Uno

 

È appoggiata al banco, è sola e beve una spremuta. Per terra, vicino alle gambe, ha una borsa di pelle nera e non so per quale motivo vengo attirato proprio da questo particolare.

Mi fissa con un'insistenza imbarazzante. Quando i nostri sguardi si incrociano però si gira. Passano pochi secondi e mi guarda di nuovo. Questa sequenza si ripete diverse volte. Non la conosco, e all'inizio mi chiedo se stia guardando proprio me. Ho anche l'impulso di controllare se ci sia qualcuno alle mie spalle, ma mi trattengo. Dietro il mio tavolino c'è soltanto il muro e io lo so bene perché mi siedo lì quasi tutti i giorni.

Adesso ha finito di bere. Poggia il bicchiere vuoto sul bancone, prende la borsa e viene verso di me. Ha i capelli corti e scuri, i modi decisi ma non del tutto spontanei di chi ha dedicato un sacco di tempo a lottare con la timidezza. O con qualche altra cosa, peggiore della timidezza.

È davanti al mio tavolo. Sta lì senza dire niente per qualche secondo, mentre io cerco un'espressione adeguata. Senza riuscirci, credo.

«Non mi riconosci.»

Non è una domanda, e ha ragione: non la riconosco.

Non la conosco.

Allora dice un nome, qualche altra cosa e poi, dopo una breve pausa, chiede se può sedersi. Rispondo di sì. O forse faccio un cenno col capo, o un gesto con la mano a indicare la sedia. Non lo so.

Certo, per un tempo indefinito non dico niente. E del resto parlare non è facile. Fino a qualche minuto prima ero lì a fare colazione, come ogni mattina, preparandomi per una banale giornata, quando all'improvviso sono stato preso da un vortice e mi sono ritrovato altrove.

In un posto misterioso e straniero.

Lontano.

Eravamo in quattro, al tavolo. Un tizio magro e triste che faceva il geometra. Poi Francesco, io e il padrone di casa. Si chiamava Nicola, aveva più o meno trent'anni, era grasso, fumava molto e respirava male. Il suo naso ostruito emetteva un rumore ritmico e snervante.

Toccava a lui mischiare e dare carte. Ripeteva ancora il giochetto di farle schioccare, divise in due mazzetti che teneva fra il pollice e l'indice, ma era stanco. E nervoso.

Fino a mezz'ora prima vinceva quasi un milione, ma in tre o quattro giri aveva bruciato quasi tutta la vincita. Francesco vinceva, io ero più o meno in pari, il geometra perdeva molto. Stavamo cominciando il penultimo giro di telesina.

«Secca» disse il grosso dopo il taglio. Lo disse con il tono che aveva usato tutta la sera. Da professionista, pensava lui. Un buon modo per riconoscere i polli al tavolo da poker è vedere se hanno un tono da professionisti.

Diede la prima carta coperta e la seconda scoperta. Con un gesto da professionista. Appunto.

Dieci al geometra, una donna a Francesco, un re per me. Lui si servì un asso.

Il passato è una terra straniera
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