Capitolo ventuno
Sono in un punto illuminato dal sole nella casa del sogno. È esattamente com’era la volta scorsa, ma ora mi rendo conto che è modesta e dà l’impressione di essere molto spaziosa grazie alle stanze vuote e alle finestre grandi. Adoro le pareti color zafferano e i lucernari. La luce del sole filtra attraverso i rami degli abeti fruscianti, e il meraviglioso oceano estivo mi guarda da lontano.
Questa volta esco dalla stanza, la cameretta, e percorro il corridoio fino alla cucina. Le finestre del salone danno tutte sul mare. Il mio cuore si scalda. Jacob è in cucina e sta parlando con una giovane donna che indossa un completo blu e delle scarpe abbinate. Altre offerte? …Bellissimo posto, sta dicendo. Mi avvicino a lui, ma sono confusa: dovremmo essere nella casa di Mystic Island. È tutto sbagliato. Alza lo sguardo e sorride; poi Aiden Finlay apre la porta scorrevole che dà sul salone. È in controluce, e il vento gli scompiglia i capelli scuri. Mi guarda, e noto un’ombra passare sul viso di Jacob. Aiden sembra non vederla. Ehi, voi due, venite a vedere la Jacuzzi, ci dice.
Con una lenta trasformazione, possibile solo nei sogni, Aiden diventa Douglas Ingram. Somiglia e una persona che conoscevo… La luce del sole svanisce nelle pesanti nuvole grigie di Mystic Island. Sono sotto le coperte accanto a Jacob, che sta russando piano. Il sogno è finito.
Esco fuori all’aria fredda. L’alba sembra tersa. Credo sia per giornate autunnali come questa che ho deciso di trasferirmi qui. La marea si ritira rivelando un nuovo mondo di conchiglie e granchi arenati. Mentre mi dirigo a sud verso il molo di Doug Ingram, le mie gambe si fanno pesanti, ma stavolta arrivo fino alla cala isolata solo per scoprire che la barca non c’è.
Sopraffatta dalla delusione, mi siedo su uno scoglio per riprendere fiato. Le pozze di marea pullulano di un vasto assortimento di vita marina, compreso un chitone, un surreale mollusco marino attaccato a uno scoglio che si ciba di alghe.
Cos’è quel piccolo alieno?, aveva chiesto Aiden accovacciandosi accanto a me. È come se adesso fosse qui, lo vedo esaminare il chitone che sembra un bruco con la corazza. Sento il suo respiro, il suo odore di sapone e pino. Sta guardando attentamente il chitone, meravigliato.
Tonicella lineata, dico. Un mollusco sottomarino.
Detto in parole povere?
Ha otto piastre sovrapposte, vedi? Sono bilateralmente simmetriche.
Come gli umani.
Solo che i chitoni restano attaccati agli scogli grazie a un piede a ventosa. E sono erbivori. Regno: animalia, phylum: mollusca, classe: polyplacophora.
Poly che?
Scusa, gli dico.
Non scusarti. Sei incredibile. Mi guarda con ammirazione.
Non stai morendo di noia?
Ma scherzi? Sono affascinato. Dovremmo fare immersioni, scommetto che vedresti molto di più. Mi prende la mano e andiamo in un’altra cala dove troviamo altre pozze di marea. Non siamo a Mystic Island ma siamo vicini, forse su un’isola dell’arcipelago. Facciamo attenzione a non calpestare i tantissimi anemoni. Io dico i nomi scientifici di tutte le specie che vediamo, e lui cerca di ripeterli. Ci imbattiamo in una medusa sulla sabbia, una piccola pozzanghera ambrata.
Strano vedere una medusa ferma, dico. Si muovono ventiquattro ore su ventiquattro nel mare.
Si inginocchia accanto a me e mi guarda.
Sei triste, constata.
No, gli rispondo, ma non è vero. Arenarsi è parte integrante del ciclo vitale delle meduse.
Non possiamo rimetterla in acqua?
Gli sorrido. Sei dolcissimo, ma la marea la riporterebbe qui.
E allora cosa possiamo fare? I suoi occhi scuri sono preoccupati – per me, per la medusa, per tutto quello che mi angoscia nella vita. Vuole proteggermi dal dolore, dalla tristezza, ma è troppo tardi: ci sono cose da cui non ci possiamo proteggere.
Niente, dico. Non c’è niente che possiamo fare.
Che cavolo, se non possiamo salvare la medusa, almeno facciamo un funerale.
Un funerale?, chiedo scettica.
Un servizio funebre, quel che è. Per onorare la sua vita.
Rido mentre sistemiamo le conchiglie intorno alla medusa. Facevo cose del genere quand’ero piccolo. Ci penso io all’elogio. «Tutte le brave meduse andranno nel Grande Mare nel cielo».
Anche quelle cattive vanno lì, dico.
È come se fossi di nuovo una bambina che fa cose da bambini, ma la felicità mi permea come luce del sole filtrata.
«Kyra!», mi chiama Jacob da lontano. Non sto più vivendo il ricordo con Aiden; la medusa è sparita. Sono accovacciata nell’acqua fredda, i pantaloni bagnati fino alle ginocchia e le scarpe da ginnastica fradice. Jacob sta percorrendo la curva con addosso i suoi pantaloni di elastan, la giacca a vento e le scarpe da corsa verdi fluorescenti.
«Sono qui!», grido, ritornando sulla spiaggia.
«Che cavolo ci fai qui?»
«Ho trovato un chitone. Ce ne sono moltissimi sulla costa, o almeno era così quattro anni fa. Ma questa è la prima volta che ne vedo uno qui. Sono…».
«Stai tremando. Forza, andiamo a casa».
«Sto bene». Ma batto i denti e ho perso la sensibilità alle dita dei piedi,
«Mi ha svegliato il telefono e ho visto che non c’eri». Mi prende per il braccio e mi guida verso casa.
«Chi ha chiamato?», chiedo. Il sorriso di Aiden è ancora nella mia mente, come i suoi occhi scuri così sinceri, così interessati.
«Nancy. Voleva ricordarci della cena di sabato sera. Dobbiamo preparare qualcosa da portare».
«Va bene. Sei tu il cuoco». Voglio tornare in quella cala riparata. Quanti altri momenti abbiamo condiviso io e Aiden, studiando le pozze di marea su quegli scogli e facendo funerali per le creature morte trasportate dal mare?