Ventinove

 

Il viaggio di ritorno fu una corsa ininterrotta ed estenuante, come quello dell'andata.

Andavamo avanti spingendo sull'acceleratore come pazzi, dandoci il cambio senza prendere fiato, rifacendo la strada di qualche giorno prima come fosse il riavvolgimento rapido e indecifrabile di un video senza senso.

Di tutto il viaggio – trenta ore, forse? – mi ricordo solo le curve e i viadotti paurosi dell'autostrada al confine fra Italia e Francia. Nella notte, subito prima dell'alba. Era il mio turno alla guida, mentre Francesco dormiva disteso, con il sedile completamente reclinato. Ero esausto e pensai che sicuramente avrei avuto un colpo di sonno, che saremmo andati contro il guardrail e poi via nel vuoto spaventoso che si intravedeva, di là dall'asfalto, dalle siepi e dai piloni. Francesco non si sarebbe nemmeno accorto di quello che succedeva. Io invece avrei visto e sentito tutto, fino all'ultimo momento.

Non mi fece paura, questo pensiero e continuai ad andare, a una velocità folle per quella strada; non toccando quasi mai il freno; a volte scalando le marce con il motore che ruggiva, allegro e rabbioso; passando vicinissimo, tante volte, al bordo dell'abisso; socchiudendo gli occhi che mi bruciavano e riaprendoli appena in tempo per sterzare dolcemente a una frazione di secondo dall'irreparabile.

  

Arrivammo a Bari che era una dolce sera di agosto, insolitamente fresca e struggente. Una di quelle sere in cui ti accorgi che fra poco l'estate finirà, anche se dura ancora. Quando sei ragazzo e ad agosto compaiono queste avvisaglie dell'autunno, ti prende una malinconia lieve e speciale.

Quella formata da ricordi e nostalgia che si mescolano alla certezza – o all'illusione di avere ancora, tutto intero, il proprio tempo.

La città era uguale e pensai che tutto ritornava al suo posto.

Anche se non sapevo quale.

Comunque stavo per mettermi in tasca un sacco di soldi, e adesso questa idea mi occupava quasi del tutto la mente, mi dava un senso di ebbrezza e di vertigine. Naturalmente non sapevo cosa farne di quei soldi, ma a questo non pensavo.

Intanto il viaggio, la Spagna, Angelica, le mie passeggiate semincoscienti in quella città irreale, quell'alba mitica nel mare, poi la spedizione della droga, gli odori, le luci, i rumori, la mia paura, tutto era lontanissimo. Sembrava accaduto tanto tempo prima, o in un sogno. E in effetti dovevo fare uno sforzo di volontà per convincermi che tutto era realmente accaduto.

Poi, camminando verso casa, pensai per la prima volta ai miei genitori, e al fatto che fra poco li avrei incontrati, se erano rientrati a Bari. Non avevo chiamato più, dalla mattina della partenza, in autostrada. Pensai a quello che mi avrebbero detto – giustamente – sul fatto che ero sparito, che erano stati in pensiero, che ero irriconoscibile, e altro. Quella sensazione lieve di poco prima si dissolse rapidamente. Ebbi l'impulso di cambiare direzione, di scappare altrove.

Poi però mi dissi che ero stanco, troppo stanco, e volevo solo andare a dormire. Nel mio letto. Mi dissi che tutto si sarebbe aggiustato, in un modo o nell'altro.

In un modo.

O nell'altro.

Il passato è una terra straniera
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