Capitolo quindici
Nel mio sogno, sto attraversando una stanza illuminata dal sole verso una grande vetrata colorata. L’oceano brilla in lontananza, a malapena visibile attraverso gli alberi. La stanza è vuota, odora di cera per pavimenti, e i muri sono di un giallo pastello chiaro. Su una delle pareti è dipinto un albero con foglie verde smeraldo. Questa casa è perfetta: vecchia, caratteristica e luminosa. Mi muovo tra le stanze, a mio agio, come se fosse già casa mia. Immagino la risata di un bambino, bambole e mattoncini sparsi nella stanza dei giochi, l’odore d’aglio in cucina, i profumi inebrianti del gelsomino e dell’arancio del Messico in fiore. Indosso il vestito blu cobalto di seta, ma quando abbasso lo sguardo c’è una macchia scura che si allarga sul tessuto inghiottendo tutto il colore, spandendosi per la stanza e facendo diventare tutto nero.
Mi sveglio disorientata. Mi ci vuole un minuto per capire dove sono. Nel sogno ero da un’altra parte. Ma dove? E quando? Sento il rumore dell’acqua. Una cascata… no, la doccia. Sono sotto le coperte. Non ho i vestiti. Jacob fischietta nel bagno. Mentre il sole sorge, si leva un velo dal cielo.
Mi torna in mente ieri notte: il ristorante, i vestiti del matrimonio, Jacob che mi porta in camera e quello che abbiamo fatto dopo. Mi pulsa la testa. Sono i postumi di una sbornia? L’ultima volta che ho bevuto troppo e mi sono risvegliata nuda in un letto ero ancora una studentessa e stavo nel dormitorio. Credo.
Jacob esce dal bagno asciugandosi i capelli con un asciugamano. «Sei sveglia». È ancora più bello alla luce del mattino: tutti i muscoli definiti, il piccolo neo dov’è sempre stato – sulla spalla destra.
«Più o meno. Ho fatto un sogno, ma non era sull’immersione. Stavolta era un bel sogno…».
«Su di noi?». Si siede sul letto e mi sfiora la guancia, poi si china e mi bacia delicatamente. Sa di dentifricio.
«Ero in una casa con le pareti gialle. Avevo il vestito blu, ma poi la macchia ha rovinato tutto».
«La macchia di tè».
«Credo di sì. Ma la casa era bellissima».
«Anche tu. Soprattutto appena sveglia».
«Sono un disastro», rispondo, toccandomi i capelli annodati e sfregandomi gli occhi.
«Un bellissimo disastro. Al naturale».
Mi copro il seno con la coperta. «Mi puoi passare la vestaglia? È nell’armadio». All’improvviso sono imbarazzata.
Mi porge la vestaglia e chiede: «Colazione?»
«Dobbiamo parlare di quello che è successo ieri notte».
Stringe le labbra. «Sei pentita».
«No, non è questo. Abbiamo corso troppo».
«Siamo sposati», replica duramente. «Abbiamo fatto l’amore migliaia di volte».
«So che non era la prima volta».
«Ti è sembrato che lo fosse?»
«No».
Si guarda le mani per un minuto, poi fa un sorriso forzato. «È stata una notte magnifica».
«È vero. Non dico che c’è qualcosa di male, è stato fantastico».
«Ma abbiamo corso troppo. La prossima volta andremo con calma».
La prossima volta. C’è qualcosa di strano. Come se in passato avessimo… avessi pensato che non ci sarebbe stata una prossima volta.
«La casa del sogno era così vivida che sembrava fossimo lì. Come se volessimo viverci. O come se ci avessimo vissuto».
«I sogni posso essere così», dice dolcemente. «Forse, una volta, hai davvero visto una casa come quella».
«Forse».
Mi bacia la fronte. «Devo andare in città, abbiamo quasi finito il caffè. Non andartene in giro prima che torni».
«Se uscirò, starò nei paraggi».
«Bene». Torna nella sua stanza e lo sento fischiare mentre si veste. Mi chiedo se ora tornerà nella mia camera. Nella nostra camera.
Quando esce, vado in bagno per fare la doccia. Inizio a insaponarmi sotto l’acqua calda. La notte con Jacob, la cena romantica, quello che abbiamo fatto in camera da letto… è davvero successo? E la casa del sogno? Il conforto e la speranza che sentivo sembravano reali. Ma lo sembravano anche i sogni ricorrenti che facevo da bambina: continuavo a tornare nella stessa casa sull’albero fatta di lenzuola e cuscini, come se il fortino immaginario esistesse davvero. La casa gialla è forse un’invenzione della mia immaginazione che compare solo nei sogni? La macchia scura si spande e ricopre la scena quasi come un ripensamento, un’ulteriore riflessione ispirata dalla spiegazione di Jacob su cosa fosse successo al vestito blu.
Mi risciacquo, apro la tenda della doccia e prendo un asciugamano. La porta del bagno è ammaccata – c’è un segno profondo che non avevo notato, come se qualcosa l’avesse colpita molto forte. O forse è solo un difetto del legno.
Mi viene mal di testa e iniziano a pulsarmi le tempie. Considero l’idea di prendere un’aspirina o una pastiglia di ibuprofene, ma decido di evitare. Preferisco una tazza di caffè forte e una passeggiata.
Prima, però, cerco di nuovo tra le foto degli album in salone, ma non c’è traccia della casa gialla. Non che mi aspettassi di trovare qualcosa.
Vado nello studio e accedo alla casella di posta. Pubblicità, notizie e un messaggio di Linny.
Cara Kyra,
non mi hai mai parlato di una relazione, ma ti avevo avvertita di non avvicinarti troppo a Aiden Finlay. Non ti ci vedo proprio ad avere una relazione con lui. Sei felicemente sposata con Jacob e il vostro è un matrimonio perfetto, esattamente come dovrebbe essere. Qualsiasi errore tu abbia fatto, è passato. Hai avuto una seconda occasione… inizia a vivere il presente!
Devo andare.
Ti voglio bene,
Linny
Leggo il messaggio due volte. Il suo tono allegro è strano. Non ha mai dato valore al matrimonio. Quand’era piccola i suoi genitori si gridavano contro quasi tutti i giorni, e si erano separati quando lei aveva dodici anni. Linny non crede nel matrimonio, o almeno non ci credeva quattro anni fa.
Cosa le ha fatto cambiare idea? Ha sempre voluto il meglio per me, ed è palese che Jacob si fidi di me più di quanto meriterei. Le persone cambiano in quattro anni. Le persone cambiano in un anno. Le persone cambiano in un mese. Mi siedo, stanno tornando i capogiri.
Scrivo un breve messaggio: Ci provo, Linny. Ma prima devo chiarire alcune cose del mio passato. Io e Jacob abbiamo mai litigato? Ho mai avuto dubbi sul nostro rapporto? Grazie, mi manchi, ti scrivo presto. Invio e mi chiedo perché le ho fatto queste domande. No, lo so il perché.
Torno in bagno, passo le dita sull’ammaccatura della porta proprio sotto il portasciugamani cromato; prima non l’avevo vista perché c’erano i teli appesi. Non mi viene in mente nulla, nessun indizio su come quell’ammaccatura sia stata fatta.
Vado in spiaggia per liberarmi del mal di testa, stavolta verso sud, facendo una strada nuova. Forse oggi comparirà magicamente un anemone di Tompkins. Ma la creatura ha evidentemente altri programmi; inizio a chiedermi se esista davvero. Attaccati alle rocce ci sono cetrioli di mare rossi, cirripedi, cozze e spugne, e ogni tanto una gran quantità di meduse arriva sul bagnasciuga – i loro ombrelli non possono competere con la forza del vento.
Un granchio di Dungeness mi guarda da una roccia. Non si muove mentre mi avvicino. Lo tiro su e il suo carapace si spacca, rivelando l’interno vuoto, solo un complesso di cavità: ha fatto la muta, liberandosi della sua corazza. Il vero granchio ormai non c’è più.
Mentre svolto verso una spiaggia riparata, il vento si calma. È la strada che porta a Windswept Bluff, dove abita l’anziano, quello che pensava di avermi riconosciuta. Più avanti c’è una barca attraccata al molo. Dei gradini di legno improvvisati portano dalla scogliera al bosco. C’è qualcuno in cima alle scale, la sagoma scura di un uomo. Scende verso di me, muovendosi rigidamente in un impermeabile nero col cappuccio. Lo saluto con la mano e lui ricambia. Quando arriva all’ultimo gradino, noto che è proprio l’uomo che ho incontrato in città, quello che mi si è avvicinato al Mystic Thyme.
«Salve!», saluto. «Si ricorda di me?»
«L’ho vista venire fin qui».
«È riuscito a vedermi dalla curva?»
«Ho visto da quassù», e indica i ripidi gradini in legno che portano in cima alla scogliera.
«Abita davvero vicino a noi».
«Windswept Bluff è lassù, vialetto in terra battuta, un’unica casa: la mia». Marcia verso di me, incurvato come se gli facesse male la schiena. «Chi è lei? Dove abita?»
«Un po’ più a nord di qui».
Ora è vicino e gli sento addosso un forte odore di legna bruciata. Mi osserva attentamente il viso e un lampo di riconoscimento gli attraversa lo sguardo. «L’hai lasciato, quindi?»
«Chi? Mio marito? No, non l’ho lasciato». Un’onda mi bagna le scarpe; la sabbia si abbassa e poi torna come prima. Non posso stare male ora, non quando devo attraversare tutta la spiaggia per tornare indietro.
«Dovresti lasciarlo», dice l’uomo. «Vai, ora».
Il vento fa increspare l’acqua dell’oceano e mi fa venire i brividi.
«Perché dice che dovrei lasciare Jacob? Non capisco».
La sua espressione diventa un cipiglio allarmato; sbatte le ciglia, si sfrega gli occhi e ritorna a guardarmi. Il vento mi ulula nelle orecchie.
«Maledizione, mi dispiace. Devo… sto sognando. Devo andare». Mi supera e si dirige verso il molo.
Lo seguo. «Non se ne vada di nuovo. Ha detto che dovrei lasciarlo: cosa intende?»
«Lei somiglia a un’altra persona, tutto qui. Mi sono confuso».
«Chi? Mi dica quello che sa su di me».
Mi guarda e vedo che è in imbarazzo, come se fosse stato beccato con le braghe calate. «Mi dispiace, a volte la mia memoria vacilla».
«Anche la mia», dico di getto, sentendo una strana affinità con quest’uomo. Indico la cicatrice che ho sulla fronte. «Mi dimentico le cose. A volte non ricordo neanche quello che mi è stato detto una settimana prima. Ho sbattuto la testa».
«Mi dispiace», risponde. «Vorrei poter dire che anch’io ho sbattuto la testa, ma sono solo vecchio». Cammina a grandi passi sul molo oscillante, io non sono sicura di volerci salire.
«Sono Kyra!», gli grido. «Possiamo parlare?»
«Doug. E sì, certo che possiamo». Mi guarda di nuovo, il suo sguardo è tormentato. «Mi ricorda una persona che conoscevo molto tempo fa, tutto qui. Sono passati tanti anni».
«Quel ricordo la rende triste».
«Temo proprio di sì». Vedo che sta lottando contro le lacrime; non vuole che lo veda piangere. Disormeggia la barca dal molo e salta sul ponte.
Mi arrischio ad andargli dietro. Il molo si muove avanti e indietro sotto i miei piedi. «Somiglio a una persona a cui teneva. Chi era?»
«Parliamone quando torno. Devo vendere un po’ di pesce», dice con un cenno a una borsa frigo sul ponte, poi indica i gradini di legno ripidi. «Abito lassù, ma non usi gli scalini come me. Sono marci. Prenda la strada».
«Quando? Quando posso venire a farle visita?»
«Quando torno», risponde.
«E quando?»
«Tra un paio di giorni».
Il motore prende vita e lui si allontana dalla riva.
«Se ne va sempre!», grido.
La barca prende il largo, dondolando sulle onde. Solo quando è sparito dietro la curva della scogliera mi rendo conto che ho i pugni chiusi e le unghie conficcate nei palmi.