, in giro. L'aborto, i furti, il piccolo spaccio per procurarsi la roba, la vita con quello – non ne disse mai il nome, e io non me lo ricordavo né glielo chiesi – la comunità, il dopo. Che non era il paradiso terrestre.

Tutt'altro. Mi raccontò della vita faticosa e banale che conduceva. Mi raccontò del senso di fallimento, e di vuoto. Di come, nei momenti peggiori, ti venga in mente di farti. Una volta sola, per far passare quel momento. E naturalmente lo sai che non è una volta sola e, in un modo o nell'altro, tiri avanti. Mi disse di come si tira avanti; dei trucchi per tirare avanti; degli amici, pochi, del lavoro.

Delle cose che sono diverse da come le avevi immaginate.

Tutte, o quasi.

Disse che avrebbe voluto un bambino, adesso. Se solo avesse incontrato un uomo che valeva la pena.

Parlò quasi sempre lei. Io l'ascoltai, con una sensazione di tenerezza attonita.

«Non stai facendo stronzate come le mie, vero, Giorgio?» Allungò la mano sinistra sul tavolo e per un attimo toccò una delle mie.

«Giorgio?»

Mi riscossi. Ero rimasto a guardare la mano che lei aveva toccato. Come se potesse essere rimasta una traccia di quel contatto. Così strano.

«No, no. Non ti preoccupare. È solo un periodo un po' di cazzo. Idee un po' confuse e tutto il resto. Capita, credo. Anzi, se hai modo di parlare con mamma e papà, diglielo per piacere. Cioè, di' loro che hai parlato con me – ma non che ti ho detto di parlare con loro – e che è tutto a posto. Non comunichiamo molto, al momento, ma mi dispiace vederli così. Mi fai questo piacere?»

Lei annuì, e sorrise anche. Sembrava sollevata. Poi guardò l'orologio e fece una specie di smorfia del tipo: diavolo, è davvero tardi. Quando stai a parlare non ti accorgi del tempo che passa. Devo proprio andare, adesso.

Non usò queste parole, ma il senso era quello.

Girò attorno al tavolo e prima che facessi in tempo ad alzarmi si abbassò verso di me e mi diede un bacio sulla guancia.

«Ciao, Giorgio. Sono contenta di avere parlato con te.»

Poi si voltò e andò via velocemente. Ero rimasto solo, nella sala da tè. Le due signore con i capelli azzurrini e le sigarette multifilter erano uscite da tempo.

C'era silenzio, e una quiete irreale.

Il passato è una terra straniera
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