Capitolo ventisette
Il bed & breakfast Mystic Cove Manor è un grande edificio vittoriano nascosto tra i boschi, con una bellissima vista sul mare. Il portico che circonda l’edificio è stato ristrutturato, i giardini curati e ai gazebo è stata fatta la manutenzione. Suono il campanello al banco della reception; nell’aria si sente odore di lucido per il legno. Una donna robusta con i capelli neri compare dalla stanza posteriore, il suo viso rosso è raggiante. Indossa un vestito fantasia colorato con sopra un lungo maglione di lana. «Ah, signora Winthrop, che bello rivederla!».
«Mi chiami pure Kyra».
«Allora lei mi chiami Waverly».
«Per fortuna siete ancora aperti».
«Chiudiamo per la stagione invernale, a novembre. Mi piacerebbe riuscire a tenere sempre aperto. Magari l’anno prossimo».
«Complimenti per il posto».
«Grazie. Si faccia abbracciare». Fa il giro del bancone e mi avvolge in un abbraccio confortante, poi si allontana e mi fa una carezza sulla guancia. «Mio marito, Bert, è mancato sei mesi fa. Gli avrebbe fatto piacere rivederla».
«Mi dispiace», le dico, abbracciandola di nuovo.
Questa volta, quando ci stacchiamo, ha gli occhi pieni di lacrime. «Eravamo sposati da trentacinque anni e abbiamo amato ogni minuto. Spero che lei e suo marito siate felici come lo siamo stati noi».
«Sembriamo felici?»
«Certo che sì. Qualcosa non va?», chiede, studiandomi il viso.
«No, non esattamente. Mi interessava il posto in cui avevamo alloggiato l’ultima volta che siamo stati qui insieme».
«Nel cottage Gargoyle. Perfetto per gli sposi novelli. Siete arrivati qui all’inizio della scorsa estate, mi sembra di ricordare».
«Mi piacerebbe rivedere il cottage, se non è un problema».
«È libero, che fortuna! In questo periodo dell’anno gli affari vanno a rilento».
Prende una chiave dal gancio sul muro, si mette un cappotto lungo e mi conduce all’ingresso, poi attraverso un sentiero in mezzo al bosco. Inizia a fare freddo, un assaggio di inverno. Ci allontaniamo dall’edificio principale fino ad arrivare a un cottage vittoriano nascosto sul promontorio. «Questo doveva essere l’alloggio della servitù… in origine», spiega Waverly senza fiato. I muri sono dipinti di blu e oro e una scala porta a un portico che circonda tutto l’edificio. Dentro l’aria è fresca, le camere sono arredate con mobili antichi e c’è un letto a baldacchino dell’Ottocento che occupa la maggior parte della stanza.
«È meraviglioso».
«Siamo molto orgogliosi degli alloggi. Le lascio dare un’occhiata. Mi faccia un fischio se vuole prenotare di nuovo la camera».
«Grazie», rispondo, e lei sparisce nel sentiero.
Mentre sono in piedi al centro del salone, mi torna in mente un ricordo. Jacob era sul divano e mi aveva fatto cenno di avvicinarmi. Mi ero seduta sulle sue gambe e lui mi aveva preso la mano, rigirandomi la fede. Finalmente siamo qui, aveva detto. Sai da quanto lo desideravo?
Non sapevo fossi così romantico, avevo risposto. Perché abbiamo aspettato così tanto per venire?
Bella domanda. Ho sempre voluto farlo. Mi aveva sfiorato la bocca con il pollice facendomi schiudere delicatamente le labbra: una promessa, una domanda, un invito.
Avevo sospirato e lui mi aveva sollevata e portata in camera da letto. Ci sentivamo liberi, senza obblighi.
Sposto lo sguardo dalla camera da letto e ci vedo illuminati dai primi raggi del sole, seduti a dividerci dolci e caffè. La luce del sole estivo arriva da est, un milione di scintillii impreziosiscono l’oceano. Quella prima mattina qui era stata perfetta, ma dentro di me sentivo crescere l’inquietudine. Non sarebbe durato per sempre.
La casa della tua famiglia… ha una vista come questa?, avevo chiesto aprendo le tende di pizzo.
Più bella, aveva risposto avvicinandosi. Ti lascerà senza fiato. Appena gli inquilini andranno via e gli addetti puliranno tutto, ci faremo un salto, va bene?
Inquilini. Ora ricordo: la casa di famiglia sul promontorio veniva affittata nei mesi estivi da quando sua madre era morta. Quante notti d’inverno quell’abitazione era rimasta vuota, in attesa di tornare a essere una vera casa?
Nella libreria del salone ci sono prevalentemente classici, alcuni gialli e qualche romanzo rosa dimenticato dai vari ospiti. Su uno degli scaffali centrali ci sono una serie di registri: alcuni più vecchi degli altri, con le pagine ingiallite e un po’ scollate. Sono disposti in ordine cronologico, e in ognuno di essi gli ospiti elogiano l’ospitalità di Waverly, la tranquillità del posto, l’ambiente. “Abbiamo visto un branco di orche a Mystic Bay”, ha scritto qualcuno. “Stamattina c’erano due aquile che volavano in circolo. Sono atterrate sull’abete alla fine del sentiero”. Un altro ospite ha scritto: “Provate il ristorante Whale Tale”. E un altro ancora: “Siamo stati fortunati che il cottage non fosse prenotato per tutta la settimana. Il traghetto si è rotto e siamo rimasti bloccati per altri quattro giorni. Quattro giorni perfetti”.
Sfoglio le pagine dei commenti dello scorso giungo con il cuore che mi batte all’impazzata. E se non avessi scritto niente? Se non avessi lasciato nessuna traccia? E invece c’è, riconosco la mia calligrafia decisa, il corsivo inclinato verso destra.
Il nostro soggiorno è stato idilliaco. Qui posso far finta che la mia complicata vita di città non esista. Da quando siamo qui, ho potuto concentrarmi sulla gratitudine: sono grata per la natura, per la vista, per i miei amici; sono grata a chi mi ha confortata, alle anime splendide delle persone che sono nella mia vita. Sono grata al cottage Gargoyle e all’ospitalità di Waverly. Grazie per averci ospitati.
Kyra
Non trovo altri commenti. Cosa intendevo con “la mia vita complicata”? Quello che ho scritto è incredibilmente vago, ma non avrei mai rivelato segreti così, per iscritto, che tutti potessero leggere. Cerco di leggere tra le righe, ma non compare niente, nessuna frase scritta con l’inchiostro simpatico.
Torno al banco della reception e suono il campanello; Waverly arriva ansimando dalla stanza posteriore. «Piaciuto?»
«Ha riportato alla mente bei ricordi», rispondo con una mezza verità.
Mi porge una piccola busta di carta. «Quasi dimenticavo. È passato tanto tempo. Ha lasciato questo nella stanza, dev’esserle caduto tra i cuscini del divano».
Apro la busta e trovo un flacone di pillole – ibuprofene e famotidina. Metà dell’etichetta è strappata, ma il mio nome è rimasto, così come quello del medico, la dottoressa Louise Gateman. Il motivo di quella prescrizione, dello scorso aprile, mi sfugge. Eppure sento il cuore sanguinare, una tristezza insopportabile che mi rabbuia l’anima.
«Tutto bene?», chiede Waverly. «Scusi se non sono riuscita a dargliela prima. Finisce tutto tra gli oggetti smarriti…».
«Sto bene», rispondo agitata. «Ma mi chiedevo… posso usare il telefono? Io non posso fare chiamate interurbane».
Mi fa accomodare in un piccolo ufficio ingombro di cartelle, documenti e set di portapranzo collezionabili di Batman, della Disney e qualsiasi altro tema esistente, tutto ammucchiato sugli scaffali e le varie superfici disponibili. Mi indica il telefono sulla scrivania. «La lascio sola».
Il campanello del bancone suona e lei si precipita fuori chiudendo la porta.
Chiamo lo studio della dottoressa Gateman a Seattle.
«Ostetricia e ginecologia», risponde una voce femminile vivace dall’altra parte. Il tempo si ferma e il mio cuore smette di battere, poi tutto riprende a un ritmo frenetico.
«È lo studio della dottoressa Gateman?», chiedo con voce tremante. Si sente la linea un po’ disturbata. Per favore, fa’ che non cada la linea.
«Sì. Posso aiutarla?». In sottofondo, telefoni che squillano, mormorio di voci.
«Sono stata una paziente, credo uno o due anni fa».
«Vuole fare un controllo? La dottoressa Gateman ha disponibilità tra tre mesi». Si sente una scarica statica, la sua voce echeggia.
«Vorrei solo delle informazioni. Ho perso la memoria… a causa di un incidente, e devo mettere insieme dei pezzi del mio passato».
«Oh, mi dispiace tanto! Lascio un messaggio alla dottoressa, sicuramente la ricontatterà. Al momento è in vacanza».
«C’è qualcun altro con cui posso parlare?»
«Vedo se riesco a passarle l’infermiera».
«Grazie mille», dico sollevata. Mi mette in attesa con una musichetta strumentale. Dopo una ventina di secondi la musica si interrompe e risponde una voce gutturale: «Sono l’infermiera».
«Sono Kyra Winthrop… Sono stata lì da voi tempo fa per vedere la dottoressa Gateman. Si ricorda di me? Ho bisogno urgente del mio quadro clinico».
In sottofondo, i telefoni continuano a squillare; l’orologio sul muro ticchetta. «Dovrei cercare la sua cartella».
Sospiro. «Sarebbe fantastico», rispondo, quasi svenendo per il sollievo.
«Prima devo verificare che è chi dice di essere».
«Kyra Winthrop», dico col cuore in gola.
«Mhh… non la trovo».
No… un vicolo cieco. Le dico come si scrive.
«Sì, l’ho scritto così, ma non la trovo».
«È perché sono stata lì troppo tempo fa? Magari non risulto nei computer».
«Abbiamo digitalizzato tutto cinque anni fa. Se è venuta dopo quel periodo, ci dovrebbe essere».
«Ma allora… dovrei risultare».
«Ma non c’è. Posso aiutarla per qualcos’altro?»
«Aspetti! Potrei esserci con il cognome da nubile. Munin. Kyra Munin».
Sento il rumore dei tasti. «L’ho trovata con il cognome Munin. Kyra?»
«Sì, sono io». All’improvviso mi sento stordita. Le do il mio numero di previdenza sociale e il nome da nubile di mia madre.
«Abita ancora a Cedar Court?».
Mi balena nella mente l’immagine di una casa – una capriata di legno di cedro con un tetto di metallo e finestre grandi. Poi sparisce.
«Cedar Court, no… ora abito a Mystic Island. Ocean View Lane, al numero 12».
«Okay, sto prendendo la sua cartella… È stata nostra paziente per un bel po’».
«Ero sposata, vero? Ma ho dato il mio cognome da nubile?»
«Risultava sposata, sì. Quando è rimasta incinta».
Quando sono rimasta incinta. Per poco non mi cade il telefono; la stanza inizia a oscillare. «Incinta. Ero incinta».
«La prima volta nell’aprile di due anni e mezzo fa».
«La prima volta». Sento il sapore della bile in gola.
«Ha avuto un aborto alla fine di giugno… era di circa dodici settimane».
Non riesco a respirare. «Un aborto?»
«Sì, mi dispiace tanto».
«Sono stata ricoverata o…?»
«Di solito non ricoveriamo per gli aborti spontanei. La dottoressa potrebbe prescrivere l’ibuprofene».
«Ho la prescrizione, insieme alla famotidina».
«Per proteggere lo stomaco».
«E non sono… stata in ospedale».
«No. Almeno, non è stata registrata da nessuna parte».
«Capisco… E la volta dopo…».
«A inizio aprile dell’anno scorso…».
«Un altro aborto?». Mi tremano le mani, riesco a malapena a reggere il telefono.
«La gravidanza era un po’ più avanzata, ma la situazione è stata simile».
Emetto un rantolo. Un altro?
«Non si preoccupi… ci sono molti motivi che portano all’aborto, non è necessariamente qualcosa che non va in lei».
«Niente che non va in me. Ma è chiaro che invece qualcosa c’è».
Sento che sfoglia delle pagine. «Non aveva infezioni né problemi di coagulazione, e neanche utero debole, inclinato o setto».
«Che cos’è l’utero setto?»
«È quando l’utero è diviso in almeno due cavità da un tessuto. Lei non ce l’ha. Niente tessuto fibroso o adeso, né diabete o sindrome dell’ovaio policistico».
«Quindi va tutto bene?», chiedo in un soffio.
«Sta bene? Le sto dando un bel po’ di informazioni».
«Sì. Dovevo sapere. Che altro c’è nella mia cartella?»
«Nient’altro. Quindi ha avuto un incidente?»
«Commozione cerebrale».
«Mi dispiace tanto. Mi assicurerò che la dottoressa Gateman lo sappia. Se c’è qualcos’altro che posso fare…».
«No, grazie, per ora non mi serve altro. Apprezzo molto il suo aiuto».
«Sa, c’è sempre speranza».
«Grazie». Riaggancio e mi piego sulla sedia, stringendomi la pancia. I muscoli mi si bloccano e le mani perdono sensibilità. L’olio da massaggio per la guarigione spirituale, la lunga vacanza su Mystic Island per evadere, la decisione di scappare, lasciare la città… Meglio, ora?, ha chiesto Rachel allo spaccio. Jacob mi ha tenuta nascosta la mia storia clinica… cos’altro non mi dice?