Capitolo sette
Avevamo messo le bici Trek nel furgone, dopo che gli addetti al trasloco avevano già portato tutto il resto nella casa sul promontorio, ma avevo dimenticato i nostri lunghi viaggi fino all’isola. Il vecchio traghetto, il Mystic, effettua corse sporadiche e spesso si guasta. Il giorno che ci siamo trasferiti qui, c’erano cinque macchine e nessun altro passeggero sul ponte. Mi ero svegliata dopo una lunga dormita, circondata dalla nebbia e mano nella mano con uno sconosciuto. Avevo sussultato e ritratto la mano, come per ritrarmi da una stufa calda. Avevo quasi gridato, ero spaventata.
Lo sconosciuto alto e bello mi aveva sorriso, aveva il naso leggermente storto e una fossetta sulla guancia destra. Sembrava calmo, come se fosse già successo. Sono tuo marito, ti ricordi? Stiamo andando nella nostra nuova casa. Mi erano tornate in mente delle immagini: lui chino sul mio letto in ospedale e, prima ancora, una passeggiata vicino all’oceano; l’avevo visto baciarmi il dorso della mano, stringermi le dita con gli occhi adoranti. La sua voce profonda mi aveva confortata, ma i ricordi erano solo dei flash, come lampi di luce che comparivano e sparivano subito dopo. Ricordavo le mie condizioni, il fatto che la mia memoria a breve termine vacillasse ancora, lasciandomi disorientata e incapace di ricordare quello che mi era successo anche solo dieci minuti prima. Ero in mezzo alla nebbia, non da sola, ma sola con quei pensieri.
La nostra nuova casa, sì, avevo detto. Avevo guardato le nostre fedi, ricordo scintillante della nostra unione.
Mentre la barca scivolava nel porto, una nebbia fitta aveva coperto la costa dando alla città un alone di mistero. Jacob mi aveva condotta al furgone parcheggiato sul ponte inferiore. Il capitano aveva fermato il motore qualche metro prima di attraccare. Nel frattempo, alcuni ricordi erano riaffiorati – Jacob che mi portava una tazza di tè dalla cambusa indicando dei leoni marini che riposavano su una boa e assicurandomi che a Mystic Island mi sarei ripresa.
Dalla nebbia erano emersi alcuni negozi e edifici caratteristici: un palazzo vittoriano giallo che ospitava la biblioteca, lo spaccio in un piccolo fabbricato di mattoni e l’unico bed & breakfast dell’isola. Quando siamo arrivati, la scorsa estate, siamo stati lì, aveva detto. Nel cottage luna di miele Gargoyle.
Gli avevo chiesto della casa in affitto di Seattle, della mia coinquilina, delle mie piante, della mia vecchia vita. Ma non c’era più nulla di tutto ciò, mi aveva ricordato, erano passati quattro anni. Gli ultimi quattro mesi da laureata erano storia vecchia. Avevo iniziato a insegnare biologia marina e avevo intenzione di condurre ricerche nella stazione satellite delle isole San Juan. Hai sbattuto la testa su uno scoglio, mi aveva detto. Due mesi e mezzo fa stavamo facendo un’immersione. Sei stata una settimana in terapia intensiva, poi quasi nove settimane in riabilitazione. Fisicamente stai andando molto bene, ma dobbiamo lavorare sugli esercizi per la memoria. I medici pensano che non recupererai gli ultimi anni, ma se ci impegniamo potrai creare nuovi ricordi.
Il furgone aveva oscillato non appena il traghetto aveva attraccato. Gli addetti si erano subito mossi per assicurare gli ormeggi. Un uomo con un impermeabile arancione e il viso rosso per il freddo aveva segnalato di mettere in modo le auto. In un attimo, avevamo imboccato la rampa e la nostra nuova vita. Mentre Jacob guidava per Waterfront Road, mi sentivo come se fossimo entrati in un universo alternativo, tranquillo, fatto di sentieri in terra battuta, boutique, vasi pensili e lampioni in ferro. Aveva svoltato a destra, immettendosi nella strada principale che andava verso nord, un tratto di una ventina di chilometri che attraversa tutta l’isola. Dopo otto chilometri aveva svoltato a sinistra e si era diretto a ovest, su un viale stretto e tortuoso che portava alla nostra casa isolata sul promontorio.
La nostra casa. Non riesco ancora ad abituarmici, nonostante ormai conosca bene il gioco di luci sulle pareti, il ronzio del frigorifero, il ritmo lontano e rilassante delle onde.
Chiamo Sylvia LaCrosse dal telefono del corridoio. La linea sembra disturbata, ma sento che squilla, poi si attiva la segreteria telefonica. La voce è delicata e piacevole, come una ninnananna. «Risponde la segreteria telefonica di Sylvia LaCrosse. Se è un’emergenza, riattaccate e chiamate subito il 911, altrimenti lasciate un messaggio». Lascio il nome e l’ora della chiamata. «Arriverò nel suo studio…».
«Pronto?», risponde, senza fiato.
«Le stavo lasciando un messaggio. Sono Kyra Winthrop».
«Nancy mi ha parlato di lei».
«Vorrei prendere un appuntamento».
«Riesce ad arrivare entro un’ora?».
Così presto? «Farò del mio meglio».
Mi vesto in fretta e recupero la bicicletta in garage, vicino alle mute appese. Le bombole sono su uno scaffale lì accanto. Il casco della bici è appeso al manubrio. Spingo il pulsante sul muro per aprire la saracinesca. Il vento si è calmato; gli scriccioli e i pettirossi cinguettano nel sottobosco. I rovi si torcono nell’oscurità, ma le cime degli alberi brillano ai raggi del sole autunnale.
Considero l’idea di dire a Jacob che sto uscendo per vedere Sylvia, ma si preoccuperebbe ancora di più. Insisterebbe per venire a parlare con lei. Lo vedo nella mia stanza in ospedale, in un ricordo vago, che mi tiene la mano mentre la neuropsicologa mi chiede di memorizzare delle immagini. Non ricordo i suoi lineamenti.
Sulla bici sono ancora incerta, è frustrante non aver ancora recuperato le forze. La pedalata richiede tutte le mie energie e il massimo della concentrazione. Mi dirigo a sud verso la città, supero foreste fitte e campi vasti. Ogni tanto incontro greggi di pecore o mandrie di mucche al pascolo, ma non vedo né esseri umani né auto durante il viaggio, nemmeno l’ombra.
Quando arrivo a Waterfront Road, mi manca il respiro e sono madida di sudore, nonostante il freddo. Sono in anticipo di un quarto d’ora. È autunno inoltrato, le strade sono deserte e i negozi lungo la costa sono vuoti. Lo studio di Sylvia è al secondo piano di un caratteristico palazzo vittoriano verde sbiadito. Al piano terra c’è il Mystic Thyme, un negozietto che vende sapone fatto in casa. Stranamente, sul cartello si legge APERTO. Sto per entrare, quando un uomo mi chiama e mi saluta con la mano. Indossa una tuta impermeabile nera e degli stivali da pioggia, e sta legando una barca al molo.
Attraversa la strada per venirmi incontro, leggermente incurvato, il suo bel viso segnato dal tempo e dalle intemperie. «Sei tornata!», urla con gli occhi spalancati. «È passato un sacco di tempo. Ma non puoi essere tu. Tu sei…».
«Ero qui la scorsa estate», rispondo. «La conosco?»
Inarca le sopracciglia, sembra spaventato. Poi la luce sparisce dai suoi occhi. «Oh, chiedo scusa. Io… l’ho scambiata per qualcun altro».
«Non la riconosco…».
«Mi dispiace averla disturbata». Si gira e torna alla sua barca.
«Aspetti!», grido. «Non mi disturba!». Lascio la bici appoggiata a un palo della luce e gli corro dietro. «Ho dimenticato il suo nome».
«L’ho scambiata per qualcun altro». Ha lo sguardo tormentato, ed è palese che avermi vista l’ha turbato.
«Mi ha riconosciuta. Devo parlare con le persone che conoscevo».
«Temo che noi due non ci conosciamo».
«Almeno possiamo parlare?»
«Se vuole… abito su, a Windswept Bluff».
«Dov’è?»
«La strada non è segnalata. Dritto per sei chilometri e mezzo, poi a destra all’arbuto».
«Non è lontano».
«Tutto è vicino a tutto, qui». Ha già slegato la corda e sta salendo in barca.
«Quando tornerà?»
«Non lo so esattamente. Presto».
«Come si chiama?»
Mi dice il nome, ma non lo sento a causa del rombo del motore. Dal suo sguardo tormentato, capisco che mi ha riconosciuta, o così crede, ma ora si sta allontanando dall’insenatura.
Lo osservo andare via con gli occhi pieni di lacrime. Mi sento stupida, senza una ragione sto quasi piangendo. Forse è la sensazione di déjà-vu e l’impossibilità di risalire alla fonte. L’universo mi ha preso pezzi di memoria e li ha lanciati lontano dalla mia portata. Chi è quell’uomo strano, e cosa significa il nostro incontro?
Lo rincontrerò di certo, e la prossima volta gli spiegherò la mia situazione. Ma l’ultima cosa che voglio è rivelare al primo che capita il mio problema di memoria. Come faccio a sapere che non soffre di allucinazioni o di demenza? Magari va da tutti quelli che vede a dire: «Sei tornato… Oh, pensavo fossi qualcun altro».
Voglio gridare a squarciagola: Perché a me? Perché? Ma il momento di autocommiserazione passa in fretta e attraverso la strada per entrare al Mystic Thyme.