Due

 

«Cento» disse immediatamente, lanciando in mezzo al tavolo una fiche ovale, color blu elettrico. Subito dopo si inumidì il labbro superiore con la punta della lingua. Giocammo tutti. Il geometra accese una sigaretta mentre il grosso distribuiva di nuovo.

Otto, un'altra donna, otto, sette.

«Duecento» disse Francesco. Il grosso lo guardò un attimo con un lampo di odio e poi mise anche lui le duecentomila nel piatto. Il geometra andò via. Aveva perso tutta la sera e voleva solo che arrivasse l'ora di chiamare giro.

Io giocai.

Dieci, re, dieci. Toccava a me e dissi duecento. Gli altri giocarono e arrivò l'ultima carta. Otto a Francesco, nove per me, un altro nove al grosso.

«Cip» feci io e il grosso disse subito piatto. Aveva incastrato la scala, con tre otto di fuori? Lo guardai in faccia e vidi le labbra serrate, asciutte. Intanto Francesco chiuse le carte, disse che non giocava e si alzò un attimo come per sgranchirsi le gambe.

Significava che potevo andare tranquillo se avevo più di una coppia, perché il grosso non aveva la scala. Non poteva averla, perché il quarto otto era la carta coperta di Francesco. Così chiesi tempo. Per pensare, dissi, ma in realtà volevo solo assaporare la sensazione di ebbrezza che si prova quando si bara al gioco e si è sicuri di vincere.

«Devo venire a vedere per forza» dissi dopo un minuto, con il tono rassegnato di chi pensa di perdere la mano, ma purtroppo è stato invischiato da un giocatore più furbo e più fortunato. Il grosso aveva due assi e io invece tre re. Così mi presi un piatto da quasi tre milioni, cioè più dello stipendio mensile di mio padre, allora.

A quel punto il ciccione era davvero incazzato. Gli seccava perdere, ovviamente. Ma lo faceva imbestialire perdere con uno scemo. Come me.

La mano successiva la vinse il geometra, ma nel piatto c'erano spiccioli. Poi toccò a Francesco dare carte. Mischiò come al solito in modo anonimo, fece tagliare e distribuì.

Prima la carta coperta e poi quella scoperta. Una donna per me, un re al ciccione, sette al geometra, asso per lui.

«Duecento. Questa è la mano che mi rifaccio.»

Il grosso lo guardò con schifo. Dilettante miserabile, diceva il suo sguardo. Mise le duecento e poi giocai anch'io. Il geometra no.

Le carte girarono di nuovo mentre io mi sforzavo di non guardare le mani di Francesco, anche se sapevo che comunque non avrei visto niente di strano. Né io né tantomeno gli altri. Altra donna per me, altro re al grosso, altro asso per lui.

«Se volete giocare con questi assi dovete pagare. Trecento.»

Il grosso pagò senza dire niente, con lo stesso sguardo di prima. Io rimasi a pensare un po', toccai le fiches che avevo davanti e poi misi i soldi, con aria poco convinta.

Quarta carta. Dieci per me, jack al grosso, sette per Francesco.

«Ancora trecento.»

«Vedo» dissi io.

«Fino a cinquecento» fece il grosso con il suo tono da professionista, inumidendosi il labbro superiore, sforzandosi di controllare l'esultanza. La sua carta coperta era un jack e quella era la sua mano, pensava. Sia Francesco che io andammo a giocare. Io avevo l'aria di chi se la sta facendo addosso e pensa che il gioco sta diventando troppo serio per lui.

Ultima carta. Un altro dieci per me, un altro jack al grosso, donna per Francesco. Che fece un gesto di rabbia incrociando le sue carte. Ovviamente non poteva giocare e così, a quanto sembrava, aveva buttato un milione netto.

Disse più o meno una cosa del genere ma il grosso lo ignorò. Aveva un full di jack e re, e stava già godendosi il suo trionfo, senza preoccuparsi dei dilettanti con cui era finito a giocare. Disse piatto e accese una sigaretta. La sua speranza era che la mia carta coperta fosse un altro dieci.

In quel caso, avendo anch'io un full, sarei andato a giocare e lui mi avrebbe fatto a pezzi. Che sotto potessi avere la quarta donna del mazzo era evidentemente un'ipotesi che non prendeva neanche in considerazione.

Andai a vedere e, appunto, sotto avevo l'ultima donna.

Così il mio full vinceva sul suo e lui abbandonò il tono professionale per chiedere come fosse possibile un cazzo di culo rotto del genere.

Segnammo sul foglietto dei debiti, dove il grosso era ormai alla bancarotta, e giocammo ancora forse per una quarantina di minuti. Senza che succedesse più niente di particolare. Il geometra recuperò qualcosa e il professionista perse ancora diverse centinaia di migliaia.

Alla fine della partita ero il solo a vincere. Francesco mi diede quasi quattrocentomila lire, il geometra staccò un assegno di un milione e poco più. Il grosso, sul suo di assegno, scrisse ottomilioniduecentomila.

Ce ne andammo tutti e tre e, sulla porta, io assicurai che ero a disposizione per la rivincita. Lo dissi con il sorriso trattenuto del pivello che ha vinto un sacco di soldi e vuole comportarsi come si deve. Il grosso mi guardò senza dire niente. Aveva un negozio di ferramenta e, sono sicuro, in quel momento avrebbe voluto spaccarmi la testa con una chiave inglese.

Per strada ci salutammo e ognuno andò via per conto suo.

Un quarto d'ora dopo Francesco e io ci incontravamo davanti all'edicola chiusa della stazione. Gli restituii le sue quattrocentomila e andammo a prendere un cappuccino in un bar di pescatori.

«Hai sentito che rumore faceva il grasso?»

«Che rumore?»

«Il naso, era insopportabile. Cazzo, ci pensi dormire nella stessa stanza con lui? Russerà come un maiale.»

«E infatti la moglie lo ha lasciato dopo sei mesi di matrimonio.»

«Se ti richiama che facciamo?»

«Torniamo, gli lasciamo vincere due o trecentomila lire e poi addio. Debito d'onore pagato e vaffanculo.»

Finimmo i nostri cappuccini, andammo fuori davanti alle barche e accendemmo le sigarette mentre il cielo si schiariva. Fra poco saremmo andati a dormire e qualche ora dopo avrei incassato i due assegni, in banca. Poi avremmo diviso la vincita.

  

Il giorno prima Giulia e io avevamo litigato e lei mi aveva detto che così non poteva continuare; che forse era meglio lasciarci.

Voleva provocare una reazione. Voleva che io dicessi che no, non era vero; magari era solo un momento di crisi che dovevamo superare insieme, e tutto il resto.

Io invece risposi che forse aveva ragione. Avevo un'espressione un po' dispiaciuta, ma niente di più. Era una faccia di circostanza. Mi dispiaceva che lei fosse triste, avvertivo un leggero senso di colpa ma volevo solo che quella conversazione finisse per potermene andare via. Lei mi guardava senza capire. Io la guardavo ed ero altrove, ormai.

Ero altrove da tempo.

Lei si mise a piangere in silenzio. Io dissi qualcosa di banale per attutire il disagio e il peso di quella estraneità dolorante.

Quando finalmente salì sulla bicicletta e se ne andò, provai solo una sensazione di sollievo.

Avevo ventidue anni e, fino a pochi mesi prima, nella mia vita non era successo quasi nulla.

Il passato è una terra straniera
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