Capitolo due

Nel grande bagno padronale, mi passo le mani tra i capelli. La mia chioma ondulata sta crescendo a una velocità allarmante. Riconosco a stento le mie guance incavate, l’espressione tormentata e la cicatrice sulla tempia destra, appena più su del sopracciglio. Ma sono io. I lineamenti sono i miei – grandi occhi castani, ciglia folte, bocca piena, zigomi alti, la piccola fossetta sul mento. Ma l’incisivo sinistro è scheggiato. Com’è successo?

Come ho fatto a finire qui, nel grande bagno di questa bellissima casa, con un marito tanto premuroso? Quattro anni fa avevo il cuore spezzato, il mio ragazzo mi aveva appena scaricata. Avevo una stanza in affitto in un palazzo vittoriano pieno di spifferi, il mio futuro era incerto. Se chiudo gli occhi, riesco ancora a sentire il rumore del traffico, lo stridore del 70 che frena all’angolo tra la Cinquantesima e Brooklyn Avenue. Riesco a vedere la trapunta ammucchiata sul letto, la luce della sveglia; ricordo la solitudine, il mio desiderio di scappare dalla prigione della vita cittadina. Riesco a vedere il bagno buio con l’intonaco leggermente ammuffito, le piastrelle scheggiate e la vasca con i piedini che affacciava su un cortile piccolissimo circondato dall’ammasso di case del quartiere di Seattle in cui vivevo. Sono quasi lì, di nuovo – nella mia mente ero lì solo qualche settimana fa. Immaginavo che alla fine me ne sarei andata da quella vita caotica, ma non avevo previsto che avrei incontrato un uomo come Jacob, o che avrei vissuto con lui su quest’isola ventosa.

Devo ricordarmi che gli anni sono passati. Col tempo mi sono innamorata di lui, siamo venuti sull’isola dopo molto pianificare e riflettere. Il nostro rapporto si è evoluto. Non è successo niente all’improvviso o per caso.

Eppure, mi aspetto ancora di sentire la risata della mia coinquilina, di trovare il suo asciugamano per terra, il suo reggiseno appeso alla maniglia della porta. Invece ho questo bagno ordinato tutto per me. Sul ripiano sono allineate le mie creme, il dentifricio, i flaconi di diazepam, alprazolam e le confezioni di zolpidem. È strano prendere tutti questi farmaci, quando prima non usavo neanche l’aspirina se avevo mal di testa. Ma eccomi qui, piena di pillole come una drogata. Lo zolpidem, che sull’etichetta si chiama Ambien, dovrebbe aiutarmi a dormire.

Ma non voglio altro aiuto. Qualche giorno fa ho smesso di prendere le pillole, e senza sostanze chimiche in circolo ho la mente più lucida.

Mi lavo la faccia, che sembra una maschera sconosciuta di pelle e ossa. Mi lavo i denti e passo il pettine tra i capelli annodati. Ogni ciocca ha quattro anni più di quanto ricordi – magari la maggior parte dei capelli è nuova, quelli vecchi avranno terminato il loro ciclo di vita di due-sei anni senza che me ne rendessi conto.

Quanto, del mio corpo, è lo stesso di prima? I globuli bianchi vivono solo qualche settimana, quelli rossi più o meno quattro mesi, ma i neuroni durano tutta la vita. Quando muoiono non vengono sostituiti. Non ricordo dove ho imparato queste cose né come, ma so che sono solo l’ombra di quella che ero, spettrale come un sogno.

Non riesco a ricordarmi di me in questa casa, o delle notti che ho passato con Jacob nella camera da letto con vista sul mare. Ora dormo qui da sola, mentre mio marito è in esilio nella stanza degli ospiti. Non ricordo di aver guardato fuori da queste finestre che occupano due pareti, né di aver dipinto le altre due di azzurro chiaro. Sono occupate da librerie e da una specchiera moderna. Sugli scaffali, i libri rivelano la mia professione. Principi della biologia marina, Introduzione all’oceanografia e titoli più interessanti: L’anima di un polpo, Spirali nel tempo: vita segreta delle conchiglie. Davanti c’è una cartella con un’etichetta: “Kyra Winthrop, docente, invertebrati intercotidali”. Sui fogli all’interno, avevo preso appunti per le mie lezioni con una calligrafia decisa, non come quella di adesso, tremolante e insicura.

Ma una volta ero sicura di me. Questa sicurezza trapela da una foto del matrimonio appoggiata su uno scaffale. Sto ballando con Jacob al ricevimento, la gonna del mio vestito bianco sgargiante si gonfia intorno a me. Ho un sorriso contento. Jacob è particolarmente affascinante nel suo completo su misura, i lineamenti marcati. Il modo in cui ci guardiamo mi fa stringere il cuore. Deve sentirsi solo, sdraiato nella stanza degli ospiti in fondo al corridoio, con la speranza che mi infili nel suo letto. Ma ho bisogno di tempo per conoscerlo di nuovo. Per conoscere me stessa.

Distolgo lo sguardo dalla foto e cerco un paio di pantaloni della tuta nei cassetti. Non riconosco nessuno dei miei vestiti, tutti scuri. Tiro fuori un maglione grigio con lo scollo a cascata, il genere che indosserebbe Linny Strabeck, la mia migliore amica. Andavamo spesso in giro per negozi vintage. La vedo prendere un maglione da una gruccia e posarmelo addosso. Perfetto, dice nella mia testa. Ha buon occhio per i vestiti.

Se solo Linny tornasse dalla Russia. È tornata per una settimana mentre ero in ospedale, poi è rientrata al lavoro. Mi ricordo a malapena di averla vista. Mi sento come se avessi ancora bisogno del suo supporto, dei suoi ricordi degli ultimi anni. Ma sta inseguendo il suo sogno: studiare le orche per proteggere la specie. Quando riesce mi manda delle email, ma i suoi messaggi sono nulla in confronto alla sua presenza. Mi mancano le sue storie drammatiche, la sua impulsività e la sua propensione a scegliermi i vestiti.

Non approverebbe questi pantaloni blu. Sono sformati e larghi, ma comodi. Per indossarli mi devo concentrare. Quando ho finito, armeggio ancora con lacci, bottoni e cerniere.

Tiro fuori il biglietto da visita dalla tasca del pigiama e sfioro la scritta in rilievo. SYLVIA LACROSSE, ASSISTENTE SOCIALE AUTORIZZATA. È al numero 11 di Waterfront Road, appartamento B. Da qui sono otto chilometri, posso andare in bici.

Infilo il biglietto sotto una maglietta nel cassetto in alto e vado nel salone che dà sulla sala da pranzo. È tutto costruito con legno di recupero e pietra di fiume, dai pavimenti alle travi del soffitto. Le finestre a golfo offrono una vista panoramica sul mare. Mi immagino Jacob da bambino, che ride accanto alla stufa con i suoi genitori, quando la casa all’interno era completamente diversa – con un arredamento essenziale e sobrio, per essere gli anni Settanta. Probabilmente era bello anche da piccolo; me lo vedo mentre cerca di ammaliare gli adulti. Forse aveva già in programma di diventare ricco come il padre, ma non grazie all’eredità. È fiero di essere un uomo che si è fatto da solo.

Lo trovo in salotto che accende il fuoco – per riscaldarci ci affidiamo alla stufa. Si è messo calze e ciabatte, e la sua maglietta non è più al rovescio. Sta scegliendo con attenzione la legna mentre impila una perfetta piramide di ceppi.

In cucina, apro la credenza e prendo una tazza di ceramica multicolore, storta da una parte come se fosse stata schiacciata sulla ruota del vasaio. Jacob dice che ho scelto le tazze a Seattle, al mercato domenicale di Fremont. Vorrei riuscire a ricordare di aver passeggiato con lui tra le bancarelle, di aver comprato frutta e verdura, oggetti di ceramica e miele locale. Ogni mattina aggiunge tre cucchiaini di miele al caffè, l’unico vizio di quest’uomo fissato con la salute.

Mi verso un po’ di caffè e mi siedo a gambe incrociate sul divano, gustando il sapore intenso dei chicchi appena macinati. L’aroma pungente mi riempie di nostalgia di… cosa? Non ho la risposta.

«Di che parlavate tu e Nancy?», chiede, mettendo la legna nella stufa.

«Ha detto che ho insegnato ai bambini della sua scuola».

«Sì, un’oretta ogni tanto».

«Vorrei riprovarci».

«Devi stare attenta con lei».

«Perché? Sembra una brava persona. Anche se credo avesse una cotta per te, quand’eravate piccoli».

Per un istante irrigidisce le spalle. «La conosco da tanto tempo. A volte è un po’ strana…».

«Che intendi con “strana”?»

«Ossessiva. Per un bel po’ è stata fissata con il cubo di Rubik, e ci giocava continuamente. Dopo è stato il turno dei Bamboli del Campo Incantato. Quand’era adolescente li ha scambiati per un walkman, e non faceva altro che ascoltarlo».

«C’è stato qualcosa tra voi?». Sorseggio il caffè assaporando il gusto amarognolo.

«Eravamo amici. Credo che a un certo punto lei volesse di più, ma non è mai successo niente».

«E tu? Avevi una cotta per lei?».

Per un attimo alza lo sguardo e fissa le nuvole.

«È una brava persona. Ma no, non avevo una cotta per lei. Sono passati tanti anni, sono successe molte cose. Ora siamo tutti adulti, maturi».

«Tranne la sottoscritta. Io sono regredita».

«Ti stai riprendendo bene», replica.

«Ma non posso credere di essere solo questo, una donna persa senza memoria. Devo fare qualcosa della mia vita».

«Lo stai facendo: ti stai rimettendo in forze».

«E dipendo troppo da te».

«Non è mai troppo». Scatta in piedi e prende la sua Nikon dal davanzale. «Mi sono quasi dimenticato della foto del giorno».

«Qual era quella di ieri?».

Assume un’espressione delusa. «Davvero non ti ricordi?».

Mi premo le dita sulle tempie. «Ieri mattina hai fotografato le striscioline di uovo sodo nel mio piatto, con sopra sale e pepe».

Fa un sorriso smagliante per il sollievo. «L’ho stampata».

Tiro fuori il libro dei ricordi da sotto il tavolinetto: fatto a mano e rilegato in lino, è un album di foto come molti altri che ha fatto per me. Ma questo è speciale, perché ricrea i nostri viaggi precedenti sull’isola. Sulla copertina ha incollato una foto di noi due seduti sulla spiaggia, e sotto ha scritto: VIVERE, RIDERE, AMARE.

Nella prima pagina c’è una foto meravigliosa in bianco e nero di me accucciata sulla sabbia con in mano una vongola chiusa, entrambe le metà del guscio intatte. Sorrido all’obiettivo, ho le guance arrossate. Ha fatto la foto il giorno dopo che siamo arrivati per ricreare un momento della scorsa estate. Ti piaceva cercare conchiglie intatte, senza pezzi mancanti, mi ha spiegato. Mi ricordo che una volta hai trovato una vongola perfetta, molto più grande di questa. Ma ci accontenteremo.

Nelle pagine successive ci sono scatti che ricreano momenti condivisi: io che infilzo un pezzo di raviolo con la forchetta, un autoscatto in cui sorridiamo lungo un sentiero di una foresta di abeti, io su un kayak a due posti che remo nelle acque tranquille di Mystic Bay, vicino alla riva, e che rido perché Jacob mi fa le smorfie. Ha stampato tredici foto, una al giorno da quando siamo qui, e ognuna rappresenta qualcosa di divertente che abbiamo fatto. Nella foto di ieri, l’uovo è tagliato a striscioline sottili. Io sorrido a Jacob, dall’altra parte del tavolo, e un raggio di sole mattutino mi illumina i capelli.

«Cosa faccio per la foto di oggi?», chiedo, posando l’album sul tavolo.

Lui si appoggia alla finestra. «Ti togli i vestiti?»

«Non penso proprio», replico arrossendo. «Ritenta».

Lui sorride. «Va bene. Prima dell’incidente, ogni mattina ti alzavi e bevevi una tazza di qualcosa. Di solito era tè all’arancia speziato».

«Adesso è caffè», rispondo, sollevando la tazza.

«Leggevi sempre una rivista».

Prendo una copia del «New Yorker» dal tavolino, il numero sulla moda dello scorso autunno. Lo appoggio sulle gambe e lo apro.

«Ti piaceva leggerlo piegando le pagine sotto», dice, «proprio così. Ma non stavi così rigida».

Mi osservo, poi guardo lui. «Sono rigida?»

«Sembri nervosa. Prima eri spensierata. Piazzavi un cuscino sul bracciolo del divano e ti stravaccavi. Quello era più il tuo stile».

Spensierata. Posso ancora esserlo? Mi sto davvero sforzando di tenere a mente ogni momento, di ricordare dove metto la tazza, l’ultimo libro che ho letto e cos’ho mangiato a colazione. Mi giro e mi sdraio sul divano con i cuscini sotto la testa. «Così?».

Lui mi guarda esasperato. «Non così impostata».

«Non posso farne a meno, non so chi ero prima».

«Rilassati», dice, iniziando a scattare. «Sorridi».

Rido. «Sono nervosa, non posso farci niente. Continui a farmi foto».

«Sei bellissima», mi dice, guardandomi dall’obiettivo della macchina fotografica.

«Se sono preliminari, stanno funzionando», dico, e le guance si infiammano ancora di più.

«Ora sei rilassata?»

«Sono sicuramente comoda».

Si avvicina e si mette sul divano accanto a me, tenendo in alto la macchina fotografica per farci una foto sdraiati vicini.

«Mi stati schiacciando», dico ridendo.

«È il mio modus operandi».

Gli do una spinta e lui cade per terra, da dove mi scatta una foto mentre gli sorrido dall’alto. Vieni qui con me, dice nel mio ricordo. Era sdraiato proprio in quel punto, al calore del fuoco. Io mi ero lasciata scivolare sul tappeto e poi tra le sue braccia. Probabilmente ci eravamo tolti i vestiti… Ma è solo una mia supposizione. Qualsiasi cosa sia successa dopo, e nei giorni successivi, è andata persa.