Capitolo sedici
Quanto arrivo a casa, ho i piedi fradici e batto i denti dal freddo. Jacob è sul divano che legge con una tazza in mano.
«Ce l’avevano il caffè allo spaccio?», gli chiedo.
«Un nuovo carico», risponde. «Come mai ci hai messo tanto?».
Mi tolgo gli stivali e le calze bagnati e mi fermo di spalle davanti alla stufa, assorbendo il calore del fuoco. «Sulla spiaggia ho incontrato un uomo, un paio di chilometri a sud».
«Che uomo?», chiede, osservandomi da dietro le lenti degli occhiali da lettura.
«Ha detto che si chiama Doug».
«Non lo conosco».
«Era strano».
«L’isola attira eremiti. Non andare così lontano senza di me».
«Mi ha scambiata per qualcun altro».
Ora Jacob mi sta guardando intensamente, all’improvviso interessato. «Ha detto chi era? Chi è quest’uomo?»
«Non ne ho idea. Se n’è andato sulla sua barca. L’avevo già visto in città, stessa scena».
Jacob si sistema gli occhiali e riprende a leggere, girando pagina. «Dev’essere fuori di testa. Ne girano un po’ da queste parti. Chissà cosa potrebbe fare».
Mi volto per scaldarmi le mani sulla stufa. Le parole dell’uomo mi riecheggiano nella mente. Dovresti lasciarlo. Vai, ora. Ma non lo conosco, e quando si è avvicinato per guardarmi meglio ha detto che neanche lui sapeva chi fossi. Eppure non posso fare a meno di sentire di avere una connessione con lui, un’eco, come se ci conoscessimo. E forse è davvero così, ma nessuno dei due si ricorda.
«Vado a fare un giro in città», annuncio. Se mi sbrigo, potrei riuscire a raggiungere la barca di Doug che attracca al porto. Non so bene perché voglio parlare con lui, se per la sua storia misteriosa o per scoprire se è collegato alla mia.
«Ti accompagno», dice Jacob.
«No, no, goditi il libro. Prendo la bici».
Per tutto il tragitto, le parole dell’anziano mi rimbombano in testa. Dovresti lasciarlo. Vai, ora. Con chi pensava di parlare? Il paesaggio si apre davanti a me, l’aria è umida e salmastra. Pedalo oltre la biblioteca, l’ufficio postale e lo spaccio. Al molo, sul cartello ricoperto di muschio, si legge: TRAGHETTO DI MYSTIC ISLAND – DOMENICA E LUNEDÌ NESSUNA TRAVERSATA. C’è una lista di tratte annullate per bassa marea e una nota: “Soggetto a variazioni in base alle condizioni meteo”. Mi tolgo il casco e porto la bici a mano fino alla banchina. Doug e la sua barca non si vedono. Ma stava venendo qui… dev’essere al largo.
«Il traghetto oggi è in ritardo», dice una voce delicata alle mie spalle. L’odore del fumo di sigaretta si diffonde nell’aria. Mi giro e in piedi vicino a me vedo una ragazza con un pesante maglione bianco, un paio di jeans e delle scarpe da ginnastica consumate. Sta fumando, con un braccio intorno alla vita e la mano infilata sotto il gomito destro. Tiene la sigaretta lontana per far cadere la cenere.
«Come lo sai?», chiedo.
Dà un colpetto alla sigaretta e calpesta la cenere con il tacco della scarpa. «La radio. Immagino per la bassa marea o problemi al motore. O qualcuno si è buttato». Prende una boccata e butta fuori il fumo.
«Spero nessuno si sia buttato».
«Succede più spesso di quanto si creda». Un’altra boccata. «Da queste parti la gente sparisce, qualcuno potrebbe benissimo essersi buttato giù da qualche parte. A volte le persone si buttano anche dai dirupi di qui».
«Come quello a Windy Reef Park?»
«Ma tu non vuoi mica saltare, no? Non sei, tipo, depressa?».
«Io? No. Ma apprezzo l’interessamento».
«Ehi, dovevo chiedere. Perché l’altra volta non eri proprio felice. Meglio, ora?»
«Molto meglio, sì». Stringo il manubrio. «Ci conosciamo?». Non ricordo niente di lei. Il ricordo che invece lei ha di me è terribile, come se mi avesse osservata da un vetro a specchio.
Mi lancia uno sguardo curioso e arriccia il naso. «Sì, ci conosciamo. Rachel Spignola. E tu sei Kyra Winthrop. Ma… Ah, già!», esclama schioccando le dita. «Ti dimentichi le cose. Mia madre mi ha detto quello che ti è successo».
«Le notizie volano».
«Vero? Mi sono trasferita per un po’, sono tornata sei mesi fa e tutti l’hanno saputo in tipo due secondi. Sto da mia madre, è la proprietaria dello spaccio. La aiuto. Io e il mio ragazzo avevamo abitato a Friday Harbor, ma ci siamo lasciati».
Abitavamo, penso, ma non la correggo. «Mi dispiace», rispondo, lanciando un’occhiata all’edificio. Le finestre scure ricambiano lo sguardo, riflettendo il cielo nuvoloso.
«Non dispiacerti. Sono tornata per rimettermi in piedi». Butta fuori il fumo da un angolo della bocca, poi finisce la sigaretta, pesta il mozzicone e lo raccoglie. «Ti va di entrare?». Si gira e va verso lo spaccio.
La seguo all’interno e vengo colpita da una sensazione di familiarità data dall’odore del caffè e delle mele, del tè e del pane, dallo scricchiolio del vecchio pavimento in legno.
«Posso aiutarti a cercare qualcosa?». Va in giro aprendo tende, sistemando scaffali. I raggi di sole illuminano i granelli di polvere nell’aria.
«Cosa cercavo quando sono venuta qui, la volta che non stavo tanto bene?»
«Volevi qualcosa che ti aiutasse a dormire. Qualche specie di infuso fatto con radici puzzolenti. Non mi ricordo il nome».
«Valeriana».
«Sì, quella. Abbiamo solo robe tipo camomilla».
Valeriana e scutellaria le impediranno di rigirarsi nel letto, mi aveva detto Eliza Penny al Mystic Thyme, non ricordo quando. Aiuta quando si ha l’ansia.
«Soffrivo di insonnia?»
«Non quest’ultima volta».
«Quest’ultima volta?». Le pareti del locale iniziano a diventare sfocate.
«Sei venuta giovedì scorso».
Vengo pervasa dalla paura. «Sono venuta in bici qui in città?»
«Eri con tuo marito. Non ti ricordi?»
«Sono venuta in macchina con Jacob».
«Sì», conferma con uno sguardo perplesso. «Aspettavo che te ne ricordassi da sola».
«Ma non me l’hai detto, prima, quando pensavo che ci fossimo rincontrate dopo almeno un anno».
«Scusa», risponde imbarazzata. «Non volevo farti agitare».
«Troppo tardi. Sono agitata». Un pezzo del puzzle va al suo posto. Come fosse un sogno, mi ricordo di essere venuta qui in macchina la scorsa settimana per fare la spesa. Lo spaccio era chiuso, c’era un cartello con su scritto: TORNO ALLE 14. Jacob aveva imprecato, poi eravamo scesi dal furgone ed eravamo andati a zonzo finché Rachel non era tornata. «Mi ha detto che stamattina è venuto a comprare il caffè».
Passa qualche istante e poi parla: «Sì, era di fretta».
«Ha detto perché?»
«No».
«Non ricordo cos’abbiamo comprato quando siamo venuti insieme». Gli scaffali erano mezzi vuoti.
«Mancavano parecchie cose».
«Lo so».
«Hai avuto i capogiri e hai aspettato nel furgone. Tuo marito ha comprato un po’ di roba. E poi…». Guarda fuori dalla finestra e si morde il labbro.
«E poi?»
«È entrata Nancy… ha parlato con lui. Hanno ricordato i vecchi tempi».
«Cosa vuoi dire con “vecchi tempi”?».
Picchietta le unghie sul bancone e sposta il peso da un piede all’altro, palesemente a disagio. «Ho pensato fosse strano. Lei ha detto: “Sono contenta che sei tornato per restare”. Non intendevo origliare, ma qui dentro è difficile evitarlo».
«E lui cos’ha risposto?», chiedo, prendendo una confezione di Lipton. Cerco di mostrarmi indifferente, ma mi trema un po’ la voce.
«Ha detto: “Sì, per restare”. E lei: “È la cosa giusta per te?”».
Rimetto la confezione di tè sullo scaffale. «E lui che cos’ha detto?».
Infila una mano nella tasca posteriore dei jeans e tira fuori un pacchetto un po’ schiacciato di Marlboro Lights che posa sul bancone vicino alla cassa. «Non ho sentito bene, è entrato qualcuno. Credo abbia detto: “Non sono affari tuoi”».
Mi appoggio al bancone, sorpresa di quanto mi senta sollevata. «E…?»
«Lei ha annuito… e se n’è andata».
Guarda fuori dalla finestra, poi posa lo sguardo su di me. «Sembrava tipo arrabbiata con lui per qualcosa».
«Per cosa?»
«Vallo a sapere. Ha sbattuto la roba sul bancone ed è schizzata via».
«Forse era arrabbiata per altri motivi», osservo.
«Non saprei. Sembrava che si conoscessero bene».
«Sono cresciuti insieme. Durante le vacanze».
«Sì, e anche io e mia madre. Lei è cresciuta qui, io sono cresciuta qui. Una volta che vivi qui, non te ne vai mai. Ma io l’ho fatto. E appena riprenderò in mano la mia vita, me ne andrò di nuovo».
«Non pensi di restare per molto tempo».
«Per carità», risponde. «Sai qual è il problema di vivere su una piccola isola? Che non c’è niente da fare. Per me, almeno».
«Immagino. Ma per me è un tesoro di vita marina. Mettendocisi di impegno, si trova qualcosa da fare».
«Se ti piacciono quel genere di cose e vivere in mezzo al nulla. Ma per me non ha senso. E sai cosa? Tutti sanno i fatti tuoi, non hai un attimo di privacy».
Un minimo di privacy, vorrei dire, ma anche stavolta mi trattengo dal correggerla: le darei fastidio. Anzi, ho l’impressione di averlo già fatto in passato.
«Posso capire gli svantaggi di vivere in una piccola comunità», replico in maniera diplomatica.
«Tanto per dirne una, non posso lavorare come attrice. Se riuscissi a tornare a Friday Harbor, potrei fare l’audizione all’Island Stage Left. Sono brava con Shakespeare».
«Interessante», dico con un sorriso.
«Posso anche interpretare un uomo. Basta travestirmi e mettermi una barba bianca. Posso essere Sir John Falstaff, cavaliere del regno di re Enrico IV!».
«A proposito di barbe, mi chiedevo se conosci un uomo che ne ha una. Un po’ eccentrico. Tiene la barca al molo, vive vicino a noi. Ha detto che si chiama Doug».
«Vuoi dire Doug Ingram? È un pescatore, si è costrui-
to da solo la casa».
«Sì, credo sia lui».
«È affascinante per essere vecchio. Be’, hai capito».
«È un bell’uomo».
«In un modo un po’ contorto, no? Se ne sta sulle sue, è un eremita», dice, guardandosi le unghie. «Ma è un bravo artista. In biblioteca sono esposti i suoi quadri».
La mia eccitazione dev’essere palese, perché Rachel indica la porta e dice: «Se li vuoi vedere, ti conviene sbrigarti. A volte chiudono per pranzo».