Quindici
Qualche giorno dopo, alla data indicata sull'assegno dell'avvocato Gino, andammo in banca per incassare e dividere. Come al solito.
Il cassiere fece i consueti controlli e poi disse che gli dispiaceva ma il conto era in rosso e dunque l'assegno era scoperto. Non era mai capitato e io, insensatamente, mi sentii colto sul fatto. Pensai che il cassiere mi avrebbe chiesto come l'avevo avuto, quell'assegno; che mi avrebbe incalzato con altre domande e, scrutando la mia espressione colpevole, mi avrebbe scoperto. Il silenzio durò alcuni secondi, lunghissimi. Non sapevo cosa dire e, semplicemente, avrei voluto non essere lì, comunque ci fossi arrivato.
Poi sentii la voce di Francesco, che era appena alle mie spalle. Disse al cassiere di ridarci l'assegno, per piacere, perché evidentemente c'era stato un equivoco con il cliente. Disse proprio così: «Deve esserci stato un equivoco con il cliente». Cose che capitano. Avremmo risolto noi il problema, non era necessario formalizzare la cosa, protesti o cose simili. Grazie e buona giornata.
Qualche istante dopo eravamo fuori dalla banca, nell'afa dell'estate barese.
«Quello stronzo. Dovevo aspettarmelo.» Per la prima volta, da quando lo conoscevo, Francesco sembrava arrabbiato. Davvero arrabbiato.
«La colpa è mia. Non bisogna giocare nelle bische e non bisogna giocare con quelli. Cazzo.»
«Quelli chi?»
«Drogati. Giocatori patologici. Tossicodipendenti da tavolo verde. Come quello, appunto.» Nelle parole e nel tono di Francesco c'erano violenza e disprezzo. Per qualche ragione questo mi parve naturale, anche se non capivo perché.
«Lo hai visto come giocava?» Fece una pausa, ma non era per sentire la mia risposta. E io, infatti, non dissi niente.
«Quelli come lui giocano come altri si fanno di eroina. Sono tossici. E non ti puoi fidare, proprio come con i tossici. Rubano alla madre, al padre, alla moglie. Rubano ai figli, per venire a sedersi al tavolo una volta di più. Chiedono soldi in prestito agli amici e poi non li restituiscono. Pensano di saper giocare e se li senti parlare sembra che conoscano metodi scientifici, infallibili per vincere sempre. Quando poi si siedono al tavolo giocano come dei pazzi. E quando perdono vogliono subito tornare a giocare. Ne vogliono sempre di più. Ne hanno bisogno, perché giocare gli dà l'impressione di essere vivi. Pezzenti. Tutti pezzenti. Non esiste una persona più inaffidabile di uno di questi. E io mi sono seduto allo stesso tavolo, e lo sapevo. E’ colpa mia.»
Francesco continuò a parlare ma io a un certo punto mi distrassi. La sua voce diventò un sottofondo mentre a me parve di intuire la ragione di quella rabbia. Per qualche istante, o per un tempo più lungo che non so dire, mi parve di cogliere il senso nascosto, di quello che stava dicendo.
Poi quel senso si dissolse, improvvisamente come si era formato.
Molti anni dopo avrei letto che il gioco d'azzardo patologico è un tentativo di controllare l'incontrollabile, e dà ai giocatori l'illusione di essere padroni del proprio destino. E mi tornò in mente — chiarissima — l'intuizione di quella mattina.
Francesco era così pieno di risentimento parlando dell'avvocato Gino perché quel disgraziato era il suo doppio.
Era il suo specchio. Era insopportabile guardare quello specchio e allora lui lo distruggeva, pensando di distruggere la sua paura.
Avevano tutti e due la stessa febbre dell'anima. Anche Francesco, manipolando le carte — e le persone —, rincorreva l'illusione di dominare il destino.
Tutti e due, in modo diverso, camminavano sull'orlo dello stesso precipizio.
Io li seguivo. Molto da vicino.
Andammo a sederci sotto gli ombrelloni di un bar all'aperto, sul lungomare dei grandi palazzi fascisti, vicino alla Pinacoteca.
Francesco disse che dovevamo per forza recuperare quella somma. Lui aveva pagato, la sera stessa della partita, i soldi che aveva perso. Li aveva persi deliberatamente, con quel signore pericoloso di cui non ricordavo nemmeno la faccia, per evitare qualsiasi sospetto sulla regolarità della partita. Poi c'era la spesa del tavolo, la percentuale sulla vincita che io avevo versato al gestore della bisca eccetera.
Per prima cosa dovevamo recuperare quelle perdite. In un modo o nell'altro, disse col tono neutro di chi sta discutendo una questione di bilancio aziendale. La faccia però aveva un'espressione che non mi piaceva. Per niente.
Avevo la sensazione che qualcosa stesse per andare storto. La sensazione che qualcosa — niente di buono — fosse imminente. La sensazione di essere vicino a un punto di non ritorno.
Così ipotizzai debolmente di lasciar perdere quel poveraccio. Quei soldi non ci erano indispensabili, ne avevamo più di quanti ce ne servissero, avremmo diviso la perdita e chiuso la questione.
Questo non gli piacque.
Rimase in silenzio per un po', con le mascelle serrate come se stesse sforzandosi di trattenere l'ira. Poi, senza guardarmi, prese a parlare a voce bassa e tesa. Aveva il tono gelido, quasi metallico di chi parla a un subalterno che non ha saputo stare al suo posto. Diventai rosso, ma lui non se ne accorse. Credo.
Non era una questione di soldi. Non solo. Non potevamo lasciare cadere la questione di un debito di gioco non pagato. Avrebbe suscitato sospetti, la voce sarebbe circolata, in un modo o nell'altro, e per noi sarebbe stato l'inizio della fine. Dovevamo recuperare quel credito. Tutto quel credito.
Non feci le domande che sarebbero state naturali. Sul come poteva mai girare la voce, se il solo a sapere era quel tipo. Che certo non sarebbe andato a sbandierare di aver pagato un debito di gioco di milioni con un assegno scoperto.
Non replicai perché volevo che smettesse di usare quel tono. Non volevo che fosse arrabbiato con me. Volevo che non mi togliesse la sua approvazione.
Così mi dissi che non avevamo scelta. Aveva ragione lui.
Non potevamo lasciar passare un fatto del genere; era un rischio inaccettabile. Dovevamo recuperare quei soldi perché — mi dissi confusamente — altrimenti per noi sarebbe finita. Mi dissi confusamente molte cose, per convincermi.
Man mano che me le dicevo quelle cose, il mio disagio si attenuava. Man mano che trovavo delle motivazioni per dar ragione a Francesco, la mia ansia si scioglieva nell'ottusa, falsa e rassicurante convinzione di non avere alternative.
Così alla fine annuii, con l'aria e il tono di un uomo d'affari, persuaso da un altro uomo d'affari a una operazione necessaria anche se spiacevole.
Perché era chiaro, molto chiaro, che quei soldi non saremmo andati a chiederli per piacere.