Capitolo ventitré
«Sto fissando la luce su atomi d’argento». Dice Jacob, scattandomi una foto in cucina.
«Cos’è che stai facendo?». Appiattisco i capelli; non sono affatto pronta per un’altra sessione fotografica per l’album.
«Sto imprimendo il tuo bellissimo viso sulla carta fotografica».
«Sull’argento».
«Certo. È così che sono le vere foto, non quelle digitali».
«Per favore, basta farmi foto mentre cucino», dico, mettendo la mano sull’obiettivo. «Non so neanche fare un uovo sodo. Tutto quello che tocco diventa pietra… o cenere».
«Il tocco di Medusa. Con i suoi stessi capelli».
«Piantala», gli dico strappandogli la macchina fotografica dalle mani.
«Troppo tardi. La tua bellissima figura è stata fissata sulla pellicola».
«E allora toglila».
Mi dà un bacio sulla guancia. «Non penso proprio. Dài, ti faccio vedere come tagliare le patate dolci. Ma prima le dobbiamo pulire».
Laviamo sei piccole patate con acqua fredda.
«Fammi vedere quello che sai fare», gli dico.
«Con molto piacere». Mi avvolge la vita e mi solleva, dirigendosi verso la camera da letto.
«Non era quello che intendevo!», dico, ridendo e contorcendomi tra le sue braccia. «Intendevo quello che sai fare in cucina».
«Ah, quello», risponde fingendosi deluso. «Va bene. Nella ricetta c’è scritto che le patate devono essere tagliate a metà con la buccia», spiega, passandomi il coltello. «Attenta a non tagliarti. Io taglio la zucca a cubetti».
La zucca è sul bancone, da una parte, sformata e bulbosa. Potremmo piantare le nostre verdure nell’orto di mia madre, mi aveva sussurrato Jacob tanto tempo fa. Così non avremmo mai bisogno di lasciare l’isola.
Sarebbe bello, avevo risposto. Il cielo al tramonto era di un bel colore bordeaux. Come l’estate stava finendo, avevo sentito che anche i miei sogni e le mie speranze se ne stavano andando. Come potevo restare in quel mondo magico di foreste e uccelli, tramonti e spiagge? L’isola era semplice rispetto alla mia vita in città. Adoravo la luce rosata che si rifletteva sul mare, le giornate tranquille passate a osservare le pozze di marea e i sentieri silenziosi, ma dovevo tornare ai miei impegni, alle strade intasate, al ritmo frenetico della vita. A Seattle, sentivo che ogni ora era impegnata, non avevo tempo di piantare proprio niente.
«Dov’è il vecchio orto di tua madre?», chiedo.
«Come?». Il coltello gli scivola dalla mano e sbatte contro la superficie del bancone.
«L’ultima volta che siamo venuti hai accennato all’orto di tua madre».
Prende il coltello. «È lì», dice, indicando il lato sud della casa, verso la dépendance. «Quando abbiamo tempo, te lo mostro. Facciamo domani?»
«Perfetto».
Guarda quante erbacce, aveva detto. Si era inginocchiato per strappare dei denti di leone quasi con rabbia, come se avessero invaso di proposito l’orto trascurato di sua madre.
Poso una delle patate sul tagliere e la taglio a metà. Su un altro tagliere, Jacob si sta occupando della zucca, che rivela tantissimi semi all’interno.
«Cucinavamo spesso insieme?», chiedo, tagliando le altre patate.
«A volte. Io cucinavo, tu aiutavi». Taglia la zucca e mette i cubetti in un dosatore. Il bancone brilla e la superficie diventa da granito a blu ceruleo. Sto vedendo la nostra vecchia cucina sulla terraferma. L’acquaio aveva il rubinetto con due manopole, non come questo qui che ne ha una sola. La casa sembrava enorme, vuota. Avevo cotto troppo le lasagne e la parte superiore era bruciata e asciutta.
Ero nel panico.
Jacob si era precipitato. Aveva guardato la mia espressione sconvolta e si era arrotolato le maniche… Ci penso io, aveva detto.
Sono rovinate. Non ci riesco. Non ci avrei dovuto nemmeno provare.
Lascia fare a me, aveva ribattuto, e mi ero sentita incredibilmente sollevata.
La cucina torna a essere quella della dépendance. Gli avvolgo le braccia intorno alla vita e lo avvicino a me.
«Questo per che cos’è?», chiede.
«Un apprezzamento per quello che stai facendo».
«Vorrei ordinare altri apprezzamenti da portar via, grazie».
«Mi è tornata in mente una cosa. Nella nostra vecchia casa c’erano credenze di legno di quercia e un bancone blu?».
Mi guarda scioccato, ma poi fa un ghigno. «Quasi. I banconi non erano blu, ma più tendenti al verde».
«Strano, me li ricordo blu».
«Cosa ti sei ricordata?». Accende il forno a 130 gradi e tira fuori due teglie da una credenza.
«Stavi cucinando… e io ero turbata. Avevo l’ansia perché avevo bruciato le lasagne. Evidentemente doveva venire qualcuno di importante a cena e volevo fare una buona impressione».
Aggrotta le sopracciglia. «Fammi pensare, lasagne bruciate… Dev’essere la sera in cui è venuto il professor Brimley». Mette la zucca in una teglia e le patate nell’altra, poi condisce tutto con l’olio di cocco e inforna.
Quella sera era successo qualcos’altro: Aiden era entrato mentre Jacob era ai fornelli, con addosso un grembiule e in mano una spatola. Si era girato e l’aveva salutato. Ciao, bello, gli aveva detto.
Il mio cuore aveva perso un battito nel vedere Aiden con la cravatta storta e i capelli scompigliati. Doveva essere arrivato direttamente dal lavoro. Avevo nascosto quello che provavo.
Perché? Era venuto aspettandosi di trovarmi da sola? Jacob non sarebbe dovuto essere lì?
Vi sto interrompendo, aveva detto Aiden a disagio. L’aria era carica di tensione.
No, tranquillo, aveva replicato Jacob. Vuoi da bere? Hai bisogno di discutere di qualcosa?
No, non è importante, aveva risposto Aiden, posando un contenitore sul tavolo. Ero nei paraggi e ho pensato di restituire questo. Si era girato e se n’era andato. Volevo corrergli dietro, ma ero inchiodata al pavimento. Il ricordo scompare tra le ombre, mancano diverse parti.
«Per la zucca, un quarto d’ora», dice Jacob, avviando il timer del forno. «Per le patate ci vorrà di più. Svuota la busta di noci pecan sul tagliere e inizia a farle a pezzetti più piccoli.
«Tu e Aiden siete buoni amici, giusto?», chiedo, guardandolo all’opera.
«Sì, perché?»
«Non lo senti da quando siamo arrivati».
«L’ho chiamato ieri mentre tu eri in spiaggia».
Annuisco e mi appoggio al bancone. «Lo invitiamo qui? Insomma, ci piaceva fare cose con lui, no?».
È pensieroso, ha lo sguardo distante. Poi sorride. «Sì, potremmo invitarlo. La prossima settimana devo tornare in città per controllare come vanno le cose. Glielo dico».
«Me l’avevi detto che dovevi andare?». La solita sensazione di ansia inizia a diffondersi dentro di me.
«Non ti ricordi», dice con una punta di irritazione. «Ogni tanto devo tornare per tenere d’occhio l’azienda. Riunioni con gli azionisti, con il consiglio…».
«Aiden non lavorava con te? Era nella tua azienda, giusto?»
«È un responsabile informatico», dice Jacob. «Un ingegnere. Gli ho dato io il lavoro. Non ci vedevamo tutti i giorni».
Sarò sempre grato a Jacob, mi aveva detto Aiden. Devo stare attento. Non voglio inimicarmelo. Inimicarselo come? E quando?
«Eravate amici da prima, vero? Dall’università».
«Sì, era uno scienziato brillante e anche un bravo programmatore. A entrambi piaceva l’aria aperta».
«Abbiamo fatto molte escursioni insieme. Abbiamo mai fatto immersioni con lui?»
«Un paio di volte».
«Nello stretto?»
«No, nello stretto siamo andati solo quella volta». Mi lancia uno sguardo incuriosito. «Perché tutte queste domande su Aiden?»
«Mi ricordo che era passato senza avvisare, tutto lì».
Jacob annuisce lentamente; per un attimo restiamo in silenzio.
«Cosa dice la ricetta?», chiedo, facendo un respiro profondo.
«Bisogna scaldare le noci e aggiungere gli ingredienti magici: zucchero di cocco, sciroppo d’acero, cannella e sale».
«Ti aiuto. Posso…».
«Stai tranquilla», dice, «faccio io».