Tredici
Martedì mattina pioveva, in modo regolare e insistente.
Insolito per il mese di giugno.
Il rumore della pioggia mi aveva svegliato presto e non ero riuscito a rimanere a letto. Mi ero alzato che erano le otto, non più tardi. Non potevo chiamare a quell'ora e dovevo trovare un modo per far passare il tempo. Allora feci colazione con calma. Mi lavai i denti e mi rasai. Poi, prima di vestirmi, visto che era ancora presto, pensai di riordinare la mia stanza.
Accesi la radio, trovai una stazione che trasmetteva musica italiana con poche interruzioni di pubblicità e cominciai.
Raccolsi giornali vecchi, appunti che non mi servivano più, cianfrusaglie depositate in fondo ai cassetti della scrivania, due vecchie pantofole che erano sotto il letto da chissà quanto tempo e misi tutto in due grandi buste della spazzatura. Sistemai i libri negli scaffali, riattaccai un manifesto — Il regno delle luci, di Magritte — che da molti mesi pendeva sghimbescio, sostenuto da un solo, pericolante pezzo di nastro adesivo. Tolsi persino la polvere con uno straccio umido. Tecnica imparata da bambino quando venivo pagato dai miei genitori per le mie prestazioni di collaboratore domestico.
Alla fine, dopo essermi lavato e vestito, andai direttamente al telefono e senza pensare chiamai.
Di nuovo una conversazione senza sfumature. Una comunicazione di servizio. Volevo raggiungerla subito? Volevo. Se mi spiegava come arrivare a casa sua. Dal numero telefonico mi sembrava dovesse abitare in periferia, dalle parti della frazione di Carbonara. Quando mi spiegò, vidi che non mi ero sbagliato. Stava dalle parti del Circolo
Tennis, un paio di chilometri prima di Carbonara. Zona di ville da ricchi. Appunto.
Quando uscii la pioggia continuava a cadere con regolarità, da un cielo grigio e compatto. Mi infilai in macchina facendo la previsione che non sarei riuscito a lasciare il centro prima di mezz'ora. Il traffico era quello dei giorni peggiori. Di regola avrei dovuto innervosirmi, per questo.
Invece mi rilassò l'idea di restare a lungo in macchina, magari imbottigliato, ascoltando musica — la stessa stazione su cui mi ero sintonizzato a casa — senza pensare niente.
Senza fare niente di quel tempo sospeso.
Così attraversai lentamente la città, fra macchine parcheggiate in doppia fila, pozzanghere da terzo mondo, persone stranite a mezze maniche e ombrelli neri, vigili urbani in cerata. Ascoltavo la radio e seguivo il movimento ipnotico dei tergicristalli che spazzavano via le piccole gocce, fitte sul parabrezza. A un certo punto mi resi conto che stavo impercettibilmente muovendo la testa, al ritmo di quei tergicristalli e quando mi ritrovai dalle parti del
Circolo Tennis non avrei saputo dire che strada avevo fatto, per arrivarci.
Il giardino della villa era circondato da un muro alto almeno due metri, di mattoni ocra. Al di sopra del muro sporgeva una siepe di cedri. Cangianti, fra il verde muschio e il verde turchese. Il resto del mondo era in bianco e nero.
Scesi, suonai due volte al citofono e rientrai in macchina senza aspettare una risposta. In quel preciso istante pensai che mi muovevo come se fossi stato programmato.
Senza un solo gesto deciso da me.
Il cancello automatico si aprì subito, senza fare rumore.
Come in certi sogni.
Mentre imboccavo lentamente il viale di ingresso, in fondo al quale, lontano, si intravedeva una villa a due piani, fui assalito dall'inquietudine. Da un senso violento di irrealtà e da un impulso di fuga.
Tutto era irreale e irrimediabilmente estraneo. La macchina procedeva lenta sul viale fiancheggiato da pini altissimi e io pensai di fare manovra, invertire la marcia e scappare via. Ma quando guardai nello specchietto retrovisore il cancello, silenziosamente come si era aperto, si stava richiudendo.
La macchina andò avanti. Da sola. Fino alla villa.
C'era una specie di portico e lì sotto Maria, che mi fece cenno con un dito, verso destra. Sulle prime non capii e mi venne in mente che con quel gesto mi stesse indicando una via di fuga. C'era qualche problema imprevisto — il marito? — e dovevo scappare, da qualche parte. Per qualche istante ebbi una sensazione che era insieme di panico e di sollievo.
Poi mi resi conto che voleva solo indicarmi dove parcheggiare. C'era una tettoia coperta da un rampicante e lasciai la macchina lì sotto, vicino a una vecchia Lancia che aveva l'aria di essere ferma da chissà quanto tempo.
C'era anche una utilitaria scura. La macchina di Maria, pensai. Attraversai lo spazio fra il parcheggio e il portico con l'impressione di muovermi al rallentatore, mentre la pioggia mi cadeva addosso.
Disse ciao, vieni; ed entrò in casa quando ancora stavo rispondendo al suo saluto. Dentro tutto era troppo ordinato e si sentiva odore di qualche detergente profumato.
In cucina bevemmo un succo di frutta. Parlammo per un poco ma di quello che mi disse l'unica cosa che ricordo è che la donna di servizio arrivava all'ora di pranzo perché la mattina lei non voleva gente in casa. Per allora dovevo essere andato via.
Eravamo ancora in cucina quando attaccò la sua bocca alla mia. Aveva una lingua dura, carnosa e asciutta. Sentivo il suo profumo, che aveva messo sul collo qualche minuto prima del mio arrivo. Troppo, e troppo dolce.
Non mi ricordo il percorso per arrivare a una camera da letto, che certamente non era la sua e di suo marito. La stanza degli ospiti, forse. O delle scopate clandestine. Pulita, ordinatissima, con due letti affiancati, un mobile di legno chiaro e una finestra che dava sul giardino. Si vedevano due palme e, dietro, una siepe.
C'era silenzio in casa e da fuori veniva solo il ticchettio della pioggia. Niente rumori di macchine, niente rumori di persone. Niente. Solo la pioggia.
Maria aveva un corpo asciutto e muscoloso. Il risultato di ore e ore di palestra. Aerobica, body building e chissà che altro.
E però, a un certo punto, mentre ero disteso sulla schiena e lei si muoveva su di me, vidi le smagliature sul suo seno. L'immagine di quel momento — quel seno invecchiato su un corpo di atleta — mi è rimasta nella memoria con una precisione fotografica.
Indelebile e triste.
Mentre si muoveva con metodo attaccata al mio corpo — e anch'io mi muovevo, come in un esercizio di ginnastica — sentivo le narici invase da quel profumo troppo dolce e da qualche altro odore, meno artificiale e altrettanto estraneo.
Quando ci avvicinammo alla conclusione mi chiamò amore. Una volta. Due volte. Tre volte.
Tante volte. Sempre più velocemente. Come in quel gioco di bambini, dove si ripete una parola fino a quando il cervello va in una specie di corto circuito e perde il senso, di quella parola.
Amore.
Dopo, avevo voglia di accendere una sigaretta ma non lo feci. Odiava il fumo, mi aveva detto. Così rimasi fermo, disteso sulla schiena, nudo mentre lei parlava. Nuda, distesa sulla schiena. Ogni tanto si passava una mano all'interno delle cosce, con il gesto di chi si sta insaponando.
Lei parlava, io guardavo il soffitto, la pioggia continuava a cadere e il tempo sembrava immobile.
Non ho nessun ricordo di essermi rivestito, di aver fatto a ritroso il percorso che ci aveva portato in quella stanza degli ospiti, di aver preso accordi per rivederci, di averla salutata. Alcuni fotogrammi di quella mattina sono nitidissimi. Altri sono andati perduti. Subito.
Quando uscii, pioveva ancora.