Capitolo trentuno
Jacob aveva acceso le candele per cena. Le fiammelle guizzavano al centro del tavolo, illuminando debolmente i piatti. Aveva sistemato due tovagliette di tessuto l’una vicino all’altra, tovaglioli di stoffa, posate d’argento, due bicchieri e una bottiglia di vino bianco.
«Hai di nuovo esagerato», gli dico. «Addirittura una bottiglia di vino?»
«Dalla cantina di Van».
«È molto carino da parte tua, ma non ho molta fame». In realtà, non credo riuscirei a tenermi il cibo nello stomaco.
«Ecco, siediti». Sposta la sedia e mi accomodo.
«Sei bravo a prenderti cura di me», gli dico, guardando l’insalata sul tavolo. Poi porta i ravioli al sugo.
«Sugo fatto in casa. La mia ricetta speciale. Senza zucchero. La maggior parte delle ricette ce l’ha».
«Sei la persona più salutista che abbia mai conosciuto».
«Solo un pizzico di peperoncino», dice, infilando il cavatappi per aprire la bottiglia. «Non ti piace il cibo troppo piccante, ma un po’ di peperoncino ti fa bene».
«Grazie».
Jacob stappa la bottiglia e il rumore mi fa sobbalzare. «È la prima volta che il tappo non mi cade dentro».
«Ottimo lavoro».
Mi versa mezzo bicchiere e mi guarda preoccupato. «Stai bene?»
«Sì», dico nel tono più naturale che mi riesce, ma i braccioli della sedia sembrano le pareti di una cella.
Jacob si versa il vino e si siede, poi mi lancia un altro sguardo. «C’è qualcosa che non va. Sei ancora arrabbiata con me».
«Perché dovrei?». Sono sicura di non sembrare convincente.
Si incupisce e le sue labbra si piegano all’ingiù. «Devi credermi, ho fatto quello che pensavo volessi», dice con uno sguardo supplichevole. Non l’ho mai visto così vulnerabile.
«Ti credo».
Solleva il bicchiere. «Un brindisi a un nuovo inizio, alla fiducia».
Mi guarda negli occhi.
«A un nuovo inizio», dico poco convinta, facendo tintinnare i bicchieri.
Si posa il tovagliolo sulle gambe e io lo imito, poi prende le pinze per l’insalata e me ne mette una porzione abbondante nel piatto. «Quando le verdure nell’orto di mia madre – nel nostro orto – saranno mature, faremo l’insalata con i nostri prodotti».
«Non vedo l’ora». Prendo la forchetta e la poso di nuovo. «Ti sei impegnato per preparare una cena romantica. Grazie».
«Non sta funzionando, eh?», dice guardandomi.
Gli sfioro la guancia. «Non sei tu, sono io».
«È quello che si dice quando si vuole lasciare qualcuno. Mi stai lasciando?». Non lo pensa davvero, sta cercando di affascinarmi con il suo sorrisino.
«No. Ti sto dicendo che sono viziata. So che non sono perfetta. Non lo sono mai stata, no? Anche se tu continui a sostenere il contrario».
Mi guarda. «Ma per me lo sei». Le sue parole sono cariche di una verità diversa, che scorre sotto la superficie. Sapeva di Aiden? È per questo che non ne parla praticamente mai?
Mi metto qualche raviolo nel piatto. Assaggio a malapena il cibo, nonostante sorrida e gli dica quanto sia buono e che ha fatto un ottimo lavoro, come sempre.
Dopo cena, ci dividiamo una macedonia e carichiamo insieme la lavastoviglie. La parte domestica è quella che odio, aveva detto Aiden quella sera sedendosi accanto a me. Lasciamo tutto così, la vita è troppo breve. Mi aveva trascinata di nuovo in camera da letto, fregandosene della montagna di piatti sporchi.
Jacob si assicura che piatti e scodelle vadano nella lavastoviglie sciacquati, poi pulisce l’acquaio. «Sarà pure acciaio inossidabile, ma si sporca che è una meraviglia», dice.
Più tardi, dopo essermi messa il pigiama, si ferma sulla porta della mia camera. «Buonanotte, Kyra», dice esitante.
«Buonanotte», rispondo guardandolo. Mi sto pettinando seduta sul letto.
«Me lo dirai quando sarai pronta a farmi tornare in questa stanza con te?»
«Certo», rispondo, e lui se ne va.
Faccio parecchia fatica a prendere sonno, e quando mi addormento sono tormentata da incubi. Mi sveglio molto inquieta ma non ricordo immagini precise. La mattina, mi preparo caffè e pane tostato con burro di arachidi prima che Jacob si alzi. Mentre mi lavo la faccia nel bagno principale, la cicatrice sul pollice sembra pulsare.
Ora lo vedo, Jacob che lancia il sapone e poi il portasapone facendo la crepa sulla porta. Cosa vuol dire che non sei sicura?, mi aveva gridato contro. Stavo raccogliendo un pezzo di vetro e mi ero tagliata il pollice con il bordo. Il sangue era colato sul pavimento. Perché Jacob mi aveva detto che mi ero tagliata il dito durante un’immersione? Voleva far finta che non avessimo mai litigato, che non si fosse mai arrabbiato?
Dopo una colazione tranquilla, con caffè e cereali, va in città. La casa, che una volta mi sembrava così ariosa e spaziosa, sembra rimpicciolirsi, ogni angolo è pieno di segreti. Sfoglio gli album di foto: sono su un kayak, sulla spiaggia, bevo il caffè, mangio un uovo sodo, faccio buche in giardino. In ogni scatto sembriamo felicissimi insieme. Jacob ha forse estirpato tutte le prove dei problemi che avevamo? Le ha nascoste?
Vado nel suo bagno e sento il profumo del detersivo per il bucato, oltre al suo familiare odore speziato. Ha rifatto il letto senza lasciare neanche una piega. Nel suo armadio, i pantaloni sono perfettamente piegati e appesi sulle grucce di legno, sistemati per stile e per colore. Lo stesso vale per le camicie, i maglioni, le scarpe. Anche nei cassetti tutto è disposto con ordine metodico: le canottiere bianche sono piegate con cura; piega anche le mutande e i calzini.
Non ci sono foto appese al muro, niente monete sparse sul comò.
I libri sul comodino sono sistemati dal più grande al più piccolo,
come una piramide egizia. I tre in cima, in brossura, sono
thriller, mentre quello alla base, con la copertina rigida, è
l’Atlante delle isole remote. Lo apro e sfoglio pagine in
cui ci sono disegni di isole non segnate. Tromelin, nelle Isole
sparse nell’Ocea-
no Indiano, è una strisciolina di sabbia con un paio di palme;
l’isola di Ascensione, nell’oceano Atlantico, conta 1100 abitanti
ed è un terreno sterile costituito da colate di lava. Sull’Isola
degli Orsi, nel Mar Glaciale Artico, si contano solo nove
residenti.
Mystic Island non compare. Forse siamo in un posto talmente remoto da non essere riconosciuto da nessun libro. Dalle pagine scivola un foglietto, una delle liste di Jacob, ma questa attira la mia attenzione perché è più criptica delle altre:
Photoshop
Aggiornare parole chiave: Kyra, Aiden, io
Email di Linny
Aggiornare parole chiave? Che diamine vuol dire? Email di Linny.
Perché Jacob l’ha scritto? Perché ha scritto il nome di Aiden? Mi siedo sul bordo del letto e fisso la lista, cercando di dare un senso a quelle parole. Il cuore mi batte velocissimo. Si sta scambiando email con Linny? O in qualche modo legge i miei messaggi?
Mi sento assalire dal panico e mi stringo nelle braccia, respirando profondamente e dondolando avanti e indietro. Dopo cinque minuti, forse dieci, mi alzo, metto il foglietto in tasca e risistemo il libro. Fuori si sta alzando il vento. Tutto quello a cui riesco a pensare è che devo sapere la verità.
Vado nel mio studio, accedo alla casella di posta e cambio la password; poi inizio a scrivere un messaggio a Linny. Ti stai sentendo con Jacob? Qualcuno è entrato nel tuo account? Sta succedendo qualcosa di strano? No, devo ricominciare. Se lui legge prima i messaggi, potrebbe modificare il testo, capirebbe che ho dei sospetti.
Cosa sto facendo? Ricomincio.
Cara Linny,
forse Jacob legge i messaggi. Se fosse così
Se fosse così… Ricomincio.
Cara Linny,
grazie per essere sempre un’amica meravigliosa, non so cosa farei senza di te. I ricordi mi stanno tornando a pezzi. Ora sono fiduciosa di poter riuscire a recuperare gli anni perduti della nostra amicizia. Se non tutto quanto, almeno i momenti più importanti.
Non riesco a trovare la giraffa intagliata che mi avevi dato, quella che aveva portato tua madre dal Kenya. L’ho cercata ovunque. Era uno dei tuoi regali che preferivo. Pensi che tua madre prenderebbe in considerazione l’idea di portarmene un’altra, la prossima volta che va lì? Baci,
Kyra
Spengo il computer, mi vesto e vado in città in bici sfidando il vento freddo. Niente durante il percorso mi suggerisce che sono stata qui sull’isola con Aiden, ma sono andata a letto con lui molte volte. Me lo sento dentro, ho il suo odore impresso sulla pelle. La nostra relazione non era un rapporto occasionale, ma lui significava qualcosa per me. Dov’è, ora? Cosa sta facendo?
Nell’insenatura, la barca di Van non c’è; è in viaggio per la Colombia. Pedalo fino al porto e supero i pescherecci che oscillano sull’acqua. Non vedo da nessuna parte il furgone di Jacob. Lo spaccio è chiuso. Tutti i negozi del centro sono bui e silenziosi, danno una sensazione di abbandono. L’isola sembra desolata, disabitata.
Mi fermo davanti alla biblioteca e guardo il pontile del traghetto, e mi vedo com’ero quel giorno – trascinavo la valigia verso il molo e Jacob mi rincorreva. Non te ne andare. Non è giusto.
Non posso restare, gli avevo detto girandomi verso di lui. Sembrava vuoto. I suoi capelli erano illuminati dal sole di mezzogiorno. Avevo intenzione di prendere l’ultimo traghetto. Lo volevo lasciare per Aiden? Mi dispiace, Jacob. Una parte di me non voleva andarsene; uno spettro di me stessa sarebbe rimasto. La decisione di andarmene non era stata facile, la verità non era chiara. Avevo esitato, stavo quasi per cambiare idea. L’estate stava finendo; le giornate erano ancora calde ma le notti stavano diventando più fredde. La nostra estate idilliaca di riscoperta sull’isola non aveva funzionato. Le ferite non si erano rimarginate.
Speravo che portandoti qui…, aveva detto.
Lo speravo anch’io.
Non dovresti andare via, stai facendo un errore. Tornare da lui non è quello che vuoi. Io e te possiamo avere una famiglia… lo so che possiamo.
Stringo la presa sul manubrio. Cos’era successo tra noi? Se Jacob controlla le mie email, magari decidendo cosa farmi leggere, è per proteggermi dalla verità? Linny sa quello che è successo?
La porta delle biblioteca si spalanca. «Kyra!», mi saluta Frances, la bibliotecaria. «È arrivata presto. Avevo intenzione di chiamarla, ma sono stata impegnata con gli ordini per la scuola. Deve vedere quello che ho scoperto. Mi ci è voluto un po’, ho dovuto scavare».
Parcheggio la bici e salgo le scale due alla volta. Dentro si sta caldi; seguo Frances fino al bancone e sono avvolta dall’odore di legno vecchio e polvere. Lei inizia a frugare nei cassetti. «Sapevo che era qui. Ho dovuto parlare con la vecchia bibliotecaria, c’era qualcosa che mi ossessionava in quei quadri. Ecco!». Apre una cartella e mi mostra la fotocopia di un vecchio ritaglio di giornale.
«Che cos’è?», chiedo con il cuore a mille.
«È del 1977. Il Corno delle isole San Juan». Mi indica un uomo e una donna: lui indossa una maglietta e una tuta da meccanico e sta aiutando una donna a scendere da uno yacht. In contrasto con quella figura rozza, lei è splendida con il suo vestito estivo a fiori e i capelli scuri scompigliati dal vento. Nella didascalia c’è scritto: “La stagione turistica si scalda a Mystic Island”.
«Quello è Douglas Ingram», dico. «E la donna…».
«Sì, la donna», commenta lei. «Sono rimasta scioccata anch’io. Non c’era nessuna storia riguardante la foto, solo la didascalia».
C’è qualcosa di terribilmente familiare in lei, nella forma del suo viso, nell’arcata delle sopracciglia, negli zigomi. Anche negli occhi, quell’espressione pensierosa, prudente.
La sua chioma selvaggia le cade sulle spalle. Sta sorridendo, il suo viso è rivolto verso il sole.
«È la donna del quadro», affermo.
Frances annuisce.
«Mi somiglia davvero tanto». La somiglianza non è precisa, ma i tratti in comune che abbiamo sono sorprendenti. È come se stessi guardando un’altra versione di me stessa. Sembra avere una ventina d’anni.
«Le somiglia proprio», dice la bibliotecaria. «Dovete essere imparentate, in qualche modo».
«No, in realtà. Chi era?»
«All’epoca non ero qui, ma le conviene chiedere a Doug».
Piego la foto e la metto in tasca, poi riprendo la bici e pedalo per la via principale, girando infine a sinistra dove c’è il cedro rosso del Pacifico.
Inizia a piovere. La strada accidentata è leggermente in discesa e attraversa un campo e un bosco. In uno spiazzo compare una casa in legno, e dal camino esce una nuvola di fumo.
Parcheggio la bici e percorro il sentiero in pietra che arriva al portico. Salgo i gradini con il cuore in gola. Prima di riuscire a bussare, la porta si apre. Doug Ingram mi fissa con gli occhi assonnati. Indossa un maglione largo, dei jeans e un paio di ciabatte. I suoi capelli bianchi sono scompigliati, come se li avesse pettinati un decennio fa.
«Credevo fosse un sogno», dice. «Ma non è così, no? Assomiglia tantissimo a Malinda».