Capitolo tredici
A casa, mentre Jacob accende il fuoco, mi metto un paio di pantaloni comodi. Stanotte starà con me in camera da letto? Come sarà stare di nuovo con lui? Mi sento eccitata e trepidante, ma ho paura. Cammino su e giù per la stanza, osservo il mio viso magro e preoccupato nella specchiera. La cena al Whale Tale svanisce nella nebbia e il viso di Aiden Finlay compare nella mia mente. Si sporge verso di me e poi sparisce. Rivedo Nancy che viene velocemente alla cattedra mentre io fisso il vuoto, persa nel passato.
Qualche minuto dopo sento bussare alla porta con esitazione.
«Entra». Il cuore mi batte all’impazzata: Jacob sta per varcare il confine, e anch’io.
No, l’ho già varcato.
In mano ha una gruccia con un vestito scintillante. Il vestito che indossavo nelle foto del matrimonio.
Mi vengono le lacrime agli occhi. «È bellissimo», dico in un soffio. «Ce l’abbiamo ancora. Ce l’hai ancora».
«L’ho conservato in fondo all’armadio in attesa che fossi pronta. E ora sembra il momento giusto per restituirtelo».
Posa l’abito sul letto, accanto a me.
Tocco la seta morbida, familiare sotto le mie dita. «Sono felice che tu l’abbia tenuto».
«Non avrei mai potuto liberarmene. Motivo floreale damascato». I termini stilistici sono strani pronunciati da lui.
«Come fai a saperlo?»
«Me l’avevi detto tu. Mi dicevi sempre tutto».
«Mi dispiace». Non so neanche perché mi sto scusando, ma sento sempre di doverlo fare.
«Le cose torneranno com’erano. Quante coppie possono dire di aver ricominciato da zero?»
«Non molte, suppongo». Mi appoggio addosso il vestito e vado davanti allo specchio. «Forse mi sta ancora…». Cerco tra le pieghe luccicanti, tra i cristalli e le bellissime cuciture qualche segno del passato.
Jacob mi viene vicino. «Sarai ancora bellissima con quel vestito. Lo sei sempre stata».
Lo guardo nello specchio. «Ci siamo sposati a Discovery Park».
«Tuo zio è venuto dall’Oregon per accompagnarti all’altare».
«Zio Theo». L’unico fratello di mia madre, più grande di lei di quindici anni, si era tenuto in contatto dopo la morte dei miei genitori; ma ora, a causa della demenza, non ricorda neanche il mio nome.
«Zio Theo, sì».
«Il vestito non ha lo strascico».
«Non volevi rischiare di inciampare».
«Volevo ballare». Mi torna in mente un’immagine di Jacob che mi prende in braccio.
«Vuoi ballare di nuovo?», chiede.
«Non so se mi ricordo come si fa».
«Aspetta, torno subito». Esce dalla stanza e torna con gli orecchini d’oro che avevo nelle foto delle nozze e qualcos’altro: una collana d’oro sottile intarsiata di smeraldi.
«È bellissima», dico meravigliata.
«Era di mia madre».
«Tua madre… c’era al matrimonio?»
«È morta prima che ci conoscessimo. Aveva un tumore, l’unica cosa da cui non ho potuto proteggerla».
«Dovevi proteggerla?»
«Da mio padre. Te l’avevo detto».
«Oh, Jacob, è terribile».
Il suo sguardo si fa dolce, con un velo di vulnerabilità. «A volte vorrei dimenticare il passato, come te».
«Tuo padre era violento?»
«È passato tanto tempo».
«Ma è il passato che ci forma, quello che ci rende chi siamo».
«Ci influenza, ma non ci rende chi siamo. Possiamo fare qualunque cosa, essere chiunque».
«Ne hai passate tante per diventare quello che sei oggi».
«Ne è valsa la pena, ti ho incontrata. Posso metterti la collana?».
Annuisco. Ho il cuore in gola, e mentre guardo lo specchio lui mi mette la collana. Le sue dita mi sfiorano la pelle e un turbine di farfalle colorate svolazza dentro di me. Chiude il gancetto e sistema la collana.
«Ecco fatto».
Mi metto anche i pesanti orecchini.
Lui mi fissa nello specchio e china la testa vicino alla mia. «Eri proprio così, ma i capelli erano diversi».
«Nelle foto sono sciolti».
«Ma per la cerimonia erano raccolti». Mi attorciglia i capelli in uno chignon basso e qualche ciocca mi ricade sulle guance. Il suo sguardo si illumina. «Ecco, così. Stupenda». Con una mano mi tiene i capelli, mentre con l’altra traccia il contorno della mascella. Mi passa il dito sul collo e giù fino alla clavicola. Il suo tocco è elettrico e sento le scosse diffondersi sulla pelle. Adesso ricordo: aveva infranto le regole venendo a trovarmi prima della cerimonia. Era rimasto in piedi nel mio camerino, a braccia incrociate, ad ammirarmi.
«Potremmo far finta che sia la notte delle nozze», propone. «Potresti metterti il vestito».
«Adesso? Mi starà troppo grande».
«Sarai bellissima, come sempre».
«E tu?»
«Io metterò il mio abito».
«Ce l’hai?»
«Non butterei mai via i vestiti che ho indossato quando abbiamo pronunciato i voti nuziali».
Appena esce dalla stanza mi torna il mal di testa, quel senso di annebbiamento nel cervello. Il riflesso nello specchio si fa sfocato. Il vestito, Jacob, il matrimonio, il peso degli orecchini... Tutto questo è già successo, in un’altra vita, in un altro posto, ma c’era qualcosa di diverso. Forse avevo un altro rossetto, o un fermaglio tempestato di diamanti tra i capelli. Dietro di me compare un viso indefinito; mi giro, ma non c’è nessuno.