Capitolo cinque

La scadenza è fra tre anni. La bustina è chiusa. Ma stavamo provando ad avere un bambino, perché avrei dovuto nascondere un preservativo nel portafoglio? Non avrei potuto usarlo con Jacob, se lui voleva un figlio e io no; un preservativo avrebbe richiesto la sua complicità. Se volevo evitare una gravidanza, avrei preso la pillola o usato un diaframma o… che cosa? E se avessi voluto usare il profilattico con un altro? Con Aiden? Se avessi avuto una relazione? O intenzione di iniziarne una?

Se Linny fosse qui, saprebbe cosa fare. Riesco a sentire il suo tono autoritario nella testa, nonostante i chilometri che ci separano. Ti stavi prendendo cura di te stessa, donna. Continua così. Linny, fieramente indipendente e avventurosa, non si è mai sposata. Come fa una donna a essere così sicura di sé? Deve sapere chi è, e per farlo deve conoscere il proprio passato. Deve ricordarsi di essersi innamorata e poi disamorata, di aver scelto di sposarsi o di non farlo. Si ricorda le scelte che la definiscono. Ma io non ho quel vantaggio.

Questo preservativo è una scelta che non ricordo di aver fatto. Butto quella prova scandalosa nella borsa, mi tolgo la fede e la poso sul ripiano della specchiera. Forse non ho il diritto di portarla.

Fuori, il cielo si è rannuvolato. Con l’improvviso acquazzone, l’ampia veduta sparisce e il mondo si rimpicciolisce fino a diventare la stanza in cui mi trovo. Il ramo di un rododendro graffia la finestra come un’unghia sul vetro. Jacob fischietta in cucina; sento il rumore di pentole e padelle, dell’acqua del rubinetto e del frigorifero che si apre e si chiude.

In bagno mi tolgo i vestiti. Il mio corpo non mi è familiare, esile e fragile dopo settimane di riabilitazione. Quando mi giro verso la doccia, nella mia mente si materializza la sagoma indistinta e muscolosa di un uomo. Si gira verso di me: è Jacob che mi invita a entrare. Un brivido di aspettativa mi percorre tutto il corpo.

Entro nella doccia trattenendo il respiro, andando verso quel ricordo, ma si dissolve. Appena l’acqua calda mi scorre addosso cerco di farlo tornare, ma non c’è più. Attraverso la tenda traslucida della doccia intravedo il lavandino, lo specchio e gli asciugamani blu appesi. Prendo il sapone, me lo passo sulla pelle e mi risciacquo. L’acqua calda mi tranquillizza.

«Kyra?», mi chiama Jacob, socchiudendo la porta, ma non lo vedo.

«Ehi», rispondo con il cuore che mi martella nel
petto.

«L’omelette è pronta». Fa per chiudere la porta.

«Aspetta, non te ne andare». Chiudo l’acqua.

«Sono ancora qui».

«Mi passi un asciugamano?»

Allunga la mano e me lo porge.

Mi asciugo, mi avvolgo il telo intorno al corpo e sposto la tenda della doccia. La stanza oscilla e sono sempre più vicina al pavimento. Jacob mi afferra per il braccio e mi tiene in piedi. «Caspita, stai bene?»

«Un piccolo capogiro».

Mi fa sedere sulla tavoletta del water. L’aria sembra incresparsi, i muri ondeggiare. Ho la nausea.

«Fai dei respiri profondi. Inspira con il naso ed espira con la bocca». La sua voce pacata mi avvolge e la stanza torna normale.

«Ora sto meglio. Mi è tornato in mente un ricordo di noi due».

Sento che trattiene il respiro. «Che ricordo?»

«Ti ho visto nella doccia».

«Eri dentro con me?»

«Mi hai invitata a entrare e l’ho fatto. Volevo…».

«Ci arriveremo. Ora devi vestirti e mangiare. Resto con te».

«Non sono invalida».

«Non intendevo…».

«Lo so. Ce l’ho con me stessa, tutto qui. Starò bene».

Lui annuisce con un’espressione costernata e mi lascia da sola.

 

Jacob ha apparecchiato con tovagliette di stoffa blu, piatti di ceramica, posate d’argento e tovaglioli. Ha preparato un bicchiere di spremuta d’arancia per me e il solito frullato energetico per lui.

Mi siedo a capotavola. «Ti sei superato. Hai fatto davvero troppo». Sono conscia del preservativo che ho in tasca. Perché l’ho portato qui? Avrei potuto lasciarlo nella borsa o buttarlo via. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

«Non è mai troppo». Mi mette davanti un piatto fumante con sopra una morbida omelette e delle frittelle di patate. Inspiro il profumo di cipolle e funghi.

Lui si siede accanto a me con un piatto colmo di cibo. «Allora, com’è?».

Assaggio una forchettata e gli sorrido. «Ottima».

«Se non cucinassi per te, ti dimenticheresti di mangiare».

«Sono una donna fortunata». E allora perché dovrei voler andare a letto con qualcun altro? Mi ritorna in mente l’immagine di Jacob e del suo corpo nella doccia. Ricordo com’è sotto i vestiti, il piccolo neo sulla spalla destra.

Prima di rendermi davvero conto di quello che sto facendo, metto il preservativo sul tavolo. Sento le orecchie fischiare, le dita mi tremano. «Ho trovato questo nel mio portafoglio».

Lui non batte ciglio, non sembra sorpreso. «Un altro?»

«Che vuol dire “un altro”?»

«Ne avevi già trovato uno».

«Ma questo l’ho appena trovato».

«Ne avevi trovato un altro e me l’hai fatto vedere».

«E poi l’ho rimesso nel portafoglio?», chiedo con voce tremante.

«Immagino di sì», risponde con la bocca piena.

«Ma perché l’avrei fatto?»

«Nel caso in cui volessimo usarlo di nuovo?»

«Quindi ne abbiamo usati, prima».

«Sì, perché?».

Tamburello le dita sul tavolo. Non so cosa mi dà più fastidio, se sapere che ho nascosto un preservativo nel portafoglio o non ricordare che l’avevo già trovato. «Non lo so, è che… se non fossi la persona che credi che sia? Se ti avessi nascosto qualcosa?».

Mi sorride incredulo. «Pensi di avere il preservativo perché hai una relazione?».

Mi appoggio allo schienale, ormai ho perso l’appetito. «Potrebbe essere?»

«Ne dubito. Usavamo quella marca». Taglia un pezzo di omelette e continua a mangiare.

«Ma scade fra tre anni. I profilattici non hanno una durata?»

«Non ci ho mai pensato».

«Ho paura che…».

«Cosa? Di cos’hai paura?»

«Non lo so». Appoggio la fronte sulla mano, serro la mascella. Ha smesso di piovere, ma il cielo grigio ci osserva sempre dalla finestra.

«Ma io sì. So che il tuo cuore è con me, ne sono sicuro».

Scosto la mano dalla sua. L’omelette sembra sgonfia, sposto i funghi con la forchetta.

«Non devi finire per forza, non mi offendo».

«Non è per il cibo, sono io. Se non ti meritassi?»

«Come puoi dirlo? Io non ti merito. Hai sempre meritato di più di quello che hai avuto».

Sento uno spiffero freddo. «Che vuoi dire? Meglio di cosa?».

Si gratta la fronte. «Meglio di quello che hai avuto crescendo…».

«Intendi i miei genitori?»

«Erano ipercritici. Per loro non andava mai bene niente». Si alza e prende il suo piatto.

«Perché stai parlando della mia infanzia?»

«Sei una brava persona e meriti di essere amata, tutto qui».

«Ma è davvero così? Potrei aver…».

«No. Senti, a volte abbiamo usato il preservativo, come ti ho detto. Non facciamone una tragedia».

«Ne ho tenuto uno nel caso ci venisse voglia, prima che decidessimo di mettere su famiglia?»

«Perché continui a fare queste domande?». È ancora in piedi e mi dà le spalle, ha la schiena curva. «Non puoi…?»

«Cosa?»

«Non puoi stare con me e basta?». Si gira a guardarmi, il suo viso è deformato dal dolore e dall’irritazione. «Non puoi essere solo mia moglie? Sto cercando di fare del mio meglio».

«Lo so». Ho la gola secca. «Non volevo litigare. Ma non ricordo niente, devo fare domande».

«Ma non dai per buone le mie risposte, vuoi trovarle da sola».

«Hai ragione. Scusami, Jacob. Lo sai che spero di poter ricominciare, con te». Perché lo spingo al limite? In fondo, ho paura che mi stia sopravvalutando, fingendo che sono una moglie migliore di quanto in realtà non sia.

«Abbiamo finito la legna. Vado a tagliare qualche ceppo, ne riparliamo dopo». Si incammina fuori, nella mattina burrascosa, sbattendosi la porta alle spalle.