Venticinque
Fui svegliato dalla luce, dal caldo, dal naso chiuso, dai dolori alla schiena e nel collo. Avevo dormito per terra, la gola mi bruciava, la lingua era impastata con il palato.
Avevo un senso di nausea e oppressione.
Mi sollevai aiutandomi con le braccia. Francesco e Angelica dormivano sul letto, dalla parte opposta della stanza. Dormivano profondamente e rimasi per qualche minuto a osservarli. Francesco era composto, come sempre.
Disteso sulla schiena, le braccia lungo il corpo, aveva un'aria quieta. Respirava col naso, silenziosamente.
Angelica era rannicchiata su un lato, con una mano fra la testa e il cuscino, rivolta verso Francesco. Mi fece pensare a una bambina. Poi mi ritornò in mente cosa era successo la notte appena trascorsa e dovetti distogliere lo sguardo.
Non sapevo che fare. Mi sentivo così fuori posto lì, con quei due che dormivano, in quella stanzetta calda, impregnata di odori che non volevo sentire. Ma non potevo andarmene. La sola idea di passare un'altra mattina in giro senza meta, sprofondato da solo nel caldo torrido, mi sgomentava.
Mentre me ne stavo lì a pensare, Francesco aprì gli occhi. Non si mosse. Aprì gli occhi e mi guardò senza dire niente. Per qualche istante pensai fosse una forma di sonnambulismo, o roba del genere. Lui si mise a sedere sul bordo del letto.
«Buongiorno» fece.
«Ehi» risposi io.
«Hai già fatto il caffè?»
Lo guardai. Mi sembrava talmente assurda, quella domanda così banale.
«È lì, in quel mobiletto fra la cucina e il lavandino» disse leggermente spazientito.
Che cosa? Stavo per dire, quando mi resi conto che parlava sempre del caffè. Aveva già passato una notte in quella casa, pensai. Così andai fino a quel mobiletto — un orribile oggetto verde pallido, con delle decalcomanie floreali scolorite — presi caffè e caffettiera, preparai.
Bevemmo da tazzine sbeccate. Ne portai una ad Angelica che si era svegliata sentendo le nostre voci, e i rumori.
Prese quella tazza con occhi assonnati e l'aria stupita di chi non è abituato a certi gesti.
Io mi vergognavo di trovarmi ancora lì, con il ricordo confuso della notte prima. Avrei voluto essere lontano.
Avrei voluto sparire.
Angelica si alzò, completamente nuda, andò in bagno e attraverso la tenda che faceva da porta si sentì il rumore della sua pipì. Mi parve che le pareti di quella stanza, già piccola, si richiudessero su di me.
Rimanemmo il tempo di fumare una sigaretta. Quando Francesco disse che dovevamo andare, provai un sollievo sproporzionato.
«Io mi rimetto a dormire» disse Angelica.
«Veniamo da te al bar, stasera o al massimo domani. Dobbiamo vedere un amico» le rispose Francesco.
Seduta sul bordo del letto Angelica ci fece un cenno svogliato col capo, alzando un attimo la mano. Sembrava non le importasse niente di quello che avremmo fatto, o non avremmo fatto. Aveva l'aria stanca, come di chi avesse praticato già altre volte — troppe — quel rituale dei saluti. La stanza, con la luce che filtrava dalle tende e il caldo già opprimente, era carica di un senso di sconfitta.
«Ciao» dissi sulla porta, a voce bassa. Lei non rispose.
Attraverso lo spiraglio della porta che si richiudeva la vidi stendersi sul letto e sparire.
Non la rivedemmo mai più.
«Oggi dovrebbe tornare Nicola, o forse è già tornato» disse Francesco mentre scendevamo per le scale.
Uscimmo nel sole violento. Trovammo una cabina del telefono e Francesco lo chiamò.
«Nicola!»
Sì, eravamo a Valencia. Da tre giorni ormai, dove cazzo se ne era andato? Sì, bene, bene, come d'accordo. Potevamo passare quella sera stessa. No, non c'era problema. Un amico, e un socio. Poteva stare tranquillo. Va bene, sarebbe andato da solo, ma non c'era nulla di cui preoccuparsi.
Gli aveva mai creato dei problemi? Va bene, va bene, a più tardi.
Stava parlando di me. Perché aveva bisogno di rassicurare Nicola?
«Andiamo in albergo. Ci riposiamo ancora un poco e ti spiego.»
Cosa c'era da spiegare? E di quale accordo parlava? Mi chiedevo mentre ci trascinavamo nel caldo assordante, strisciando lungo i muri per recuperare qualche brandello di ombra.
In un panificio comprammo panini e cornetti; passammo da una salumeria e prendemmo formaggio, prosciutto e birre, per mangiare in albergo, dove almeno l'aria era fresca.
E li, al fresco malsano e rumoroso di quell'albergo assurdo, in mezzo alle briciole dei panini e alle lattine di birra rovesciate, Francesco mi spiegò cosa eravamo venuti a fare in Spagna.