Nove
La mattina dopo era una bellissima giornata d'inverno, fredda e limpida.
Ero solo a casa. I miei genitori erano usciti mentre ancora dormivo.
Mia sorella Alessandra era uscita tre anni prima. Le mancavano pochi esami alla laurea in giurisprudenza quando informò la famiglia che aveva deciso di abbandonare gli studi. Non sapeva che direzione dare alla sua vita, ma sapeva bene – disse – che direzione non dare.
Non voleva diventare un avvocato, o un notaio, o un giudice. Nulla che avesse a che fare con quelle cose che aveva studiato negli ultimi anni. Semplicemente le detestava.
Dal modo in cui espresse questi concetti – e pochi altri – era chiaro che detestava anche i nostri genitori.
Qualche settimana dopo era partita con un tizio dieci anni più grande di lei, ma con le sue stesse idee, chiare.
Per così dire. Andarono a Londra e ci rimasero per sei mesi, lavorando in un ristorante. Poi ritornarono e andarono a vivere in una specie di comune fuori tempo massimo, in una fattoria vicino a Bologna. Lei rimase incinta, e lui si riprese la sua libertà. Era convinto di essere destinato a grandi imprese e non poteva essere ostacolato da banali impegni familiari.
Alessandra abortì, visse ancora per qualche tempo nella comune, ebbe altre divagazioni maschili tutte piuttosto tristi, credo. Alla fine tornò a Bari, andò a stare per qualche mese da un'amica e poi trovò una piccola casa e un impiego.
Segretaria nello studio di un ragioniere consulente del lavoro. Per intenderci: preparava le buste paga di operai, impiegati, camerieri eccetera. La vita gioca di questi scherzi.
Ogni tanto passava da casa, e qualche volta rimaneva a mangiare. In quelle occasioni c'era sempre una tensione palpabile. I miei genitori cercavano di fare finta di niente, come fosse tutto normale e qualche volta ci provava anche Alessandra.
Ma non era tutto normale. Lei era incapace di perdonare loro il suo fallimento, il loro amore inadeguato, la loro sollecitudine goffa. E così, quasi sempre, la crosta della finzione andava in frantumi e il risentimento che ribolliva subito sotto la superficie veniva fuori come lava. Così lei diceva qualcosa di brutto, o anche di molto brutto a seconda delle occasioni e dell'umore, e poi andava via.
Per quanto riguardava me, in queste occasioni così come sempre, da quando eravamo piccoli, semplicemente, per mia sorella non esistevo. Non ero mai esistito.
Dopo colazione gironzolai per casa, accesi il televisore e passai in rassegna tutto il repertorio dei pretesti.
Alla fine mi sedetti alla scrivania davanti al manuale di procedura civile. E pensai che non avevo nessuna voglia di aprirlo, e non avevo nessuna voglia di restare a casa. Allora uscii.
C'era un freddo inusuale, anche per il mese di gennaio, ma l'aria era pulita e secca. Per via del vento, che aveva spazzato tutto l'umido. Aprendo il portone ebbi una sensazione di gelo sulla faccia e sulle orecchie. Non era una sensazione dolorosa o spiacevole. Si sentiva, quel freddo.
Ti ricordava di avercele, la faccia, le orecchie; tutte le parti del corpo che non erano coperte di stoffa. Il mio umore migliorò subito.
Raggiunsi rapidamente il centro, vagabondai un po' fra le vetrine, mi comprai una camicia, e poi andai in libreria.
Sin da ragazzino ero sempre andato nella vecchia libreria Laterza quando ero in giro e non sapevo che fare. Ci passavo un sacco di tempo, in quella libreria. I libri che volevo leggere erano di più di quelli che potevo comprarmi, e allora leggevo abusivamente, a puntate, fra i banchi e gli scaffali.
A volte rimanevo lì dentro a leggere fino all'orario di chiusura e mi chiedevo sempre se i commessi mi riconoscessero e mi avessero individuato come lettore a scrocco recidivo. Mi chiedevo se un giorno o l'altro mi sarei visto vietare l'ingresso in libreria.
Entrai e respirai l'odore buono e familiare della carta nuova. Era sabato mattina e così c'erano parecchie persone, fra cui alcuni frequentatori abituali, come me. Molti dei quali, come me, restavano a lungo, leggevano gratis e compravano poco. Fra questi mi aveva sempre incuriosito una signora piuttosto anziana – sicuramente sopra la settantina – che d'inverno indossava un giaccone blu del tipo da marinaio, dalla cui tasca sbucava sempre "l'Unità".
Aveva un'aria sbrigativa e simpatica; sembrava che leggere i libri senza acquistarli fosse una specie di lavoro, per lei. Si muoveva con efficienza e la vedevo quasi sempre nel settore dei libri gialli e di terrore e, solo di tanto in tanto, fra i saggi di dottrina politica. Qualche volta mi rivolgeva col capo un cenno di saluto, cui rispondevo alla stessa maniera.
Anche quella mattina era molto presa dalla lettura di un giallo, suppongo, visto che era vicina a quel banco. I nostri sguardi non si incrociarono e io passai avanti.
Vagabondai fra i libri di storia, fra i manuali sportivi, evitai i testi giuridici e finii alla narrativa straniera. C'era un libro nuovissimo, evidentemente appena arrivato. Si intitolava Lo studente straniero e la copertina aveva uno sfondo nocciola su cui si stagliava una specie di statua di gesso. Era un ragazzo che camminava con le mani in tasca. L'autore era uno scrittore francese che non avevo mai sentito nominare.
Ne presi una copia, e probabilmente era la prima che veniva toccata da quando il libro era stato messo in esposizione. Forse quella mattina stessa.
Me lo rigirai fra le mani, lessi la quarta di copertina e ancora adesso me ne ricordo un pezzo a memoria. Parlava della giovinezza e dei suoi "giorni fragili in cui tutto ciò che accade, accade per la prima volta e ci segna in modo indelebile, nel bene e nel male".
Allora lo aprii, per cominciare a leggere le prime pagine, come facevo di solito.
Mi fermai a quella immediatamente precedente il prologo. C'era una citazione, da uno scrittore inglese. Non conoscevo nemmeno quello.
"Il passato è una terra straniera: le cose avvengono in modo diverso da qui."
Non voltai pagina. Invece chiusi il libro, andai alla cassa e lo comprai.
Poi tornai a casa perché avevo urgenza di leggere. In pace, sul mio letto, senza essere disturbato.
Era un romanzo bellissimo e struggente, pieno di nostalgia e di ebbrezza.
La storia di un ragazzo francese e della sua giovinezza nell'America degli anni Cinquanta. Una storia di avventure, di tabù violati, di iniziazioni, di vergogna, di amore e di innocenza perduta.
Per tutto il pomeriggio non riuscii a staccarmi da quel libro; fino a quando non ebbi letto l'ultima pagina. E per tutta la lettura, e alla fine, e dopo – anche dopo tanti anni – non riuscii a liberarmi della incredibile sensazione che, in qualche modo, quella storia parlasse di me.
Finii di leggere che era quasi l'ora di uscire. Allora telefonai a Giulia che era ancora malata, e le dissi che sarei andato al cinema. Con chi andavo? Con il mio amico Donato e quelli del suo gruppo, e mentalmente mi raccomandai di avvertirlo, Donato. Ma mi dispiaceva di non vederla, ancora quella sera? Certo che mi dispiaceva, sì, anche lei mi mancava.
Bluffai. Se voleva potevo andare a farle compagnia invece di andare al cinema. Disse di no, come mi aspettavo.
Disse le stesse cose della sera prima. Era inutile che mi ammalassi anch'io eccetera, eccetera. Va bene, allora ciao, amore, a domani. Ciao, amore.
Quando riattaccai e andai a prepararmi per uscire ero di buon umore.
Ero libero, e pronto, e impaziente.