Quattro
Cortile di un vecchio complesso di case popolari.
Lasciata la macchina entrammo in uno dei quattro grandi palazzi senza ascensore che componevano il caseggiato.
Per le scale, fra il primo e il secondo piano, c'era un tipo magro appoggiato al muro che fumava una sigaretta.
Francesco lo salutò, quello rispose al saluto con un cenno del capo e poi, sempre con un cenno del capo, indicò me.
Interrogativo. Chi ero?
«È mio amico.»
Fu sufficiente, e così passammo e salimmo altre due ampie rampe di scale. Bussammo a una porta e dopo qualche secondo – qualcuno guardava dallo spioncino – ci aprì uno che sembrava il fratello maggiore di quello che stava per le scale.
L'interno dell'appartamento era davvero strano. Un piccolo ingresso-corridoio sulla destra dava in una stanza molto grande. C'era un banco da bar, come in certi piccoli alberghi, alcuni tavolini e poche persone sedute a bere e a fumare. Sembravano in attesa di qualcosa. A basso volume un giradischi suonava, graffiandola un po', la colonna sonora del film Cabaret.
Sulla sinistra una stanza più piccola, in fondo alla quale se ne apriva un'altra. Tavolini con panno verde e gente che giocava a carte.
Francesco mi fece entrare nella stanza con il bar.
«Siediti qui due minuti. Prenditi qualcosa da bere, io torno subito.» E senza aspettare una risposta entrò nell'altra stanza, la attraversò e poi scomparve. Io mi sedetti all'unico tavolino libero. Nessun cameriere venne a chiedermi di ordinare, nessuno dietro il banco. Così rimasi seduto senza fare niente e con l'impressione che tutti mi stessero osservando, chiedendosi chi ero e cosa ci facevo lì dentro.
In realtà nessuno faceva caso a me. Parlavano fra loro, a ciascun tavolo e ogni tanto qualcuno si voltava a guardare verso l'altra stanza. Erano quasi tutti uomini. Di nascosto, senza farmi notare, mi misi a osservare le due sole donne. Una era bassa e grassa, con gli occhi sottili e ravvicinati, un'espressione brutale. Era al tavolo con due uomini dall'aspetto insignificante e parlava sempre lei, a voce bassa e con tono di ira contenuta a malapena.
L'altra era bruna e bella, anche se doveva avere almeno quindici anni più di me. Un maglioncino di lana con il collo a v lasciava intravedere la parte iniziale della linea dei seni. Era l'unica, in quella sala, che avrei voluto mi notasse. Ma lei era molto presa da un tipo in giacca, cravatta e accendino d'oro massiccio.
Stavo fantasticando sulla signora bruna, e non erano pensieri di cui avrei discusso con le mie vecchie zie, quando Francesco si materializzò sulla sedia di fronte a me.
«Emma.»
«Scusa?» dissi dopo un leggero sobbalzo.
«Si chiama Emma. È la moglie separata di C.M. Quello dei surgelati, non so se hai presente. Quindici milioni al mese di alimenti e casa su piazza Umberto. Un po' ritoccata qua e là, ma complessivamente una gran figa. Non hai preso niente da bere?»
«Non c'era nessuno...»
Francesco si alzò, passò dietro al banco e riempì due bicchieri di whisky. Tornò al tavolo e me ne passò uno. Poi accendemmo le sigarette.
«Allora, perché hai fatto quello che hai fatto, stasera?»
«Non lo so. Non avevo mai dato una testata a nessuno in vita mia.»
«Be', strano. Da come gli hai rotto il naso sembravi un professionista. Ti ha insegnato qualcuno?»
Effettivamente mi aveva insegnato qualcuno.
A quattordici, quindici anni io e i miei amici frequentavamo una sala da biliardo vicino casa. Perlopiù giocavamo a ping pong e qualche volta al biliardo americano. Il posto non era elegantemente frequentato e una volta dissi una parola di troppo con uno che di mestiere, a sedici anni, faceva già il criminale. Intendo il criminale vero. Spacciava, rubava macchine e tutto il resto. Il suo nome non l'ho mai saputo, ma tutti lo chiamavano, in sua assenza, 'u Zuzzus, lo Zozzo. L'igiene personale non era la sua principale passione.
Naturalmente mi stava suonando come un bongo, senza che i miei amici facessero niente. Ci mancava solo che cominciassero a fischiettare, guardando da un'altra parte.
Comunque, mentre le prendevo cercando di limitare i danni, si mise in mezzo un altro. Anche lui faceva il criminale, era più vecchio – forse diciotto anni – più grosso dell'altro e soprattutto notoriamente molto più pericoloso.
Si chiamava Feluccio. Feluccio 'u Gross, il Grosso. Gestiva gli affari illeciti e faceva rispettare l'ordine su tutto l'isolato della sala da biliardo. Naturalmente aveva un'idea personalissima dell'ordine, ma questo è un altro discorso. Per ragioni sconosciute gli ero simpatico.
Mi offrì una birra dreher e uno strofinaccio con dentro il ghiaccio, per i lividi. Disse che non potevo farmi dare mazzate in quel modo. Io risposi che potevo eccome, e lo avevo appena dimostrato ma lui non colse il sottile umorismo. Era preoccupato per il mio destino nella giungla urbana e decise che sarei diventato suo allievo. Aveva sviluppato un suo metodo di combattimento. Se fosse nato in Oriente magari sarebbe diventato un grande maestro.
Invece era a Bari, quartiere Libertà, ed era Feluccio 'u Gross, campione di combattimento sui marciapiedi e di mazzate allo stadio. E altro.
Nel cortiletto sul retro della sala da biliardo Feluccio 'u Gross mi insegnò a dare le testate sul naso, le ginocchiate nelle palle, gli schiaffi sull'orecchio per assordare l'avversario, le gomitate al mento. Mi insegnò a far cadere uno più grosso di me tirandolo per i capelli e contemporaneamente colpendolo con un calcio all'interno del ginocchio.
Non so dove saremmo arrivati se un giorno il mio maestro non fosse stato arrestato dai carabinieri, per una rapina. Così terminò il mio apprendistato nell'arte del combattimento di strada.
«E così so dare le testate. Almeno stasera ho scoperto che funziona.»
«È una bella storia» disse Francesco quando ebbi finito di raccontare.
«È vero, è una bella storia. Cos'è questo posto?»
«Lo vedi, no? E, diciamo, una specie di casinò. Illegale, ovviamente. Qui la gente aspetta di giocare. Nella prima stanza si gioca, ma in modo tranquillo. Nelle altre» fece un gesto vago con la mano, «si gioca più seriamente.»
Bevve un sorso di whisky e poi riprese a parlare stropicciandosi gli occhi.
«Ho parlato con quell'amico» fece lo stesso gesto con la mano, «e adesso possiamo stare tranquilli. Qualcuno andrà a trovare i nostri amici di questa sera e gli spiegherà che non conviene fare altro casino. E basta.»
«Come mai conosci... questa gente?»
«A volte vengo qui a giocare.»
In quel momento arrivò un altro gruppo di persone.
Tre ragazze più o meno della mia età e due uomini, molto più grandi. Sulla quarantina, almeno; con rolex, vestiti costosi e facce in sintonia. Una delle ragazze guardò a lungo Francesco, come se cercasse di incontrare il suo sguardo.
Senza mai riuscirci.
«È ora di andare, direi, a meno che non hai voglia di provare qualche tavolo.»
«No, no. Andiamo.»
Così ci alzammo e andammo verso l'ingresso. Francesco non fece cenno di pagare per il whisky. Io stavo per dire qualcosa, preoccupato che un energumeno ci inseguisse per le scale e ci sparasse nelle gambe, come pena per l'insolvenza fraudolenta. Poi pensai che Francesco sapeva quello che faceva. Magari aveva un credito aperto in quella bisca, pardon, casinò e, insomma, non dissi niente.
La ragazza continuò a seguire con lo sguardo Francesco fino a quando non fummo usciti dalla stanza. Salutammo il signore che stava alla porta, salutammo quello che stava per le scale e riemergemmo nel cortile.
Quando arrivammo davanti al portone di casa mia,
Francesco mi chiese se una di quelle sere mi andava una partita a poker. A casa di amici, ci tenne a precisare cogliendo la perplessità nel mio sguardo. Gli dissi il mio numero di telefono — lo mandò a memoria, senza scriverlo — e ci salutammo stringendoci la mano.
Era in debito con me, disse attraverso il finestrino abbassato quando già ero sceso dalla macchina e armeggiavo con la serratura difettosa del portone. Mi girai e lui era ripartito.
Andai subito a letto, e rimasi sveglio fino a quando la luce dell'alba cominciò a filtrare dalle fessure delle tapparelle.