Capitolo quarantuno
Prendo lo zaino dall’armadio e vado in corridoio. Il respiro di Jacob è irregolare. Le chiavi del furgone non sono tra quelle vicino al telefono all’entrata. Dove sono? Anche la linea telefonica è di nuovo muta. Chi potrebbe arrivare in tempo prima che si svegli? E lui cosa potrebbe fare? Buttarmi da un dirupo? Fracassarmi la testa con un’ascia?
Vado nel garage e chiudo piano la porta per non fare rumore.
Il furgone è chiuso. Dove cavolo sono le chiavi? Sento un rumore e la porta che dà sul corridoio si apre, illuminando il garage. Mi accovaccio vicino alla muta appesa al muro, nascondendomi dietro il furgone.
«Cercavi queste, Kyra?». Ha le chiavi in mano e le fa dondolare.
Come fa a essere già sveglio? Sapeva delle pillole nel caffè. Non rispondo. Per favore, vattene.
«Dove sei?», chiede.
Spero non mi senta respirare. È tra me e il pulsante per aprire il garage.
«Credevi davvero che non ti avrei scoperta?».
Non rispondo.
«Non dovresti guidare. Potresti perderti o, chissà, impantanarti. Con questo vento, potrebbe cadere un albero sul furgone».
Continuo a non rispondere. Le orecchie mi pulsano.
«Sei stata nel mio studio».
Il cuore quasi mi esplode nel petto.
«Non saresti dovuta entrare nel mio computer».
Non dico ancora niente.
«Senti, tutti litigano. Le coppie sposate hanno alti e bassi. Risolveremo anche questa».
Non siamo sposati!, vorrei gridare. Non lo siamo mai stati. «Come hai fatto a farmi uscire dalla riabilitazione e portarmi qui?»
«Siamo venuti in traghetto, come ti ho detto».
«Dov’era Aiden?»
«Non lo so. Perché ora parli di lui?»
«Mi hai mentito…».
«Ti volevo proteggere. Povero Aiden, è quello che ci ha rimesso di più».
«Non hai risposto alla mia domanda. Come hai fatto a farmi uscire dalla riabilitazione mentre Aiden era in coma?»
«Non è stato difficile. Venivo a trovarti spesso, ma non ti ricordi».
«Non ti avrebbero permesso di prendermi! Io non te l’avrei permesso!».
«Non dovresti agitarti così, non stai bene».
«Perché mi hai portata qui?»
«Vieni, ti preparo un tè alla menta piperita».
«Mi hai mentito. Tutto questo è una bugia. Dimmi la verità».
«Ti ho sempre detto la verità, non ho niente da nasconderti. Se vogliamo che il nostro matrimonio abbia delle basi solide…».
«Non siamo sposati».
«Sei stressata. Ma mi prenderò cura di te».
«Che vuol dire che ti prenderai cura di me? Sei un bugiardo e un rapitore».
«Rapitore! È un’accusa pesante».
«Mi hai portata qui con l’inganno».
«Non è vero. Speravo che potessi ricordarti di noi. Hai iniziato a ricordare, no? Ti avrei detto tutto al momento giusto. Mi hai solo anticipato».
«Mi avresti detto tutto? Davvero, Jacob? E quando?»
«Quando ti fossi finalmente ricordata che mi ami. Ci stavi arrivando. Ci stai arrivando».
«Non ti ho mai amato».
«Certo che sì».
«Niente di tutto questo è vero».
«Qui hai una vita da sogno: in mezzo alla natura, con le tue conchiglie e i tuoi libri, lontana dalla tecnologia. Hai sempre detto che era quello che volevi».
«Lontana dalla tecnologia. È a te che conviene, non certo a me. Mi hai tenuta lontana dalla mia vita».
«È questa la tua vita… Hai anche la tua roba».
«Come hai fatto? A prendere i libri, le conchiglie e le scatole con le mie cose?»
«Ci siamo fermati a casa tua. Ma quello che conta era già qui».
«I vestiti che ho portato la scorsa estate, quand’ero qui con te. Quando abbiamo avuto la relazione».
«Sei mia moglie. Era quello che volevo, e quando voglio…».
«Quando vuoi qualcosa, la ottieni sempre», lo interrompo. «Vero? Non potevi sopportare l’idea che stessi con Aiden e mi hai rapita».
«Che parolone», dice calmo. «Sei sempre stata mia».
Faccio un respiro profondo. «Come hai fatto a passarla liscia?»
«Il buon zio Theo è tornato utile».
«Ti sei… finto zio Theo? Ma come…?»
«Non potevo far finta di essere Aiden; il personale sapeva che era in coma. Non capisco perché non ha continuato a dormire».
«Zio Theo…».
«Lo vorresti chiamare? So che qui ti senti lontana dalla famiglia, ma dubito ti riconoscerebbe».
Mi guardo intorno in cerca di una via d’uscita. Se cercassi di aprire a mano la saracinesca del garage, Jacob mi sarebbe subito addosso. Ma non si sta avvicinando né ha cercato di prendermi e trascinarmi in casa. «Come hai fatto a farmi uscire?»
«Hai acconsentito a venire con me e loro ti hanno dimessa».
Sono ancora accucciata dietro la macchina. Nel garage fa freddo. «Torno in città». Mi rendo conto io stessa che è solo un’illusione, ma una parte di me spera che Jacob riesca ancora a ragionare.
«Perché? Ti piace stare qui. Senti, quando hai deciso di voler dare un’altra possibilità a Aiden mi hai sorpreso. Non ti merita. Dovevo mettere in moto un altro piano».
«Devo tornare da lui. Che cosa gli hai fatto? Gli hai manomesso l’ossigeno?». Mi trema la voce. Mi guardo intorno per cercare qualcosa da usare come arma. Gli attrezzi da giardino sono dall’altra parte del garage.
«La sua miscela di gas, vuoi dire. La sua aria. Chi ti ha messo in testa queste idee?». Si sta avvicinando, sta passando la mano sul cofano della macchina.
«Hai cercato di ucciderlo durante l’immersione?». Mi accuccio dietro il paraurti. Le bombole impolverate sono nello scaffale accanto a me.
«Ci sono tantissimi motivi per cui un’immersione può finire male, Kyra. È difficilissimo determinare la causa di un incidente».
«Hai fatto qualcosa al tubo della pressione o alla valvola, vero?». Pian piano prendo la bombola dallo scaffale.
«È stato un incidente. Chiedi a chi vuoi, te lo confermerà. Non c’è modo di provare il contrario».
«E la reazione allergica di Van? Hai qualcosa a che fare con quella?»
«Kyra, Kyra. Pensi sia così crudele?»
«Lo so per certo. Allora? Sei stato tu?»
«Van dovrebbe stare attento a quello che mangia e dovrebbe tenersi un’EpiPen in casa, non credi?»
«Devi lasciarmi andare. Tutto questo è stato un er-
rore».
«Non dire così».
Ora è troppo vicino. Arriva dove sono io e si sporge per afferrarmi. Sollevo la bombola e la scaglio con tutte le mie forze. Lo colpisco alla testa – sento il rumore orribile – e lui cade per terra. Il sangue gli cola da una tempia. Sta gemendo e ha una mano premuta sulla ferita.
Schiaccio il pulsante per aprire il garage e la saracinesca si solleva; faccio per prendere la bici, ma non si muove. È incatenata a quella di Jacob. Con due lucchetti. «Cos’hai fatto?», grido.
Sta ancora gemendo e si tiene la testa.
«Dammi le chiavi del furgone».
«Non puoi… guidare. Ti farai male».
«So guidare. Dammele».
«Vieni a prenderle».
Non riuscirò mai a prendergliele con la forza. Afferro lo zaino e mi precipito fuori, al vento. Scendo i gradini che vanno alla spiaggia due per volta, e quando raggiungo la sabbia inizio a correre. La marea si sta alzando. Mi giro: non mi sta seguendo, non ancora.
Continuo a correre, e appena arrivo all’ultima curva che conduce alla spiaggia isolata di Doug Ingram, la marea raggiunge il terrapieno. Mi fermo per prendere fiato. Una voce nel vento mi chiama. Non capisco cosa dice. È Jacob. È ancora lontano, un puntino sulla spiaggia, ma si sta avvicinando. La ferita lo rallenta, ma alla fine non riuscirò a sfuggirgli. Mi immergo nell’acqua gelida, sto perdendo sensibilità ai piedi. La corrente mi sferza le gambe, ma vado avanti, annaspando mentre mi trascino sulla spiaggia. Crollo sulla sabbia, senza fiato.
Non sta succedendo davvero. Al molo non c’è nessuna barca. Douglas Ingram se n’è andato.