Conclusione

Alternative all’Armageddon

Alla fine di Delitto e castigo l’assassino nichilista Raskol’nikov, in preda alla febbre, ha un incubo chiaramente allegorico in cui «tutto il mondo era condannato a essere vittima di una tremenda, inaudita pestilenza, mai vista prima»:

Gli uomini che le accoglievano [le «trichine»] dentro di sé diventavano subito indemoniati e pazzi, eppure non si erano mai creduti così intelligenti e infallibili come dopo il contagio. Mai avevano ritenuto più giusti i loro giudizi, le loro conclusioni scientifiche, le loro categorie e convinzioni morali. Interi villaggi, intere città e nazioni venivano infettati e cadevano in preda alla pazzia. Tutti vivevano nell’ansia e non si capivano a vicenda, ciascuno ritenendo di essere l’unico depositario della verità; e ciascuno, guardando gli altri, si tormentava, si batteva il petto, piangeva e si torceva le mani. Non sapevano chi e come giudicare, non riuscivano ad accordarsi nel giudicare il bene e il male. Non sapevano chi condannare e chi assolvere. Gli uomini si uccidevano tra loro, presi da una rabbia assurda e forsennata. Si preparavano a combattersi con interi eserciti, ma gli eserciti, già in marcia, a un tratto cominciavano a dilaniarsi da soli, le file si scompaginavano, i guerrieri si slanciavano l’uno contro l’altro, si infilzavano e si sgozzavano. Nelle città le campane suonavano a stormo tutto il giorno: venivano chiamati a raccolta tutti, ma nessuno sapeva chi fosse a chiamare e a che scopo, e tutti erano in angoscia. Avevano abbandonato i normali mestieri, perché ciascuno proponeva le proprie idee, le proprie innovazioni, e non riuscivano a mettersi d’accordo. L’agricoltura era paralizzata. A volte la gente si radunava a gruppi; si mettevano d’accordo su qualcosa, giuravano di non separarsi più, ma subito dopo si mettevano a fare una cosa completamente diversa da quella che loro stessi avevano proposto e ricominciavano a incolparsi reciprocamente, ad azzuffarsi e a scannarsi. Scoppiavano incendi. Venne la carestia. Tutti e tutto andava in malora.  1

Questa fu proprio la visione che si realizzò in Europa tra il 1914 e il 1918.

Che cosa si ottenne, se mai si ottenne qualcosa, con questa Armageddon? Le truppe tedesche furono estromesse dal Belgio e dalla Francia settentrionale, oltre che dalla Romania, dalla Polonia, dall’Ucraina e dagli Stati baltici. Gli imperi tedesco, russo e turco furono ridimensionati; quello austriaco completamente distrutto. L’Ungheria perse territori, e lo stesso accadde anche alla Bulgaria e alla Gran Bretagna, che poco a poco perse quasi tutta l’Irlanda. Si formarono nuovi Stati: l’Austria e l’Ungheria presero strade separate; i serbi realizzarono il loro obiettivo di uno Stato sloveno del Sud – chiamato dopo il 1929 «Jugoslavia» – insieme ai croati e agli sloveni (e ai bosniaci musulmani); la Cecoslovacchia, la Polonia, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia e la Finlandia divennero indipendenti. L’Italia si ingrandì, ma meno di quanto avevano sperato i suoi governanti, acquisendo il Sud Tirolo (Alto Adige), l’Istria, parte della Dalmazia e le isole del Dodecaneso (nel 1923). La Francia si riappropriò dell’Alsazia e della Lorena, perdute nel 1871. Francia e Gran Bretagna ampliarono i propri imperi coloniali sotto forma di «mandati» negli ex possedimenti nemici: la Siria e il Libano furono assegnati alla Francia, l’Iraq e la Palestina alla Gran Bretagna, che si era impegnata a crearvi uno Stato nazionale ebraico. Anche il Camerun e il Togo furono spartiti fra le due vincitrici. Degli altri possedimenti tedeschi, l’Africa sud-occidentale fu assegnata al Sudafrica, le isole Samoa alla Nuova Zelanda e la Nuova Guinea all’Australia. La Gran Bretagna si accaparrò anche l’Africa orientale tedesca, con grande disappunto del Belgio e del Portogallo (ricompensati con altri territori africani meno appetibili). In definitiva, Sassoon aveva visto giusto nel 1917: la guerra era diventata «una guerra ... di conquista». La nuova carta geografica, come disse Balfour, era ancora più colorata di rosso britannico.  2 Nella riunione conclusiva del gabinetto di guerra britannico prima della conferenza di Versailles, Edwin Montagu aveva osservato seccamente che gli sarebbe piaciuto sentire qualche parola contro l’idea che la Gran Bretagna si annettesse il mondo intero.  3 Ma ormai l’America rivaleggiava con la Gran Bretagna in veste di banchiere del mondo: stava per ottenere una supremazia economica globale. E si realizzò la visione del presidente Wilson di un «nuovo ordine mondiale» fondato su una Società delle nazioni e sul diritto internazionale, anche se non nella forma utopistica da lui sognata. Si prestò poca attenzione alle pretese del Giappone, che aveva rivendicato lo Shandong, un altro relitto tedesco, come parte del bottino. Né furono sollevate serie obiezioni quando, violando il trattato di Sévres, la Turchia e la Russia si spartirono per un breve periodo l’Armenia indipendente.  4

Fatto probabilmente più notevole, i Romanov, gli Asburgo e gli Hohenzollern furono rovesciati (il sultano ottomano non durò molto più a lungo); al loro posto furono istituite delle repubbliche. Sotto questo aspetto, la prima guerra mondiale rappresentò un punto di svolta nel lungo conflitto tra monarchia e repubblica; conflitto che aveva le sue radici nell’America e nella Francia del XVIII secolo, e anzi ancora più indietro, nell’Inghilterra del XVII secolo. Benché due monarchie fossero già cadute nel 1911 (quella cinese e quella portoghese), il repubblicanismo era stato relativamente debole nel 1914; alcuni conservatori pensavano che la guerra avrebbe contribuito a eliminarlo definitivamente. Di fatto, però, la prima guerra mondiale sferrò un colpo fatale a tre delle maggiori monarchie europee e incrinò gravemente la posizione di un certo numero di altre. Alla vigilia del conflitto, i discendenti e altri parenti della regina Vittoria erano seduti sui troni non solo di Gran Bretagna e Irlanda, ma anche di Austria-Ungheria, Russia, Germania, Belgio, Romania, Grecia e Bulgaria. In Europa soltanto la Svizzera, la Francia e il Portogallo erano già repubbliche. Nonostante le rivalità imperiali della diplomazia prebellica, i rapporti personali tra gli stessi monarchi erano rimasti cordiali, persino amichevoli: la corrispondenza scambiata tra «George», «Willy» e «Nicky» testimonia la sopravvivenza di una élite reale cosmopolita e poliglotta con un certo senso dell’interesse comune. E malgrado il fiume di insulti rovesciato sul Kaiser dai propagandisti bellici britannici (e da allora riecheggiato da molti storici), Guglielmo II non era stato direttamente responsabile dello scoppio della guerra nel 1914; anzi, aveva cercato invano di persuadere l’Austria a occupare solo Belgrado quando era trapelato che la Gran Bretagna avrebbe appoggiato la Francia e la Russia in una guerra generale. Anche lo zar era apparso troppo incline alla pace agli occhi del suo capo di stato maggiore: si spiega così la storia dei telefoni staccati. Sebbene il potere dei monarchi rispetto ai politici e ai soldati di professione avesse avuto alti e bassi, alla fine tutti i sovrani avevano esitato a impegnarsi in una guerra totale l’uno contro l’altro, intuendo, come aveva previsto Bethmann Hollweg nel maggio del 1914, che «la guerra avrebbe rovesciato più di un trono». Insomma, la posizione dei monarchi era destinata a essere minacciata da una guerra che mobilitò milioni di uomini: in fondo, la prima guerra mondiale fu democratica.

Perciò, quando il peso della guerra iniziò a farsi sentire, la monarchia fu tra le prime istituzioni stabili a perdere legittimità, tanto che il conflitto portò a un trionfo del repubblicanismo, insperato persino nell’ultimo decennio del XVIII secolo. Nel luglio del 1918 Nicola II e la sua famiglia furono sterminati a Ekaterinburg e i loro corpi gettati nel pozzo di una miniera (dove rimasero per ottant’anni). Il Kaiser fuggì in esilio in Olanda, il cui governo si oppose alle richieste di estradizione come criminale di guerra. L’ultimo imperatore degli Asburgo, Carlo I, scappò in Svizzera e poi a Madera. L’ultimo sultano ottomano fu fatto frettolosamente uscire da Costantinopoli e trovò rifugio su una nave britannica in attesa. Certo, l’istituzione monarchica sopravvisse in Gran Bretagna, Belgio, Romania, Bulgaria, Italia, Jugoslavia, Grecia e Albania, nonché in Olanda e in Scandinavia, che non avevano partecipato alla guerra; e nuove monarchie furono fondate sulle macerie dell’Impero ottomano. Ma la carta postbellica dell’Europa vide nascere nuove repubbliche in Russia, Germania, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e nei tre Stati baltici, oltre che in Bielorussia, Ucraina occidentale, Georgia, Armenia e Azerbaijan (che furono annesse di forza all’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche nel 1919-1921), e infine nell’Irlanda meridionale. Questa fu una delle conseguenze più inaspettate della guerra. In Russia, inoltre, la nuova repubblica era una tirannia molto più sanguinaria e illiberale di quella degli zar. Lo sprofondamento della Russia nella guerra civile poteva sembrare la realizzazione degli originari scopi bellici della Germania: abbattere la minaccia militare a est. Ma tutti gli altri belligeranti (tedeschi compresi) finirono con il rammaricarsi del trionfo di Lenin. Anche se vi furono manifestazioni rivoluzionarie da Glasgow a Pechino, da Cordova a Seattle, i timori che il bolscevismo si diffondesse nel mondo come l’influenza spagnola erano esagerati.  5 Poco a poco ci si accorse però che la Russia sovietica aveva la possibilità di diventare una potenza militare ancora più forte della Russia imperiale, anche se fu solo negli anni Quaranta che la capacità di recupero del nuovo regime si palesò chiaramente a una nuova generazione di soldati tedeschi.

I vincitori della prima guerra mondiale avevano pagato un prezzo eccessivamente alto rispetto al valore dei loro guadagni; anzi, talmente alto che in brevissimo tempo la maggior parte di essi scoprì di non essere in grado di sostenerlo. A conti fatti, la guerra aveva reclamato oltre 9 milioni vite da entrambi gli schieramenti, vale a dire più di un uomo ogni 8 dei 65,8 milioni che l’avevano combattuta. In quattro anni e tre mesi di massacro meccanizzato, ogni giorno era stata uccisa una media di 6046 uomini. Il numero totale delle perdite per l’Impero britannico fu di circa 921.000 uomini: il fondatore della Commissione imperiale per le tombe di guerra, Sir Fabian Ware, calcolò che, se i morti avessero sfilato lungo Whitehall, la parata davanti al Cenotafio sarebbe durata tre giorni e mezzo.  6 Nel 1919 Ernest Bogart cercò di calcolare il valore monetario dei morti: secondo la sua stima, il costo totale ammontava a 7 miliardi di dollari per la Germania, 4 per la Francia e 3 per la Gran Bretagna.  7 In realtà, sul piano demografico, i morti (anche se non sempre le loro capacità) furono rapidamente rimpiazzati. Durante la guerra erano morti meno britannici di quelli che erano emigrati nel decennio precedente.  8 Sebbene in Germania il tasso di natalità fosse calato bruscamente dopo il 1902 (da oltre il 35 per mille fino a un minimo del 14 per mille nel 1917), non si ebbe carenza di giovani nel periodo immediatamente successivo alla guerra; semmai il contrario. Come percentuale della popolazione complessiva, gli uomini di età fra i quindici e i quarantacinque anni aumentarono dal 22,8 per cento nel 1910 al 23,5 per cento nel 1925.  9 Anche in Inghilterra e nel Galles il numero di uomini tra i quindici e i ventiquattro anni risultò più elevato nel 1921 che nel 1911: come percentuale della popolazione complessiva diminuì solo leggermente (dal 18,2 al 17,6 per cento).  10

Un problema più grave erano i 15 milioni di uomini feriti nel corso della guerra e diventati invalidi permanenti. Dei 13 milioni di tedeschi che, in un momento o nell’altro, avevano «prestato servizio», almeno 2,7 milioni erano rimasti invalidi in modo permanente a causa delle ferite riportate; e di questi 800.000 ricevevano pensioni di invalidità.  11 Sono i patetici storpi dipinti da Otto Dix: ex eroi del fronte ridotti a mendicare sui marciapiedi.  12 C’erano almeno 1,1 milioni di feriti in Francia, 100.000 dei quali totalmente invalidi.  13 Oltre 41.000 soldati britannici avevano subìto amputazioni in seguito a ferite di guerra; due terzi di essi avevano perso una gamba e il 28 per cento un braccio; altri 272.000 avevano subìto ferite che non richiesero amputazioni. Alla fine degli anni Trenta 220.000 ufficiali e 419.000 soldati ricevevano ancora pensioni di invalidità.  14 C’erano infine coloro che avevano subito shock mentali irreversibili: 65.000 ex soldati britannici ricevevano pensioni di invalidità per «nevrastenia»; molti, come il poeta Ivor Gurney, rimasero ricoverati in ospedali psichiatrici per il resto della loro vita.

C’era poi il cordoglio. Gli storici hanno recentemente rivolto la propria attenzione ai diversi modi in cui i sopravvissuti – genitori, mogli, fratelli e amici – cercarono di convivere con la perdita dei loro cari. Senza dubbio, come ha sostenuto Jay Winter, molti trovarono un po’ di conforto nei contributi simbolici al cordoglio offerti dai memoriali di guerra. E, altrettanto indubbiamente, contribuiva anche la religione, compresa la pratica allora di moda, sebbene non ortodossa, di comunicare con gli «spiriti» dei morti. I popoli europei persero nella prima guerra mondiale più persone di quante ne furono poi uccise nell’Olocausto: l’élite della società britannica aveva sacrificato un’intera generazione; tuttavia, in virtù del modo in cui era morta e dell’esistenza di una tematica tradizionale del sacrificio cristiano, i sopravvissuti erano meno traumatizzati rispetto agli ebrei scampati ai campi di sterminio nel 1945.  15 Ma nessun simbolo – non la Trincea delle baionette a Verdun, né le strazianti statue di genitori in lutto a Käthe Kollwitz, né i 73.367 nomi di caduti incisi a Thiepval e neppure il sobrio pathos del Cenotafio di Whitehall – poteva fornire nulla più che un semplice luogo in cui sfogare l’angoscia personale. Semmai, il vero scopo di questi memoriali era quello di comunicare il dolore a coloro che avevano avuto la fortuna di non subire perdite fra i propri cari; era questo l’autentico significato della proposta del sudafricano Sir Percy Fitzpatrick: che tutta la Gran Bretagna osservasse due minuti di silenzio all’undicesima ora dell’undicesimo giorno di ogni novembre. La testimonianza di chi aveva perduto i propri figli – Asquith, Bonar Law, Rosebery, Kipling, Sir Harry Lauder – conferma la verità universale che nessun dolore equivale a quello di perdere un figlio.  16 Kipling poteva sfogarsi con la scrittura: la storia che scrisse sul reggimento di suo figlio John è una delle più ammirevoli memorie di guerra, straordinaria nella pacatezza del suo tono;  17 e le sue poesie di guerra («Quando giungi alla lapide di Londra / (Dolore, dolore)») sono intrise di una bellezza malinconica. Ma il dolore non era attenuato dal ricordo. Il soldato semplice David Sutherland fu ucciso in un raid il 16 maggio 1916. Il comandante del suo plotone, tenente Ewart Mackintosh, che lo aveva riportato dietro le proprie linee attraversando la terra di nessuno, scrisse una poesia che è impossibile leggere senza essere travolti dalla commozione:

Così tu eri il padre di David,
e lui era il tuo unico figlio,
e le formelle di torba appena tagliate marciscono
e il lavoro non è stato completato,
a causa di un vecchio che piange,
solo un vecchio in preda al dolore,
per David, suo figlio David,
che non tornerà mai più.  18

Indipendentemente dalle uccisioni, dalle mutilazioni e dai lutti, la guerra distrusse letteralmente e metaforicamente i risultati di un secolo di progresso economico. Come abbiamo visto, una stima del costo del conflitto indica una cifra di almeno 208 miliardi di dollari; ma questa cifra sottovaluta largamente il danno economico subìto. Le difficoltà economiche dei decenni postbellici – un periodo di inflazione, deflazione e disoccupazione dovute alla crisi monetaria, alla contrazione degli scambi commerciali e all’inadempienza debitoria – non avrebbero potuto contrastare più cupamente con la prosperità senza precedenti che aveva caratterizzato gli anni dal 1896 al 1914, epoca di rapida crescita e di piena occupazione fondata sulla stabilità dei prezzi, sullo sviluppo del commercio e sul libero flusso di capitale. La prima guerra mondiale mandò in frantumi la prima età dell’oro della «globalizzazione» economica. La gente si stupiva che, dopo tanti spaventosi massacri, ci potesse essere disoccupazione; e che, dopo altrettanto spaventose distruzioni, ci fosse così poco lavoro. A parte la rapida ripresa demografica, il problema era ripristinare la stabilità fiscale e valutaria. Con il senno di poi, i keynesiani potevano criticare i governi per avere cercato di pareggiare i bilanci anziché ricorrere a prestiti per finanziare la creazione di nuovi posti di lavoro; ma le potenze belligeranti avevano già sfruttato fino al limite questa possibilità ed è alquanto dubbio che i benefici offerti dalla gestione di nuovi deficit ne avrebbero superato i costi. Eichengreen ha sostenuto che i problemi dell’economia del periodo tra le due guerre erano dovuti in gran parte al donchisciottesco tentativo di ripristinare la parità aurea, ormai obsoleta.  19 I parlamenti democratici si opposero all’applicazione delle vecchie norme sulla parità aurea. Irrigidimenti nel mercato del lavoro – come il rifiuto dei sindacati di accettare tagli salariali nominali – condannarono milioni di persone alla disoccupazione. Ma qual era l’alternativa? I paesi che cercarono di evadere i loro debiti di guerra lasciando che le proprie monete si svalutassero finirono per trovarsi in una situazione economica peggiore di quella dei paesi che tornarono faticosamente alla parità aurea. Non è affatto certo che un sistema di tassi di cambio fluttuanti avrebbe dato migliori risultati.

All’epoca, i critici della pace di Parigi si lamentarono delle condizioni finanziarie che imponeva, sostenendo che l’onere delle riparazioni assegnato alla Germania avrebbe condannato l’Europa a una nuova guerra. Ma era un’opinione sbagliata, come abbiamo visto. L’economia di Weimar non fu rovinata dalle riparazioni: si rovinò da sola. Né si deve attribuire molta importanza al fallimento dei progetti francesi per una cooperazione franco-tedesca nella regione della Renania-Ruhr: benché interessanti per gli storici come precursori dell’integrazione europea realizzata dopo il 1945, erano irrilevanti nel periodo tra le due guerre. I veri difetti della pace stavano altrove: nell’ingenua convinzione che il disarmo sarebbe stato sufficiente a sradicare il militarismo (con la limitazione dell’organico dell’esercito a 100.000 uomini, il trattato di Versailles non fece che rendere ancora più efficiente la Reichswehr); e, cosa ben più grave, nella continua invocazione del principio dell’«autodeterminazione».

Già nel dicembre del 1914 Woodrow Wilson aveva sostenuto che qualsiasi accordo di pace «dovrebbe essere a vantaggio delle nazioni europee considerate come popoli e non di una nazione che intenda imporre il proprio sistema di governo a un popolo straniero».  20 Il 27 maggio 1915 si spinse ancora più oltre in un discorso alla Lega per l’applicazione della pace, affermando senza possibilità di fraintendimenti che «ogni popolo ha il diritto di scegliere la sovranità sotto la quale intende vivere».  21 Il 22 gennaio 1917 ribadì questo principio: «Ogni popolo deve essere lasciato libero di stabilire il proprio ordinamento di governo».  22 Questi presupposti furono rielaborati dal quinto al tredicesimo punto dei suoi Quattordici punti (8 gennaio 1918), che nel frattempo erano stati adottati – con diversi gradi di insincerità – dai bolscevichi, dai tedeschi e da Lloyd George.  23 Così come era stata pensata da Wilson, la Società delle nazioni non avrebbe dovuto semplicemente garantire l’integrità territoriale degli Stati membri, ma poteva anche stabilire futuri aggiustamenti territoriali «in base al principio dell’autodeterminazione».  24

Indipendentemente dal rifiuto del trattato di Versailles da parte del Senato americano, questa insistenza sul principio dell’autodeterminazione non teneva conto di un problema fatale: l’eterogeneità etnica dell’Europa centrale e orientale, e in particolare l’esistenza di una grande diaspora tedesca fuori dei confini del Reich. La tabella 46 ci offre un quadro approssimativo della distribuzione della popolazione di lingua tedesca nell’Europa centrale e orientale negli anni attorno al 1919. Il punto essenziale è che c’erano almeno 9,5 milioni di tedeschi fuori dai confini postbellici del Reich, vale a dire circa il 13 per cento della popolazione totale di lingua tedesca. Queste cifre sarebbero ancora maggiori se si includessero i tedeschi residenti in Alsazia-Lorena e in Unione Sovietica (i cosiddetti «tedeschi del Volga»); inoltre, non sono comprese le comunità consapevolmente tedesche fuori dall’Europa continentale. (In effetti, l’Associazione per la germanità all’estero poneva vicino ai 17 milioni la cifra totale dei tedeschi residenti fuori dal Reich dopo il 1918; in seguito la propaganda nazista la gonfiò fino a 27 milioni.)

Tabella 46 – Popolazioni tedesche degli Stati europei, 1919 ca. (in migliaia).

 

Tedeschi

Totale della popolazione

Percentuale

Reich

61.211

  62.410

98,1

Austria

   6.242

      6500

96,0

Danimarca

        40

      3260

  1,2

Cecoslovacchia

      551

      4725

11,7

Italia

      199

  38.700

  0,5

Jugoslavia

      505

  11.900

  4,2

Romania

      713

  18.000

  4,0

Polonia

    1059

  27.100

  3,9

Estonia

        18

      1100

  1,6

Lettonia

        70

      1900

  3,7

Lituania

        29

      2028

  1,4

Totale

70.637

177.623

39,8

L’adozione dell’autodeterminazione come principio guida della pace fu fatale perché non poteva essere applicato alla Germania senza ingrandirla molto al di là del territorio in possesso del Reich prima del 1919. Bisognava scegliere tra un’ipocrisia organizzata, che negava ai tedeschi il diritto all’autodeterminazione garantito ad altri, e un revisionismo assoluto, che avrebbe finito con il garantire ai tedeschi una parte consistente dei territori che erano stati obiettivo bellico nel 1914-1918. Fin dall’inizio dominò l’incoerenza: nessun Anschluss al Reich di quel che restava dell’Austria, ma plebisciti per determinare il destino dello Schleswig, della Prussia orientale del Sud e dell’Alta Slesia. Philip Gibbs dichiarò che «il disprezzo», implicito nei trattati di pace, «dei confini razziali [e] la fomentazione di odi e vendette, avrebbe condotto, sicuro come il sole che sorge ogni giorno, a una nuova guerra».  25 Aveva almeno in parte ragione; infatti, a spingere verso una nuova guerra era proprio il fatto che i negoziatori di pace invocavano il principio dell’autodeterminazione, che non poteva essere applicato in Europa centrale e orientale senza scatenare nuove violenze. Cosa che apparve in tutta la sua chiarezza nei Balcani e in Anatolia, dove 1,2 milioni di greci e mezzo milione di turchi furono «rimpatriati», vale a dire espulsi dalle loro case. La popolazione della Grecia aumentò di un quarto, trasformando completamente l’equilibrio etnico della Macedonia greca.  26 Analoghi trasferimenti di popolazione si verificarono, con vari gradi di costrizione, in altre regioni d’Europa: entro il 1925 770.000 germanofoni avevano lasciato i «territori perduti» trasferendosi nel Reich, più di un quinto di quelli che vi avevano abitato nel 1910.  27 Nel caso dei greci i criteri erano stati di carattere religioso; le future espulsioni di massa si sarebbero basate su più indefinite categorie razziali. Particolarmente vulnerabili apparivano i circa 2 milioni di profughi che tecnicamente erano considerati «senza Stato», la maggior parte dei quali erano profughi della guerra civile russa, più molti ebrei in fuga dai pogrom bianchi e rossi.  28 Non è difficile immaginare che cosa avrebbero potuto fare i tedeschi se avessero vinto la guerra. Persino Max Warburg nel corso del 1916 si era espresso a favore della creazione di «colonie» tedesche nei territori baltici della Lettonia e della Curlandia:

I lettoni potrebbero essere facilmente evacuati. In Russia il reinsediamento non è considerato pratica in sé crudele. La gente vi è abituata ... A questi popoli stranieri [cioè non russi], di discendenza tedesca, che sono attualmente maltrattati, potrebbe essere permesso di spostarsi in quest’area e fondarvi colonie. Le quali non dovrebbero necessariamente essere integrate alla Germania, ma semplicemente affiliate, benché con il cemento, in modo da evitare che tornino lentamente a far parte della Russia.  29

Ma per gli ebrei dell’Europa orientale sarebbe stata preferibile la conquista da parte della relativamente filosemitica Germania imperiale anziché da parte della Russia bolscevica; la conquista da parte del Terzo Reich si dimostrò fatale.

Alcune conclusioni

In questo libro abbiamo cercato di rispondere a dieci domande sulla Grande guerra:

  1. La guerra era davvero inevitabile, a causa del militarismo, dell’imperialismo, della diplomazia segreta o della corsa agli armamenti?

  2. Perché i leader tedeschi scommisero sulla guerra nel 1914?

  3. Perché i leader britannici decisero di intervenire quando scoppiò la guerra sul continente?

  4. La guerra, come si afferma spesso, fu veramente accolta con entusiasmo dalle popolazioni?

  5. La propaganda, e in particolare la stampa, contribuì alla prosecuzione della guerra, come sosteneva Karl Kraus?

  6. Perché l’enorme superiorità economica dell’Impero britannico non fu sufficiente a sconfiggere le Potenze centrali con maggior rapidità e senza l’intervento degli Stati Uniti?

  7. Perché la superiorità militare dell’esercito tedesco non riuscì a garantire la vittoria sugli eserciti francese e britannico nel fronte occidentale, come l’assicurò invece sulla Serbia, la Romania e la Russia?

  8. Perché gli uomini continuarono a combattere anche quando, come ci raccontano i poeti di guerra, le condizioni sul campo di battaglia non erano più umanamente sopportabili?

  9. Perché gli uomini smisero di combattere?

10. Chi vinse la pace: o meglio, chi finì per pagare la guerra?

La risposta all’ultima domanda è già stata data nel capitolo XIV. Le risposte che ho cercato di dare alle altre nove possono essere riassunte nel modo seguente:

1. Né il militarismo, né l’imperialismo né la diplomazia segreta resero inevitabile la guerra. Nell’Europa del 1914 l’antimilitarismo era ovunque la dominante politica. Gli uomini d’affari – persino i «mercanti di morte» come Krupp – non erano interessati a una grande guerra europea. La diplomazia, segreta o no che fosse, riusciva a risolvere con successo i conflitti imperiali tra le potenze: tanto sulle questioni coloniali quanto su quelle navali, la Gran Bretagna e la Germania seppero appianare le loro divergenze. Il motivo principale per cui le relazioni fra la Gran Bretagna e la Germania non diedero vita a un’intesa formale era che la Germania, al contrario della Francia, della Russia, del Giappone o degli Stati Uniti, non sembrava rappresentare una seria minaccia per l’impero.

2. La decisione tedesca di rischiare una guerra europea nel 1914 non era basata sulla tracotanza: non era un tentativo di diventare una potenza mondiale. Semmai, i leader tedeschi agirono spinti da un senso di debolezza. Ciò derivava innanzitutto dalla loro incapacità di vincere la corsa agli armamenti sia in mare sia sulla terraferma. Il rapporto fra il tonnellaggio della flotta da guerra britannica e tedesca era di 2,1 a 1; il rapporto tra la manodopera, in una guerra che avrebbe visto la Russia, la Francia, la Serbia e il Belgio schierati contro la Germania e l’Austria-Ungheria, era di 2,5 a 1. Questa differenza non era affatto dovuta a una carenza di risorse economiche, bensì a costrizioni politiche e soprattutto fiscali: la combinazione tra un sistema federale relativamente decentralizzato e un parlamento nazionale democratico rendeva sostanzialmente impossibile al governo del Reich spendere per la difesa le stesse somme che investivano i suoi vicini più centralizzati. Perdipiù, nel periodo 1913-1914 stava diventando sempre più difficile incrementare i prestiti del Reich, dopo quindici anni in cui il debito nazionale era aumentato del 150 per cento. Perciò nel 1913-1914 la Germania spese per la difesa soltanto il 3,5 per cento del prodotto nazionale lordo, in confronto al 3,9 per cento della Francia e al 4,6 per cento della Russia. Paradossalmente, se fosse stata militarista nella pratica quanto lo erano la Francia e la Russia, la Germania avrebbe avuto meno motivi di sentirsi insicura e di scommettere tutto su un attacco preventivo «mentre poteva ancora superare più o meno l’esame», per citare le rivelatrici parole di Moltke.

3. La decisione britannica di intervenire fu il risultato dei piani segreti dei suoi generali e diplomatici, risalenti alla fine del 1905. Formalmente, la Gran Bretagna non aveva alcun «impegno continentale» nei confronti della Francia, cosa che venne ripetutamente ribadita da Grey e dagli altri ministri al parlamento e alla stampa dal 1907 fino al 1914. E il governo liberale non si sentiva affatto vincolato dal trattato del 1839 che gli imponeva di garantire la neutralità del Belgio; se la Germania non l’avesse violata nel 1914, l’avrebbe fatto la Gran Bretagna. Il punto essenziale era la convinzione di una minoranza di generali, diplomatici e politici che, nel caso di una guerra continentale, la Gran Bretagna avrebbe dovuto inviare un esercito in appoggio della Francia. Tale convinzione si fondava su un’interpretazione errata delle intenzioni tedesche, che i sostenitori dell’intervento ritenevano essere di scala addirittura napoleonica. Costoro erano colpevoli anche sotto altri aspetti: ingannarono la Camera dei Comuni, ma nello stesso tempo non fecero praticamente nulla per preparare l’esercito britannico all’attuazione della strategia prevista. Quando, il 2 agosto, arrivò il momento di decidere, non era affatto scontato che la Gran Bretagna sarebbe intervenuta contro la Germania; la maggior parte dei ministri era titubante, e alla fine accettarono di sostenere Grey anche per il timore di essere sollevati dai loro incarichi, lasciando via libera ai conservatori. Fu un disastro di portata storica – ma non per la sua carriera – che Lloyd George non appoggiasse in questo frangente chi si opponeva all’intervento; infatti, «starsene in disparte» sarebbe stato preferibile a un intervento che non avrebbe potuto essere decisivo in mancanza di un esercito britannico molto più grande. Se la Gran Bretagna fosse rimasta fuori dal conflitto, gli obiettivi tedeschi non avrebbero in realtà rappresentato una minaccia diretta per l’impero; lo smantellamento del potere russo in Europa orientale, la creazione di una Unione doganale centroeuropea e l’acquisizione delle colonie francesi erano tutti obiettivi che potevano convivere con gli interessi britannici.

4. La Gran Bretagna non fu trascinata in guerra sull’onda dell’entusiasmo popolare per il «piccolo Belgio»; un motivo per cui molti uomini si arruolarono nel corso delle prime settimane era l’aumento vertiginoso della disoccupazione scatenato dalla crisi economica provocata dal conflitto. La crisi finanziaria del 1914 è in effetti la migliore prova del pessimismo legato alla guerra. Per molti popoli europei la guerra non era motivo di gioia ma di trepidazione: l’immaginario apocalittico fu usato altrettanto spesso della retorica patriottica. La gente riconobbe l’Armageddon.

5. La guerra fu indubbiamente una guerra dei media: la propaganda non fu l’esito del controllo governativo bensì una mobilitazione spontanea della stampa, nonché degli accademici, degli scrittori professionisti e dei registi cinematografici. Inizialmente, i giornali prosperarono con la guerra, che faceva aumentare enormemente le vendite. Ma i problemi economici del periodo bellico risultarono tutto sommato finanziariamente dannosi per la maggior parte delle testate. Inoltre, lo svilimento del nemico e la mitologia del casus belli, in cui indulgevano i giornali e altri propagandisti, non fu quasi mai presa sul serio da coloro che combattevano; l’efficacia della propaganda aumentava man mano che ci si allontanava dal fronte. Soltanto quando era fondata sulla verità, come nel caso delle atrocità in Belgio e dell’affondamento del Lusitania, la propaganda serviva a rafforzare la volontà di combattere.

6. Le potenze dell’Intesa godevano di un’immensa superiorità economica rispetto agli Imperi centrali: un reddito nazionale combinato maggiore del 60 per cento, 4,5 volte più abitanti e il 28 per cento in più di uomini mobilitati. Inoltre, l’economia britannica crebbe durante la guerra, mentre quella tedesca si contrasse. La guerra economica non riuscì a compensare queste profonde differenze. Ma che la Germania avesse gestito male la sua economia di guerra è soltanto un mito. Se si tiene conto della differenza delle risorse a disposizione, fu piuttosto lo schieramento avversario – e specialmente la Gran Bretagna e gli Stati Uniti – a condurre la guerra in modo inefficiente. In particolare, la Gran Bretagna fece una gran confusione nella distribuzione della manodopera, con il risultato di arruolare un folto numero di operai specializzati dai quali dipendeva l’industria manifatturiera; e molti di essi rimasero uccisi o feriti. Nello stesso tempo, chi rimase in fabbrica o vi fu assunto ottenne salari più alti in termini reali di quanto fosse giustificato in base alla produttività. Questo era il riflesso di un accresciuto potere dei sindacati, che in Gran Bretagna e in Francia quasi raddoppiarono il numero dei propri iscritti nel corso della guerra; in Germania, invece, il numero degli iscritti ai sindacati diminuì di oltre il 25 per cento. In Gran Bretagna, tra il 1914 e il 1918, si persero circa 27 milioni di giornate lavorative a causa degli scioperi; in Germania se ne persero 5,3 milioni. Infine, non è plausibile sostenere che l’errata distribuzione del reddito e la scarsità di generi alimentari abbiano minato alle fondamenta lo sforzo bellico tedesco, dato che i gruppi più colpiti erano poco importanti: proprietari terrieri, funzionari pubblici di alto rango, donne e bambini illegittimi o malati di mente. Non furono loro a perdere la guerra, né a fare la rivoluzione.

7. Nell’uccidere il nemico le Potenze centrali furono molto più efficaci degli eserciti alleati e dell’Intesa; uccisero almeno il 35 per cento in più degli uomini che esse stesse avevano perso in battaglia. Lo stesso vale per la cattura di prigionieri: ne presero tra il 15 e il 38 per cento in più dei loro avversari. Le Potenze centrali invalidarono in modo permanente 10,3 milioni di soldati nemici, e ne persero solo 7,1 milioni. Senza dubbio, gli Imperi centrali avevano eserciti più piccoli; ma il loro tasso complessivo di mortalità era soltanto il 15,7 per cento degli uomini mobilitati, vale a dire appena poco di più di quello dello schieramento avversario (12 per cento). In ogni caso, l’elevato tasso di mortalità non spiega l’esito della guerra: altrimenti sarebbe stata la Francia, e non la Russia, a capitolare, e i reggimenti scozzesi si sarebbero ammutinati. Questo significa che le potenze dell’Intesa persero la guerra di logoramento: in altre parole, la loro strategia principale fu un fallimento; un fallimento quasi altrettanto grave di quello subìto dalla loro seconda strategia più importante, ossia costringere la Germania alla resa per fame attraverso il blocco navale. Tra l’agosto del 1914 e il giugno del 1918 i tedeschi uccisero o catturarono più soldati britannici e francesi di quanti ne persero essi stessi. Anche quando la situazione si ribaltò, nell’estate del 1918, lo si dovette più agli errori della strategia tedesca che a una maggiore efficacia degli Alleati. La portata del successo tedesco e del fallimento alleato appare in modo ancora più evidente se si combinano le cifre finanziarie e militari: alle Potenze centrali uccidere un soldato nemico costò soltanto 11.345 dollari; alle potenze dell’Intesa 36.485 dollari, vale a dire più di tre volte tanto.

8. Perché, allora, gli uomini continuarono a combattere? Le condizioni di vita al fronte erano indubbiamente spaventose. Ogni giorno mitragliatrici, cecchini, granate, baionette e tutto il resto dell’armamentario bellico mietevano morti e feriti. Oltre alla sofferenza di essere «colpiti», gli uomini provavano paura, orrore, dolore, fatica e sconforto: le trincee erano più umide, sporche e piene di parassiti dei peggiori sobborghi metropolitani. Ciononostante, si ebbe poca fraternizzazione con il nemico: la diserzione fu tutto sommato rara per quasi l’intero corso della guerra, specialmente sul fronte occidentale, e gli ammutinamenti ancora meno.

Per molti versi sarebbe rassicurante poter dimostrare che gli uomini combatterono perché furono costretti a farlo dalla gigantesca burocrazia di Stato sviluppatasi prima e durante il conflitto. Alcuni lo furono senz’altro; ma i dati in nostro possesso dimostrano chiaramente che gli uomini costretti a combattere furono un’esigua minoranza. La disciplina militare non mirava a costringere i soldati a combattere, ma semplicemente a incoraggiarli: per questo erano estremamente importanti i rapporti tra gli ufficiali e gli uomini della truppa.

Sarebbe meno rassicurante, ma ancora tollerabile, riuscire a dimostrare, come sosteneva Kraus, che gli uomini combatterono a causa della propaganda sciovinista di una stampa cinica o censurata. Ma anche questa ipotesi, nonostante tutta la risonanza che ebbe all’epoca, non sembra convincente. Alcuni credevano sinceramente di combattere per le cause che i loro governi sostenevano. Tuttavia, molti non compresero le ragioni politiche a sostegno della guerra o non vi credettero. I loro motivi per continuare a combattere erano differenti.

Il morale dipendeva dalle consuete comodità e scomodità: indumenti caldi, alloggi abitabili, cibo, alcol, tabacco, riposo, tempo libero, sesso e licenze. Anche il cameratismo tra i soldati era un importante collante. È improbabile che la guerra sia proseguita anche in virtù di un sottofondo omoerotico, sebbene alcuni ufficiali cresciuti nelle scuole private non ne fossero esenti. La natura dei legami maschili all’interno delle trincee è espressa nel modo più chiaro da parole che mantengono ancora il sapore di quel periodo: gli uomini si affezionavano ai propri compagni e amici. Ma questo tipo di cameratismo era diffuso in entrambi gli schieramenti. Identità collettive più ampie (reggimentali, regionali e nazionali) avevano maggiore importanza perché in certi eserciti erano più pronunciate che in altri (i soldati francesi, per esempio, si sentivano più francesi di quanto i soldati russi si sentissero russi). Alcune testimonianze sembrano indicare che anche la religione abbia contribuito a motivare gli opposti schieramenti. I ripetuti sermoni sulla guerra santa e il martirio cristiano evocati dal clero in entrambi i fronti permisero ai soldati di razionalizzare i massacri che compivano o subivano, benché i nemici che si scontravano sul fronte occidentale non fossero sostanzialmente diversi sotto il profilo religioso.

Ma il punto cruciale è che gli uomini combatterono perché non gliene importava di combattere. Qui mi oppongo all’idea che la guerra sia stata interamente «pietosa» nel senso datole da Wilfred Owen, e gli uomini che la combatterono degni di compassione. Per la maggior parte dei soldati, uccidere e rischiare di essere uccisi era una cosa molto meno intollerabile di quanto generalmente oggi noi immaginiamo. Per molti versi questa è l’argomentazione più sconvolgente che si possa sostenere sulla guerra, considerata l’influenza della poesia di Owen. Tuttavia, persino i più celebri scrittori di guerra ci dimostrano che l’assassinio e la morte non erano le cose che i soldati disprezzavano di più. Uccidere non suscitava grandi repulsioni e la paura della morte veniva rimossa, mentre le ferite non letali, che permettevano di tornare a casa, erano addirittura ricercate. Freud si avvicinò al bersaglio quando sostenne che in guerra fosse all’opera una specie di «istinto di morte». Per alcuni, la motivazione era la vendetta. Altri, senza dubbio, si divertivano a uccidere: a chi era ormai intossicato dalla violenza poteva davvero sembrare «una bella guerra». Allo stesso tempo, gli uomini sottovalutavano le loro probabilità di essere uccisi. Sebbene un soldato britannico in Francia avesse il 50 per cento di probabilità di morire, molti uomini erano convinti che le campane dell’inferno non avrebbero suonato per loro ed erano per certi versi ormai abituati alla vista della morte improvvisa di un proprio compagno (era molto più stressante vedere un uomo morire lentamente). L’orizzonte temporale era deformato: in battaglia gli uomini vivevano secondo per secondo, confortati dall’idea che la lunga attesa della notte precedente fosse terminata. E quando sembrò che la guerra non sarebbe finita mai, entrò in scena il fatalismo.

9. Questo ci porta all’ultima e più difficile domanda: perché, se la guerra era sopportabile, gli uomini smisero di combattere? La risposta migliore sta nel complesso calcolo della resa; infatti, fu la resa di massa, e non il massacro di massa, del nemico a segnalare la vittoria su tutti i fronti. Il collasso tedesco iniziò nell’agosto del 1918 con un gigantesco aumento del numero di soldati germanici presi prigionieri. Questo drammatico mutamento è difficile da spiegare; ma il punto è che arrendersi (e anche prendere prigionieri) era pericoloso. Ci furono, in entrambi gli schieramenti, molti incidenti in cui vennero uccisi dei prigionieri, compreso un numero ignoto di casi in cui i prigionieri furono ammazzati a sangue freddo, lontano dalle zone di combattimento. E questo nonostante il valore riconosciuto dei prigionieri come fonti d’informazione e di lavoro a basso costo. In parte, l’uccisione dei prigionieri era un sottoprodotto della sanguinaria cultura del fronte che abbiamo descritto nelle pagine precedenti: alcuni uomini uccisero i prigionieri per vendetta. Ma ci sono anche le prove che alcuni ufficiali incoraggiavano la politica di «non fare prigionieri» al fine di aumentare l’aggressività dei propri uomini. È possibile che questo tipo di incidenti fosse meno frequente nel 1918, ma non sembra probabile. Molto più probabile, invece, è che il generale declino del morale, dovuto all’evidente fallimento dell’offensiva di primavera, alla richiesta di armistizio fatta da Ludendorff e al problema sempre più grave delle malattie, abbia incoraggiato i soldati tedeschi a considerare la prosecuzione della guerra ben più gravosa di quanto non avessero ritenuto nel 1917. Tuttavia, sarebbe sbagliato considerare questa volontà di arrendersi come una stanchezza generale nei confronti della violenza. Anche se i combattimenti sul fronte occidentale cessarono nel novembre del 1918, la guerra continuò a infuriare nell’Europa orientale e altrove; e in Russia fu combattuta dai Bianchi e dai Rossi con una ferocia ancora più spaventosa.

Ricordi diversi

Alla luce di tutto questo, è opportuno riesaminare criticamente l’affermazione fatta nell’Introduzione, ossia che il ricordo della guerra nella letteratura e nell’arte era dominato da uno spaventoso orrore. Persino alcuni dei più celebri poeti di guerra erano meno «contro la guerra» di quanto si pensi comunemente. Delle centotré poesie dell’edizione ufficiale delle opere di Owen, soltanto trentuno (secondo il mio conto) possono essere effettivamente classificate come «antibelliche».  30 Per quanto riguarda The Kiss di Sassoon – indirizzata a «Brother Lead and Sister Steel» («Fratello Piombo e Sorella Acciaio») – è come minimo ambigua nei confronti del combattimento corpo a corpo, in cui il poeta (soprannominato al fronte «Mad Jack», cioè «Jack il folle») era bravissimo:

Dolce sorella, concedi questo al tuo soldato:
che nella gran furia possa sentire
il corpo su cui poggia il suo tallone
tremare per il tuo bacio dardeggiante dall’alto.  31

La famosissima denuncia di Sassoon della guerra come «guerra di aggressione e conquista» piacque a una piccola cerchia di pacifisti; ma i suoi amici e i suoi superiori la considerarono un segno di «nevrastenia». Anziché mandarlo davanti alla corte marziale, mostrarono indulgenza e lo spedirono a «Dottyville», «la città dei matti», l’ospedale psichiatrico di Craiglockhart.  32 Dopo essere stati entrambi curati dal dottor Rivers, Sassoon e Owen tornarono di propria spontanea volontà in servizio attivo. Altri «poeti di guerra» avevano nei confronti della guerra un atteggiamento più ambiguo che ostile: un buon esempio è offerto da Charles Hamilton Sorley, la cui poesia When You See Millions of the Mouthless Dead (del 1915) è solenne ma non «contro la guerra». Anche Guillaume Apollinaire non era contro la guerra in senso assoluto: non dubitò mai che «il progresso materiale, artistico e morale ... doveva essere difeso vittoriosamente» contro la Germania.  33 Né lo era Giuseppe Ungaretti: benché di stile cripticamente moderno, poesie come Fiumi e Italia sono commoventi e patriottiche.  34

È anche opportuno ricordare che molte celebri poesie sulla guerra furono in realtà scritte da persone che non avevano preso parte ai combattimenti. Thomas Hardy aveva settantotto anni quando scrisse And There Was a Great Calm, con il suo finale e disperato «Perché?». Hugh Selwyn Mauberley (Life and Contacts) non è affatto una poesia di guerra ma una sua parodia, scritta da un uomo che non era mai stato in una trincea:

Morirono alcuni, pro patria,
non «dulce», non «et decor» ...
s’avviarono con occhi infossati all’inferno
credendo alle bugie dei vecchi, poi non credendo.

Una delle più impressionanti condanne della guerra offerte dalla poesia tedesca sono le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, il quale, tuttavia, benché fosse stato richiamato e avesse servito brevemente nel 1º reggimento fucilieri della riserva, non prese direttamente parte ai combattimenti.  35 Nella sua seconda edizione riveduta, The Penguin Book of First World War Poetry contiene scritti di Hardy, Rudyard Kipling, D.H. Lawrence, Ford Madox Ford, nonché, in omaggio alla sensibilità femminista, di nove poetesse. Ci sono anche parecchie poesie sostanzialmente entusiastiche sulla guerra, in particolare quelle di Rupert Brooke – di gran lunga il più popolare di tutti i poeti di guerra  36 –, Julian Grenfell, John McCrae e Edward Thomas, spesso considerato martire archetipico di una guerra insensata, la cui This Is No Case of Petty Right or Wrong è in effetti una difesa della guerra. In ogni caso, non si sottolineerà mai abbastanza che queste scelte non sono affatto rappresentative. La stragrande maggioranza dell’immenso numero di poesie scritte durante la guerra da combattenti e non combattenti è intrisa di versi patriottici.  37

Sorgono difficoltà anche a proposito della prosa antibellicista. Come ha osservato Hugh Cecil, sebbene Niente di nuovo sul fronte occidentale fosse e rimanga probabilmente il più letto di tutti i libri ispirati dalla prima guerra mondiale, non è certo un esempio rappresentativo dei circa quattrocento romanzi di guerra pubblicati in Gran Bretagna tra il 1918 e il 1939.  38 Durante il conflitto predominò il tono patriottico. The First Hundred Thousand, di Ian Hay, pubblicato nel 1915, è pieno di entusiasmo di inizio guerra. Tra i romanzi sciovinisti del tempo figurano The Red Planet e The Rough Road di William J. Locke (pubblicati rispettivamente nel 1916 e nel 1918), e The Curtain of Fire di Joseph Hocking (pubblicato nel 1916). Anche dopo la guerra il tono non era affatto disincantato. Lo stesso Disenchantment non ebbe un grande successo di vendite: nel 1927 in Gran Bretagna ne erano state vendute solo poco più di novemila copie.  39 Medal Without Bar, sebbene ammirato dagli ex soldati, che ne lodavano l’accuratezza, vendette centomila copie.  40 Senza dubbio, erano cifre di vendita ragguardevoli; ma ben più successo ottenne lo sdolcinato Tell England dell’ex cappellano dell’esercito Ernest Raymond, libro che ha una sola cosa in comune con Niente di nuovo sul fronte occidentale: il fatto che tutti i giovani amici che si arruolano nel 1914 vengono uccisi. Questo «grande romanzo della gloriosa gioventù» fu ristampato quattordici volte prima del 1922.  41 Benché il personaggio principale di Way of Revelation di Wilfred Ewart (pubblicato nel 1921) – un altro bestseller – debba vedersela con una fidanzata che soccombe alla decadenza sul fronte interno, le sue critiche alla guerra erano piuttosto attenuate.  42

Non tutte le memorie di guerra avevano un tono così disincantato. In realtà, nelle opere di Sassoon, Blunden e Graves c’è molto meno sentimento antibellicista di quanto talvolta si creda. Anzi, Graves rimase stupito quando il suo Addio a tutto questo fu recensito come se fosse un «violento trattato contro la guerra».  43 Graves in effetti spiega brillantemente come gli uomini «calcolassero» le loro probabilità di sopravvivenza:

Per annientare una vita correvamo, diciamo, un rischio di uno su cinque, in particolare se c’era un obiettivo più impegnativo che semplicemente ridurre le file del nemico, come, per esempio, stanare un ben noto cecchino ... Solo una volta mi trattenni dallo sparare a un tedesco che avevo scorto ... Probabilmente un rischio di uno su venti per portare in salvo un tedesco ferito sarebbe stato considerato giustificabile [nei Royal Welch] ... Quando eravamo esausti e volevamo spostarci rapidamente da un punto della trincea a un altro senza crollare, a volte prendevamo una scorciatoia sopra il bordo della trincea ... Se avevamo fretta, correvamo un rischio di uno su duecento; se eravamo stanchi morti, un rischio di uno su cinquanta.  44

Graves racconta anche come «lo spirito reggimentale continuasse a sopravvivere a ogni catastrofe»; mentre «al battaglione non importava molto dei successi o dei rovesci dei nostri alleati, proprio come non gliene importava nulla delle origini della guerra».  45 Come prova della cultura della violenza degli «altri ranghi» cita il caso di due uomini dei Royal Welch che furono sottoposti alla corte marziale e fucilati per avere ucciso uno dei loro sergenti; e osserva che «era sorprendente che ci fossero così pochi scontri fra i britannici e i francesi del posto, che ci detestavano quanto noi detestavamo loro».  46 Né omette il fatto che «gli ospedali per le malattie veneree fossero sempre affollati». Nulla di tutto questo vuole trasmettere indignazione; Graves si limita a spiegare, con un certo macabro umorismo. Undertones of War, di Edmund Blunden, ha la sua parte di orrori, ma trasmette anche il fascino che il soldato semplice provava per la morte (ne sono testimonianza le «occhiate» che gli uomini lanciavano alle tombe scoperchiate nei cimiteri bombardati), e la sua tipica tendenza all’understatement: «“Mai visto un bombardamento del genere”, disse. Era esattamente come se stesse parlando di una pausa da Willie Smith, o dell’arte per l’arte».  47 Quanto alle memorie solo leggermente romanzate di Sassoon, vi si racconta senza esitazioni come gli uomini «assaltassero le trincee con l’intenzione di ammazzare qualcuno» per vendicare l’uccisione di un amico;  48 e come si sentissero «eccitati alla prospettiva della battaglia ... come se balzare sul bordo della trincea fosse una specie di esperienza religiosa». Sassoon «non credeva alle folli denunce della guerra»; «nel 1917», ammette, «stavo appena cominciando a imparare che la vita per la maggior parte della popolazione è una triste lotta contro probabilità sfavorevoli e finisce con un funerale mediocre».  49 Riconosce anche l’istinto di morte: «L’istinto semisuicida che mi ossessionava ogni volta che pensavo di tornare sulla linea del fronte ... un’insidiosa brama di essere ucciso».  50

Anche Remarque (come Barbusse) riconosce il ruolo redentore del cameratismo al fronte: il defecare in comune, le battute sguaiate, l’ossessione del cibo che sfocia nello spassoso furto di un’oca, la capacità di dimenticare un camerata morto e di prendersi i suoi stivali.  51 In Peter Jackson, Cigar Merchant (pubblicato nel 1920), Gilbert Frankau critica la pessima gestione dell’esercito e persino la corruzione, ma solo perché impediscono un’efficace prosecuzione della guerra.  52 Autori meno noti, come Ronald Gurner, William Barnet Logan e Edward Thompson rifiutano in blocco il concetto di disillusione.  53 Inoltre, persino alcuni di coloro che si sentivano in qualche modo disillusi – uomini come Montague e Edmonds – lo erano più per la pace che per la guerra.  54 Lo storico militare Douglas Jerrold non era certo una voce isolata quando pubblicò nel 1930 il suo pamphlet The Lie about the War: A Note on Some Contemporary War Books, nel quale accusa sedici autori (compresi Remarque e Barbusse) «di negare la dignità della tragedia alla guerra nell’interesse della propaganda». Il suo collega Cyril Falls la pensava allo stesso modo: nel suo saggio The War Book: A Critical Guide (pubblicato nel 1930) sosteneva che fosse sbagliato insinuare che «gli uomini che morirono [in guerra] fossero sospinti al massacro come animali per morire come animali». Com’era prevedibile, i pochi ufficiali superiori che accettarono di leggere Remarque lo rifiutarono in blocco.  55 Anche molti soldati semplici condividevano il disprezzo di Sidney Rogerson per i libri che «ammucchiavano cadaveri su cadaveri, alimentando un frivolo terrore».  56 Come è stato spesso osservato, le memorie degli anni Venti e Trenta erano prevalentemente opere di persone che provenivano dalle scuole private e dall’università con poca esperienza delle avversità e ancor meno della guerra. La loro disillusione nasceva dalle illusioni di una gioventù privilegiata,  57 mentre ben poco dello sconforto di cui si lamentavano era un sentimento nuovo per gli «altri ranghi».  58 Un esempio illuminante dell’allegro modo di pensare del soldato britannico è offerto dalle memorie di George Coppard, che illustrano alla perfezione come gli uomini si sostenessero con una combinazione di fatalismo – «Se estraggono il tuo fottuto numero, non c’è niente da fare» –, di dipendenza dalla nicotina – «importante quanto le munizioni» – e di odio: «Il nemico era sempre un fottuto bastardo». Coppard ammette persino che non si sarebbe rifiutato di sparare a un uomo condannato da una corte marziale, se glielo avessero ordinato.  59

D’altra parte, è un grave errore pensare che le opere postbelliche sulla guerra avessero un tono uniforme. Le vicende del bravo soldato Švejk di Jaroslav Hašek, pubblicato nel 1921-1923, fu, tra i libri direttamente ispirati dallo sforzo bellico delle Potenze centrali, uno dei migliori e dei più divertenti.  60 All’estremo opposto troviamo invece i romanzi di guerra di Ernst Jünger. Per Jünger, come abbiamo visto, la guerra era un’esaltante prova della propria capacità di dominare la paura in nome dell’onore; sebbene riconosca le sofferenze e i terrori della trincea, ribadisce continuamente la soddisfazione che provava a essere un ufficiale delle truppe d’assalto.  61 «Il combattimento è una esperienza davvero eccezionale», scrisse in Der Kampf als inneres Erlebnis (La lotta come esperienza interiore, pubblicato nel 1922), «e devo ancora trovare qualcuno per cui il momento della vittoria non sia stato un momento di straordinaria esaltazione». In guerra, «l’autentico essere umano recupera in un’orgia sfrenata tutto ciò che ha sempre trascurato. Così le sue passioni, troppo a lungo compresse dalla società e dalle sue leggi, diventano di nuovo assolutamente predominanti e sacre e il motivo supremo». Quando definiva la guerra «una grande scuola» e «l’incudine su cui il mondo sarà forgiato in nuovi confini e nuove comunità», Jünger riecheggiava ciò che avevano scritto i darwinisti sociali prima della guerra: ben lungi dallo screditare il militarismo, per molti tedeschi la guerra ne aumentava il fascino. Numerose memorie di combattenti pubblicate negli anni della repubblica di Weimar esprimono analoghi sentimenti in una prosa meno altisonante: per esempio, Aus dem Kriege (Dalla guerra) di Rudolf Binding (1924), Soldat Suhren (Il soldato Suhren) di Georg von der Vring (1927), Sperrfeuer um Deutschland (Fuoco di sbarramento intorno alla Germanai) e Gruppe Bösemüller (Gruppo Bösemüller) di Werner Beumelburg (rispettivamente 1929 e 1930).  62 Le memorie dei soldati che, dopo l’armistizio, continuarono a combattere nei Freikorps irregolari esprimono, oltre alla loro ben nota misoginia, una sete di sangue priva di qualsiasi rimorso.  63 Anche in Italia l’avvento del fascismo nel 1922 assicurò, nonostante l’esperienza disastrosa della guerra, la glorificazione della trincea nella letteratura. Anzi, il fenomeno iniziò già prima del 1922, grazie a Gabriele d’Annunzio.  64 In Unione Sovietica, naturalmente, il regime bolscevico incoraggiò gli scrittori a svalutare gli eventi precedenti l’ottobre del 1917, in modo che apparissero come un semplice preludio alla rivoluzione. È significativo che nel libro preferito da Stalin, La guardia bianca di Michail Bulgakov, la storia inizi con la fuga dell’esercito tedesco dall’Ucraina e termini con l’arrivo dei bolscevichi per porre fine all’anarchia della guerra civile. Ma negli anni Venti non ci fu alcun tentativo di denunciare la violenza in quanto tale; al contrario, era lodata come strumento necessario nella lotta di classe.

Né si può dire che le opere teatrali ispirate dalla guerra fossero tutte uniformemente antimilitariste. Benché sia ambientata in un trinceramento nei pressi di Saint-Quentin alla vigilia della grande offensiva di primavera lanciata da Ludendorff, Journey’s End di Robert Cedric Sheriff (1928) non è un’opera pacifista. L’ufficiale superiore beve, un altro ha un esaurimento nervoso, e i loro due colleghi muoiono in un attacco senza speranze; ma l’atmosfera è quella riservata e chiusa delle scuole private.  65 Il commediografo britannico più critico nei confronti della guerra fu George Bernard Shaw; ma i suoi articoli e i suoi pamphlet non ottennero in pratica alcun seguito di pubblico e le oblique frecciate contro la guerra in Casa Cuorinfranto e nella prefazione a Torniamo a Matusalemme sono prive di efficacia in confronto all’opus magnum di Kraus.  66 Anche la musica sulla guerra sfida qualsiasi semplicistica categorizzazione. The Tigers, di Havergal Brain (iniziata nel 1916), può essere definita un’«opera satirica contro la guerra»; ma che dire del pomposo World Requiem di John Foulds (composto tra il 1918 e il 1921), eseguito per quattro anni consecutivi nel giorno dell’armistizio alla commemorazione sponsorizzata dalla British Legion? Come «messaggio di consolazione ai derelitti di tutti i paesi» non era certo un’opera antibellicista.  67 Neppure L’Histoire du Soldat di Igor Stravinskij può essere classificata in questo modo, né tantomeno l’opera con influenze jazzistiche Jonny spielt auf (Jonny attacca) di Ernst Krenek (eseguita per la prima volta nel 1927): l’uso di una sirena d’allarme aereo per sommergere il ritornello finale è tutt’al più un tocco umoristico.

I più famosi film ispirati dalla guerra furono ovviamente Niente di nuovo sul fronte occidentale e il suo corrispettivo tedesco, Westfront 1918. Dei cinque film di guerra usciti nel 1930, Niente di nuovo sul fronte occidentale è l’unico a essere ancora regolarmente proiettato nelle sale cinematografiche britanniche; chiunque l’abbia visto non dimenticherà mai la scena (che non appare nel libro, molto meno sentimentalistico) in cui il giovane protagonista è ucciso, ormai quasi alla fine della guerra, mentre si sporge sul parapetto della trincea per toccare una farfalla. Ancora più straziante è probabilmente l’immagine dei morti che risorgono dalle loro tombe in J’accuse di Abel Gance, la miglior pellicola francese contro la guerra insieme a La grande illusione di Jean Renoir. Ma non dobbiamo dimenticare che nello stesso anno in cui uscì Niente di nuovo sul fronte occidentale apparvero anche una versione cinematografica di Journey’s End e due schietti film d’avventura ambientati nel più romantico di tutti i teatri di guerra, il cielo. Gli anni Venti videro anche l’uscita di sei film di guerra britannici: The Battle of the Jutland, Armageddon (sulla guerra in Palestina), Zeebrugge, Ypres, Mons e Battles of the Coronel and the Falkland Islands. Un critico irritato li definì «zeppi di un sentimentalismo che fa venire i brividi», dato che presentavano la guerra «interamente dal punto di vista di un romantico libro d’avventura per ragazzi».  68 Ma non era proprio questo ciò che più piaceva al pubblico del periodo tra le due guerre?

E quale arte era la vera «arte di guerra»? Nei manuali di storia dell’arte di ispirazione più conservatrice si diceva di solito che gli orrori della guerra avevano in qualche modo accelerato l’evoluzione del modernismo a discapito delle convenzioni figurative romantiche; ma è un’asserzione discutibile. L’immaginario romantico superò la guerra sostanzialmente indenne: lo testimoniano Vision of St George over the Battlefield di John Hassall (1915), Forward the Guns! di Lucy Kemp (1917) o Edith Cavell di George Bellows (1918) e la sua straordinaria sequenza di tele raffiguranti le atrocità compiute in Belgio, che riecheggiano il Marsia scorticato di Tiziano.  69 Lo sviluppo più radicale del modernismo tra il 1914 e il 1918 – il dadaismo – era in gran parte opera di artisti come Hugo Ball e Richard Huelsenbeck che si erano trasferiti nella neutrale Svizzera.  70 Per coloro che combatterono, la guerra fornì soggetti geometrici a pittori (come Wyndham Lewis, Fernand Léger o Oscar Schlemmer) che erano già stati esponenti del vorticismo o del cubismo, soggetti esplosivi per quanti (come Otto Dix) erano già attratti dall’espressionismo, e soggetti grotteschi per chi (come George Grosz) era già pieno di misantropia. Senza dubbio, agli occhi dei moderni nessuno di questi artisti sembra avere glorificato la guerra. Ma furono ben pochi quelli che, come Paul Nash, pensavano che le loro opere dovessero avere una funzione didattica contro la guerra. Dei circa trenta disegni del tempo di guerra che Grosz pubblicò durante e dopo il conflitto in raccolte come le due Mappen (Mappe, 1917), Im Schatten (Nell’ombra, 1921), Die Räuber (I rapinatori, 1923) ed Ecce Homo (1923), solo pochissimi alludono esplicitamente alla guerra. Benché veterani invalidi siano rappresentati nelle vie frenetiche e fatiscenti di Berlino, quasi tutte le caricature sono di civili. Soltanto i due disegni del 1915, Schlachtfeld mit toten Soldaten (Campo di battaglia con soldati morti) e Gefangen (Prigionieri), e i nove disegni di Gott mit uns (Dio con noi, 1920) indicano come Grosz avesse avuto qualche esperienza personale dell’esercito. Si può dire sostanzialmente lo stesso per i suoi quadri: persino Explosion (Esplosione, 1917), che potrebbe essere interpretato come un immaginario raid aereo su Berlino, si ispirava direttamente a Die brennende Stadt (La città in fiamme) di Ludwig Meidner, dipinto nel 1913. Solo nel 1928, con Hintergrund (Retroscena) Grosz produsse una serie di disegni esplicitamente contro la guerra.  71

Inoltre, un certo numero di artisti moderni apprezzò l’estetica della guerra totale. Avendo elogiato la guerra già prima del 1914, il futurista Filippo Marinetti non poteva fare molto di più dopo il suo scoppio. Ma non furono solo i futuristi a considerare la guerra sotto una luce positiva. Lewis, Léger e Dix ebbero un atteggiamento piuttosto ambivalente nei confronti degli orrori cui avevano assistito. Lewis, che aveva sollecitato i suoi amici della corrente vorticista a «non perdersi una guerra, se ce n’è una in atto», in seguito parlò, con marcata ambiguità, di

quegli scheletri sogghignanti in grigio militare, il cranio ancora protetto dall’elmetto di metallo; questi festoni di filo spinato intrisi di fango, quelle catene montuose in miniatura di terra color zafferano e gli alberi simili a forche – queste erano le esclusive proprietà di quelle tempre titaniche di attori morenti e sconvolti dalle granate, che riempivano questo palcoscenico di una elettricità romantica.  72

Léger era rimasto «sbalordito dalla vista della culatta aperta di un cannone da 75 in piena luce del sole, mosso dal gioco della luce sul bianco metallo».  73 La guerra, scrisse, gli aveva offerto l’improvvisa rivelazione della «profondità del momento presente»:

La vista di squadroni sciamanti. Il soldato semplice pieno di risorse. Poi ancora e ancora armate fresche di operai. Montagne di immacolate materie prime, di merci ... motori americani, pugnali malesi, marmellata inglese, truppe di ogni paese, prodotti chimici tedeschi ... tutto con il marchio di una strabiliante unità.  74

Il suo Partita a carte (uscito nel 1917) era, come osservò un critico, «allo stesso tempo un grido di rabbia contro la guerra che imponeva agli uomini la spaventosa uniformità meccanica dei robot e un inno alla forza dell’uomo, che aveva creato queste macchine, il cui stesso ritmo esalta il suo potere di controllo».  75 Se, come ha sostenuto Willett, Franz Jung è l’autore del manifesto dadaista di Berlino, dell’aprile 1918, appare giustificato collegarne il bellicoso linguaggio alla sua diretta esperienza di soldato alla battaglia di Tannenberg:

L’arte più eccelsa sarà quella ... nella quale si nota la prostrazione causata dalle esplosioni della settimana scorsa; quella, infine, che raduna ogni volta le sue membra, disperse dai colpi delle ultime giornate. Gli artisti migliori ... saranno quelli che, ora per ora, ricompongono i brandelli del loro corpo, strappandoli al vortice della cateratta della vita, ostinandosi a capire il loro tempo, sanguinanti le mani e il cuore.  76

Anche gli artisti russi produssero più arte a favore che contro la guerra. Veterani invalidi di Yuri Pimenov (1926) deve molto ad artisti tedeschi come Grosz e Dix; ma Morte di un commissario del popolo di Kurza Petrov-Vodkin, terminato nello stesso anno, illustra ancora una volta come i bolscevichi avessero la necessità di distinguere tra la nefasta guerra imperialista e l’eroica guerra civile.  77

L’esempio controfattuale probabilmente più impressionante è quello di Otto Dix. Dix, che combatté sia sul fronte occidentale che su quello orientale, considerava la guerra «un fatto naturale» e fece inorridire il suo amico Conrad Felixmüller descrivendogli il piacere di «infilzare la baionetta nelle viscere di qualcuno e ruotarla per bene». Spesso fraintesi come denunce della guerra – forse perché l’agente di Dix cercava di sfruttare l’ondata pacifista che investì la Germania degli anni Venti – grotteschi quadri come Der Schützengraben (La trincea, 1923, poi andato perduto) e il trittico Der Krieg (La guerra, 1929-1932) o le cinque acqueforti di guerra (1924) erano semmai legati al desiderio dell’artista e giovane volontario di «sperimentare personalmente tutte le profondità spaventose e insondabili della vita». Come spiegò in seguito: «Dovevo sperimentare come qualcuno accanto a me potesse improvvisamente crollare a terra morto, colpito in pieno da una pallottola. Dovevo sperimentarlo direttamente. Lo volevo con tutte le mie forze». «La guerra era una cosa orribile», ricordava, «ma c’era anche qualcosa di straordinario.»  78 Appassionato lettore di Nietzsche prima e durante la guerra, Dix, più di qualsiasi altro artista, è stato ispirato dall’estetica della morte e distruzione di massa. Come scrisse egli stesso in una cartolina di schizzi che inviò alla sua amica Helen Jacob: «Tra le rovine di Aubérive – i crateri delle granate nei villaggi sono pieni di energia primordiale ... È una bellezza rara e singolare che ci parla».  79 Anche un altro soldato artista tedesco, certamente meno raffinato di Dix, dipinse e disegnò villaggi bombardati dall’artiglieria: l’atmosfera di queste opere poco note di Adolf Hitler, caporale del 16º reggimento bavarese di fanteria della riserva, è indubbiamente soffusa di serenità.  80

Questa ambiguità è caratteristica anche di una certa arte britannica più tarda ispirata dalla guerra: del suo Resurrection of the Soldiers, nella cappella di Burghclere – per alcuni versi stilisticamente simile alle opere postbelliche di Dix – Stanley Spencer diceva di avere voluto comunicare «un sentimento di gioia e attesa speranzosa».  81 Anche quando, durante la guerra, gli fu ordinato di dipingere i cartelli che distinguevano le latrine dei sergenti da quelle dei gradi inferiori, cercò di elevarne lo stile decorando la S di sergente con una ghirlanda di rose.  82 Resurrection of the Soldiers non è certo un’opera gioiosa; ma la sua riformulazione della guerra in una iconografia cristiana intende consolare, non scatenare la rabbia: sotto questo aspetto, Spencer assomigliava a Georges Rouault, il cui ciclo di cinquantotto acqueforti intitolato Miserere è probabilmente il tentativo supremo di rendere la guerra intellegibile in termini religiosi.  83

E se...

Nel 1932, mentre le riparazioni e i debiti di guerra erano congelati e il mondo era stretto nella morsa della Depressione, John Collings Squire pubblicò una divertente raccolta (oggi tuttavia dimenticata) di quelli che lui stesso definiva «tuffi nella storia immaginaria». Tre dei suoi undici collaboratori scelsero di riscrivere la storia in modo da «evitare» la prima guerra mondiale. André Maurois lo fece immaginando di eliminare la Rivoluzione francese. Come spiega il suo onnisciente «Arcangelo», il mondo immaginario dopo un altro secolo e mezzo di dominio borbonico in Francia «si trova diviso in modo piuttosto diverso. Gli Stati Uniti non si sono separati dall’Inghilterra, ma sono diventati talmente vasti che ora dominano l’Impero britannico ... Il parlamento imperiale ha sede a Kansas City ... la capitale degli ... Stati Uniti d’Europa ... è a Vienna». Non c’è stata la «guerra del 1914-1918».  84 Winston Churchill si divertiva con analoghe fantasie, ipotizzando una vittoria dei confederati a Gettysburg e il successivo emergere, nel 1905, di una «Società dei Popoli Anglofoni» formata dalla Gran Bretagna, dalla Confederazione e dagli Stati Uniti del Nord:

Una volta che il pericolo del 1914 fu fortunatamente allontanato e il disarmo dell’Europa si fu armonizzato con l’analogo processo già in corso presso i paesi della Società dei Popoli Anglofoni, l’idea degli «Stati Uniti d’Europa» cominciò ad affacciarsi sempre più spesso. Il fulgido spettacolo della grande federazione dei popoli anglofoni, la sua provata sicurezza, la sua sconfinata potenza, la rapidità con la quale la ricchezza veniva prodotta e ampiamente distribuita all’interno dei suoi confini, il senso di esuberanza e di ottimismo che sembrava pervadere le popolazioni intere, tutto questo insomma faceva risaltare agli occhi degli europei un insegnamento che solo le persone più ottuse potevano ignorare. È ancora materia di supposizione se l’imperatore Guglielmo II avrà successo nel portare avanti di un altro importante stadio il progetto di unione europea nel corso della Conferenza paneuropea di Berlino che si prepara per il 1932 ... Se questo premio dovesse toccare a Sua Maestà Imperiale, egli forse potrebbe riflettere sulla facilità con la quale la sua sorte poteva essere sconvolta nel 1914 dallo scoppio di una guerra che gli sarebbe forse costata il trono e che avrebbe gettato il suo paese nella polvere.  85

In una vena leggermente più realistica, Emil Ludwig propose che, se l’imperatore tedesco Federico III non fosse morto di cancro nel 1888 (dopo solo novantanove giorni di regno), lo sviluppo politico della Germania avrebbe potuto seguire un corso più liberale: in questo mondo alternativo, un ben più longevo Federico presenta al parlamento una nuova Costituzione e conclude un’alleanza anglo-tedesca, morendo soddisfatto all’età di ottantatré anni il 1º agosto 1914.  86 Soltanto Hilaire Belloc immaginò un esito controfattuale peggiore della realtà storica. Come Maurois, Belloc elimina la Rivoluzione francese; ma questa volta il declino della Francia si accelera, permettendo al Sacro romano impero di ampliarsi in una federazione europea «che si estendeva dal Baltico alla Sicilia e da Königsberg a Ostenda». Così, quando nel 1914 scoppia la guerra con questa Grande Germania, è la Gran Bretagna a perdere e a fare la fine di una «provincia del Commonwealth europeo».  87

A parte il comune interesse per quell’idea di unificazione europea che, come abbiamo visto, era già stata un obiettivo tedesco nel 1914, la cosa che più colpisce di tutti questi saggi è la distanza temporale a cui i loro autori ritengono di doversi spingere per trovare un punto di svolta in cui la storia europea avrebbe credibilmente potuto prendere un’altra direzione. Tuttavia, a quasi un secolo dall’armistizio del 1918 sembrano più plausibili scenari controfattuali meno remoti. Che cosa sarebbe successo se la Germania avesse perseguito una strategia difensiva meno rischiosa, spendendo di più per la difesa in tempo di pace anziché puntare tutto sul Piano Schlieffen? Che cosa sarebbe successo se la Gran Bretagna fosse rimasta fuori dal conflitto nel 1914?

Se la prima guerra mondiale non fosse mai stata combattuta, la conseguenza peggiore sarebbe stata una specie di «prima guerra fredda», nella quale le cinque grandi potenze avrebbero continuato a mantenere grandi apparati militari, ma senza ostacolare la loro sostenuta crescita economica. Alternativamente, se fosse scoppiata la guerra, ma senza la partecipazione di Gran Bretagna e Stati Uniti, i tedeschi vittoriosi avrebbero potuto creare una propria versione di Unione europea, otto decenni prima di quanto è accaduto nella realtà.

Se la Forza di spedizione britannica non fosse stata mai inviata sul continente, non c’è dubbio che la Germania avrebbe vinto la guerra. Anche se fossero stati fermati sulla Marna, i tedeschi sarebbero quasi certamente riusciti a sconfiggere l’esercito francese in assenza di sostanziosi rinforzi britannici. E anche se la BEF fosse comunque sbarcata sul continente, ma soltanto una settimana dopo o in un’altra località in conseguenza di una crisi politica a Londra, Moltke avrebbe ancora potuto rinnovare i trionfi del suo predecessore. Come minimo, sarebbe stato meno disposto a ritirarsi sull’Aisne. E poi? Indubbiamente, sarebbero proseguite le discussioni su un intervento britannico per bloccare le ambizioni tedesche, specialmente con Bonar Law come primo ministro. Ma sarebbe stato concepibile soltanto un intervento di tipo molto diverso. A causa della sconfitta francese, la BEF non sarebbe più servita a nulla; se fosse stata mandata sul continente, la conseguenza sarebbe stata un’evacuazione simile a quella di Dunkerque. Il vecchio piano dei navalisti per una serie di sbarchi sulle coste tedesche sarebbe stato cestinato, come effettivamente avvenne anche in realtà. È possibile che una qualche versione dell’invasione dei Dardanelli sarebbe ancora emersa come più utile e credibile utilizzo dell’esercito (specialmente se Churchill fosse rimasto all’Ammiragliato, come quasi sicuramente sarebbe accaduto). Oltre a queste imprese rischiose – che, naturalmente, avrebbero potuto avere maggiore successo se fosse stata disponibile l’intera forza di spedizione – il massimo che la Gran Bretagna avrebbe potuto fare sarebbe stato usare la propria potenza navale per condurre contro la Germania il tipo di guerra marittima che Fisher aveva sempre invocato: rastrellare le navi mercantili tedesche, ostacolare il commercio dei paesi neutrali con il nemico e confiscare i beni tedeschi d’oltremare.

Questa duplice strategia sarebbe stata certamente un fastidio per Berlino. Ma non avrebbe permesso di vincere la guerra. È infatti accertato che il blocco non costrinse la Germania alla resa per fame, come avevano sperato i suoi sostenitori. E nemmeno una vittoria sulla Turchia avrebbe significativamente indebolito la posizione di una Germania che avesse vinto in Occidente, anche se avrebbe senza dubbio favorito i russi, realizzando le loro storiche ambizioni su Costantinopoli. Senza la guerra di logoramento sul fronte occidentale, la manodopera della Gran Bretagna, la sua economia e le sue risorse finanziare enormemente superiori non avrebbero pesato sulla Germania fino al punto di assicurare la vittoria britannica. Un esito molto più probabile sarebbe stato un compromesso diplomatico (tipo quello effettivamente proposto da Lord Lansdowne), in virtù del quale la Gran Bretagna avrebbe cessato le ostilità in cambio di garanzie tedesche sulla neutralità e l’integrità del Belgio. Questo, dopotutto, era sempre stato l’obiettivo di Bethmann Hollweg. Con la Francia sconfitta e l’offerta tedesca di ripristinare lo status quo ante in Belgio ancora valida, è difficile pensare come un governo britannico avrebbe potuto giustificare la continuazione di una guerra sui mari e probabilmente anche in Medio Oriente di durata imprevedibile. Per che cosa? È possibile immaginare i liberali amareggiati chiedere, come in effetti fecero, una guerra contro la «casta militare» della Germania, anche se questa ipotesi non aveva molta presa su Haig e sarebbe stata difficile da sostenere se, come sembra probabile, Bethmann Hollweg avesse insistito in quella politica di collaborazione con i socialdemocratici che era iniziata con la legge sulle imposte del 1913 ed era giunta a maturazione con il voto per i crediti di guerra.  88 Forse una guerra per mantenere il controllo russo sulla Polonia? Per consegnare Constantinopoli allo zar? Anche se talvolta Grey sembrava pronto a combattere una simile guerra, sarebbe stato sicuramente esautorato da chi, come Sir William Robertson, poteva ancora sostenere, nell’agosto del 1916, la necessità di preservare «una forte potenza centroeuropea ... teutonica» come baluardo contro la Russia.  89 Sarebbe stato difficile rifiutare la proposta tedesca di un’unione doganale centroeuropea.

Perciò, se la Gran Bretagna si fosse tenuta in disparte – anche soltanto per qualche settimana – l’Europa continentale sarebbe stata trasformata in qualcosa di non molto diverso dall’Unione europea che conosciamo oggi – ma senza quella massiccia contrazione della potenza britannica d’oltremare determinata dalla partecipazione a due guerre mondiali. Forse si sarebbe potuto evitare anche il completo collasso della Russia e il suo sprofondamento negli orrori della guerra civile e del bolscevismo. Anche se sarebbero ancora rimasti giganteschi problemi di malcontento rurale e urbano, un’autentica monarchia costituzionale (in seguito alla probabile abdicazione di Nicola II) o una repubblica parlamentare avrebbe avuto molte più possibilità di successo dopo una guerra più breve. E sicuramente non ci sarebbe stata quella grande intromissione del potere finanziario e militare americano negli affari europei che segnò materialmente la fine del predominio finanziario britannico nel mondo. Senza dubbio, nell’Europa degli anni Venti ci sarebbe stato il fascismo; ma i nazionalisti radicali sarebbero apparsi più persuasivi in Francia che in Germania. Questo sarebbe stato tutt’altro che una sorpresa: la destra francese era stata di gran lunga più chiassosamente antisemita della Germania prima del 1914, come dimostra l’affaire Dreyfus. E forse, senza le tensioni economiche di una guerra mondiale, le inflazioni e le deflazioni dei primi anni Venti e Trenta non sarebbero state così gravi.

Con il trionfo del Kaiser, Adolf Hitler avrebbe potuto continuare la sua vita di mediocre pittore di cartoline e di ex soldato soddisfatto in un’Europa centrale dominata dalla Germania, sulla quale avrebbe trovato poco da ridire. E Lenin avrebbe potuto continuare a scribacchiare biliosamente a Zurigo, in perenne attesa del crollo del capitalismo e in uno stato di perenne delusione. Dopotutto, era stato l’esercito tedesco a offrire a Hitler non soltanto la sua adorata «esperienza del fronte» ma anche il suo ingresso nel mondo della politica e dei comizi pubblici subito dopo il conflitto. Ed era stato ancora l’esercito tedesco a far tornare nel 1917 Lenin a Pietrogrado per sabotare lo sforzo bellico russo. E, in definitiva, era stato a causa della guerra che entrambi erano riusciti a creare dispotismi barbarici che si macchiarono di omicidi di massa ancora più spaventosi. Entrambi considerarono la guerra la prova definitiva delle loro teorie, contrastanti ma complementari: ossia che gli ebrei erano intenti a distruggere la razza ariana e che il capitalismo era destinato all’autodistruzione.

In ultima analisi, lo storico deve domandarsi se l’accettazione di una vittoria tedesca sul continente sarebbe stata così dannosa per gli interessi britannici come Grey e altri germanofobi asserivano all’epoca, e come la maggioranza degli storici ha successivamente dato per scontato. La risposta suggerita qui è che non sarebbe stata così dannosa. La domanda di Eyre Crowe era sempre stata questa: «Se scoppiasse la guerra e la Gran Bretagna non vi prendesse parte ... e la Germania e l’Austria vincessero, schiacciando la Francia e umiliando la Russia, quale sarebbe allora la posizione di un’Inghilterra senza amici?».  90 La risposta dello storico è: migliore di quella in cui si ritrovò una spossata Inghilterra nel 1919.

Immanuel Geiss ha scritto:

Non c’era nulla di sbagliato nella conclusione che la Germania e l’Europa continentale a ovest della Russia sarebbero riuscite a cavarsela da sole ... se l’Europa si fosse compattata. E un’Europa unita sarebbe caduta quasi automaticamente sotto la leadership della potenza più forte, vale a dire la Germania ... [Ma] per sfidare gli incombenti e giganteschi blocchi di potere economici e politici la leadership della Germania su un’Europa unita avrebbe dovuto superare la probabile riluttanza [sic] degli europei a essere dominati da qualcuno pari a loro. La Germania avrebbe dovuto persuadere l’Europa ad accettare la propria leadership ... chiarendo inequivocabilmente che gli interessi complessivi dell’Europa avrebbero coinciso con l’illuminato interesse della Germania ... al fine di ottenere negli anni dopo il 1900 qualcosa di simile alla posizione che ha oggi la Repubblica federale.  91

Sebbene queste ipotesi riflettano forse inconsciamente la tracotanza dell’èra successiva alla riunificazione, in un certo senso Geiss aveva assolutamente ragione: sarebbe stato infinitamente meglio se la Germania fosse riuscita a raggiungere la sua posizione egemonica sul continente senza due guerre mondiali. Non fu solo colpa della Germania se questo non accadde. Fu la Germania a imporre la guerra continentale del 1914 a una Francia che non la voleva (e a una Russia non altrettanto recalcitrante). Ma, in definitiva, fu il governo britannico a trasformare la guerra continentale in una guerra mondiale: un conflitto che durò il doppio e che costò molte più vite di quelle che avrebbe comportato il primo tentativo tedesco di creare una «Unione europea», se solo fosse andato secondo i piani. Combattendo la Germania nel 1914, Asquith, Grey e i loro colleghi contribuirono a fare sì che, quando finalmente la Germania riuscì a ottenere il predominio sul continente, la Gran Bretagna non avesse forze sufficienti per opporvisi.

Ho voluto aprire questo libro con i versi di Wilfred Owen («la pietà della guerra / la pietà che la guerra ha distillato») e con un’eco della parlata dimessa del soldato semplice nelle trincee, perché la prima guerra mondiale fu al contempo soffusa di un senso di «pietà»,* nel significato attribuitogli dal poeta, e «una disgrazia, un peccato». Fu qualcosa di peggiore di una tragedia, che, come ci è stato insegnato dal teatro, è per sua stessa natura inevitabile. Insomma, fu il più grave errore della storia moderna.

* Il termine usato nella poesia di Owen è pity, che nella lingua inglese ha due accezioni: «pietà» e «dispiacere, rammarico». [N.d.T.]

Il grido dei morti: La prima guerra mondiale: il più atroce conflitto di ogni tempo
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