Capitolo diciotto

La corrente turbina intorno a noi, l’acqua brilla di una luce verde smeraldo. Ci siamo immersi vicino a una diga marina che pullula di vita – ricci di mare e anemoni arancioni che ondeggiano. Vengo spinta in avanti più velocemente di quanto mi aspettassi. Un piccolo granchio scatta e poi ritira le chele. Un pesce striato entra ed esce dalle crepe di una roccia. Vedo un ophiodon elongatus, una trota iridea golarossa. La varietà di forme di vita di questa diga marina mi toglie il respiro. Dove ci troviamo? Strani pesci multicolore nuotano in banchi – non somigliano a nessun pesce che abbia mai visto. Pesci dei sogni.

Mi sveglio nell’oscurità. Dove sono? Quando? A casa, nella stanza che ora divido con Jacob. La mezza luna brilla attraverso la finestra e illumina debolmente il copriletto. L’orologio sul comodino segna le 6:31. È quasi l’alba. Dal mare arriva un vento fievole. Jacob russa piano accanto a me, con un braccio posato sulla fronte.

Mi giro dall’altra parte, dando le spalle a lui e alla finestra. Chiudo gli occhi, ma non riesco a prendere sonno. Jacob si rigira e mi avvolge la vita con un braccio, avvicinandomi a sé. «Stai bene?»

«Sì», sussurro, appoggiandomi a lui.

«Hai sognato un’immersione?», mi sussurra nell’orecchio.

«Questa volta era tutto molto vivido».

«Cioè?»

«Riuscivo a vedere tutto. Ci eravamo immersi vicino a questo… muro di roccia. C’erano tantissimi anemoni: bianchi, viola, arancioni, insieme al verde delle zooclorelle…».

«“Zoo” cosa?»

«Zooclorelle. Un’alga commensale. Mi è appena venuta in mente la parola».

«E che cavolo sarebbe?»

«Un’alga che cresce dentro l’anemone. È una relazione simbiotica complicata».

«Mi piace come suona».

«C’erano talmente tante cose da vedere…».

Il braccio intorno alla mia vita si rilassa. Si è riaddormentato e il suo respiro è regolare. Io resto sveglia ripensando al sogno, precursore calmo di qualcosa di molto più oscuro e dimenticato. La mia mente ritorna a ieri, quando ho chiesto a Jacob della nostra gita allo spaccio della settimana prima. Eravamo andati in bici e l’avevamo trovato chiuso, la strada principale era deserta. Più tardi, eravamo ritornati in macchina. Jacob si ricorda che Nancy era entrata, ma non si ricorda di Douglas Ingram. Vagamente, forse, ha detto. Ma eravamo giovani, non prestavamo attenzione ai vecchi survivalisti che si nascondevano nei boschi. Probabilmente era uno di loro.

Scendo dal letto e mi vesto. Quando arrivo in spiaggia il sole sta sorgendo, ma c’è alta marea. Le onde si infrangono contro la scogliera, rendendo impraticabile la strada che porta alla spiaggia isolata di Douglas.

Per evitare di avanzare nell’acqua ghiacciata, devo tornare a casa passando tra le dune erbose. Qui il terreno è diverso, ricoperto di legna trasportata dal mare. Mi imbatto nei resti di un forte costruito con rami portati dalla corrente. Sono già stata qui, in questo tepee improvvisato. Ero con Jacob, solo che faceva caldo e il mare era calmo. Era estate. Indossavo una camicetta smanicata di seta, pantaloncini e infradito. Mi ero tolta le ciabatte e avevo affondato i piedi nella sabbia per sentire lo strato umido e fresco sottostante. Jacob si era sfilato la maglietta dalla testa. Era decisamente attraente. Mi aveva presa tra le braccia. Qui non ci vede nessuno, aveva detto baciandomi il collo e le spalle. Avevamo fatto l’amore lì, su quella spiaggia deserta in un bellissimo pomeriggio d’estate, con il sole che brillava sull’acqua, avvolti dall’odore del mare. La sabbia era entrata nei vestiti e ci si era attaccata addosso; ogni sensazione era amplificata dal caldo, intensificata dall’amplesso estemporaneo. Mi sentivo audace, esposta, ma eravamo soli.

No, non soli.

Qualcuno ci stava guardando. Quel pomeriggio, Nancy era scesa dal giardino. Non ce n’eravamo accorti, si era avvicinata in silenzio. Forse aveva visto la maglietta di Jacob appesa al forte a mo’ di bandiera. Avevo alzato lo sguardo e avevo visto che era lì che ci guardava con un’espressione scioccata.

Nancy!, avevo esclamato spostandomi velocemente sotto Jacob per afferrare i vestiti. Lui aveva riso e aveva detto: Merda. Ma non era imbarazzato, non aveva fatto una piega davanti al voyeurismo di Nancy. Eravamo ricoperti di sabbia e con il viso arrossato.

Orche, un intero branco che balza fuori dall’acqua, aveva detto guardando Jacob. Sono dozzine. Sono nella cala a Mystic Bay. Qualcuno ha detto che c’è un piccolo. Ci vediamo lì.

Si era girata ed era andata via, come se non avesse visto niente.

«Kyra!», grida qualcuno in cima ai gradini. Alzo lo sguardo e vedo la sagoma massiccia di un uomo che mi sta salutando con la mano.

«Sono quaggiù!», grido, ricambiando il saluto. Da questa distanza, l’uomo somiglia molto a Van Phelps. Torno indietro di corsa, allontanandomi dal forte, e salgo gli scalini per salutarlo.