Capitolo ventinove

«Le avrebbe dovuto parlare degli aborti», dice
Sylvia.

Ha accettato di incontrarmi per una sessione di emergenza stamattina presto. Si è pettinata i capelli in fretta, e indossa jeans e maglione con un paio di scarpe da ginnastica. Senza trucco i suoi lineamenti sembrano più spigolosi, ma la sua espressione è gentile e sinceramente preoccupata.

Sono rimasta sveglia quasi tutta la notte. Jacob ha dormito da solo nella sua camera, in modo che entrambi avessimo tempo per riflettere. «Anche considerando la mia lettera e quello che è successo durante l’immersione, stando a quanto dice?».

Batte la penna sul suo quaderno. «Le ha nascosto cose molto importanti».

«Cercava di proteggermi. Sono arrabbiata con lui e con me stessa. Per non essermi fidata di lui, per aver scritto quella lettera, per avergli caricato quel peso sulle spalle. Forse avrebbe dovuto ignorare la lettera e farmi vedere i vestitini, tutto quello che c’era dentro la scatola. Forse avrebbe dovuto avere fiducia nel fatto che avrei saputo accettare la verità».

«Ho pensato a una cosa, Kyra. Odio dover fare l’avvocato del diavolo, ma è sicura che non le abbia mai mostrato la scatola?».

Quella domanda mi colpisce, e per un attimo non riesco a parlare. «Non credo», rispondo infine. «Se così fosse, me l’avrebbe detto».

«Ma non le ha detto quello che era successo davvero durante l’immersione… almeno finché non l’ha messo con le spalle al muro sugli aborti».

La stanza diventa all’improvviso fredda. Sul polsino del mio maglione, un filo si sta disfacendo. «Vero. Ora dice che ho nuotato verso la corrente più forte di proposito. Ma non posso credere di averlo fatto. Non mi sembra fossi depressa. Posso immaginare che gli aborti mi abbiano fatta sentire triste e senza speranza, ma…».

«Ma?»

«Non abbastanza da cercare di uccidermi. So che certe persone arrivano a quel punto quando sono depresse, ma… non riesco a immaginare di volerla fare finita. La vita è troppo preziosa. D’altronde però non so chi ero qualche mese fa, o l’anno scorso».

«È mai stata profondamente depressa?», chiede, stendendo le gambe e accavallandole di nuovo. Mi guarda dritta negli occhi.

«Intende prima, durante gli ultimi anni che ricordo?».

Lei annuisce, fissandomi attentamente.

«No, mai», dico sicura. «Certo, sono stata triste, ma mai così tanto da volerla fare finita. Non credo, almeno…».

«Non crede? Cosa intende?».

Faccio un respiro profondo. «Alle superiori ero un po’ emarginata. Non sono mai stata nel gruppo dei ragazzi popolari, non ero una cheerleader. Ho frequentato una scuola con molti gruppi elitari».

«Aveva amici?»

«Qualcuno, ma quelli più stretti li ho conosciuti all’università. Comunque, non ho mai voluto farmi del male, e di sicuro non l’avrei mai fatto durante un’immersione. Avrei preso pillole o qualcosa del genere, in modo da addormentarmi e non svegliarmi. Ipoteticamente parlando».

«Ha mai considerato l’idea? Prendere pillole e non svegliarsi?»

«No, mai!».

«Non lo pensavo».

Mi pulsa la testa, ho di nuovo i capogiri. «Forse Jacob non vuole che sappia la verità».

«E quale pensa sia la verità?». È seduta immobile, la matita ferma con il gommino appoggiato al quaderno.

«Quando mi ha mentito, è stato per proteggermi. E se avessi fatto qualcosa di terribile?»

«Ad esempio?»

«Se avessi fatto del male a qualcuno, o…».

«Lei crede di aver fatto del male a qualcuno?»

«Non mi sembra». Guardo fuori dalla finestra: le nuvole si spostano e il cielo da blu sta diventando grigio. Affogare qualcuno sarebbe la soluzione migliore. La stanza inizia a ruotare, le ombre turbinano come in un frullatore alla velocità minima. «Devo andare. Devo riflettere». Mi alzo e faccio per raggiungere la porta.

«Tutto bene?», mi chiede con un tono preoccupato.

Mi giro verso di lei e rispondo: «Sinceramente, non lo so».