XIII

Il dilemma del catturatore

La razionalità della resa

C’era tuttavia un’altra ragione per cui gli uomini continuavano a combattere, ossia che non riuscivano a trovare un modo di agire più attraente. Come disse Norman Gladden alla vigilia della terza battaglia di Ypres: «Se solo avessi avuto qualche alternativa ... ma sapevo di non avere scelta». Ma era vero? Questo ci porta al punto cruciale: una possibilità di scelta, naturalmente, c’era. Nel capitolo precedente abbiamo esaminato soltanto le opzioni più difficili: diserzione all’interno delle proprie linee, cosa niente affatto facile sul fronte occidentale (soprattutto per i soldati che non conoscevano le lingue, come Eric Partridge, che «non aveva nemmeno il coraggio di disertare»),  1 oppure l’ammutinamento, la forma più ardua di resistenza alle autorità militari. Si potrebbe aggiungere anche l’espediente di spararsi a un piede e, naturalmente, il suicidio: entrambi estremamente difficili da scegliere in quanto un dolore immediato, certo e autoinflitto raramente sembrava preferibile a un dolore futuro e forse evitabile inflitto da altri. Per questo motivo il numero di ferite autoinflitte (SIW, self-inflicted wounds) e di suicidi non fu mai molto alto.

Ma c’era un’altra opzione: arrendersi.

La resa fu la chiave dell’esito della prima guerra mondiale. Malgrado gli enormi elenchi di morti, si dimostrò impossibile raggiungere l’ideale della dottrina tedesca prebellica, cioè «l’annientamento del nemico». Come indicava l’andamento demografico, ogni anno c’era un numero di nuovi coscritti grossomodo sufficiente a colmare i vuoti creati dalla guerra di logoramento. Per questo motivo il «conteggio netto dei corpi» a favore delle Potenze centrali non bastava a garantire la loro vittoria. Tuttavia, risultò invece possibile costringere il nemico ad arrendersi in massa, tanto da indebolire fatalmente la sua capacità di combattere.

All’epoca la gente sapeva che grandi quantità di nemici catturati erano comunque un buon segno. Il 10 per cento circa del film britannico The Battle of the Somme è dedicato a riprese di prigionieri di guerra tedeschi. Fatto interessante, c’è una sequenza, alla fine della terza parte, in cui un soldato britannico minaccia un prigioniero tedesco, per quanto in altri momenti si vedano «prigionieri tedeschi feriti ed esausti» ai quali viene offerto da bere e da fumare.  2 I fotografi ufficiali erano esortati a riprendere queste scene. Anche i tedeschi produssero cartoline postali e cinegiornali in cui si mostravano prigionieri di guerra nemici che venivano fatti marciare lungo le strade delle città tedesche.  3 Il significato della resa non fu mai così evidente come sul fronte orientale nel 1917; infatti, la causa fondamentale della sconfitta militare russa stava proprio nell’enorme numero di uomini che si arresero in quell’anno. Nel complesso, oltre la metà delle perdite russe era rappresentata da uomini che erano stati presi prigionieri. Anche l’Austria e l’Italia persero un’elevata percentuale di uomini in questo modo: rispettivamente il 32 e il 26 per cento. Comunque, per quasi tutto il corso della guerra il tasso degli uomini che si arrendevano negli eserciti britannico, francese e tedesco fu nettamente più basso. Appena il 12 per cento delle perdite francesi era costituito da prigionieri, il 9 per cento nel caso dei tedeschi e il 7 per cento in quello dei britannici.

Solo alla fine della guerra, come mostra la figura 17, i soldati tedeschi iniziarono ad arrendersi in massa, a partire dall’agosto del 1918. Secondo una stima, 340.000 tedeschi si arresero fra il 18 luglio e l’armistizio.  4 Fra il 30 luglio e il 21 ottobre – meno di tre mesi – i britannici catturarono 157.047 tedeschi. In tutto il resto della guerra ne avevano catturati non molti di più: 190.797. Nell’ultima settimana se ne arresero 10.310.  5 Questo era veramente il segnale che la guerra stava per finire. Le cifre degli uomini uccisi raccontano invece una storia completamente diversa. Negli ultimi tre mesi del conflitto vennero uccisi 4225 ufficiali britannici e 59.311 uomini di truppa, in confronto rispettivamente a 1540 e 26.688 nello schieramento tedesco (nel settore britannico del fronte).  6 In altre parole, in termini di uccisioni chi stava perdendo la guerra continuava a essere due volte più efficace di chi la stava vincendo. Ma in termini di cattura di prigionieri non c’era il minimo dubbio che i tedeschi stessero perdendo. Per spiegarlo non basta affermare semplicemente che i tedeschi fossero «stanchi della guerra», «demoralizzati» o anche soltanto infreddoliti e affamati. È necessario esaminare anche il loro atteggiamento nei confronti del nemico al quale si arrendevano e il modo in cui il nemico reagiva alla resa.

C’era una buona ragione per questa generale riluttanza ad arrendersi da parte dei soldati in Occidente, e non si trattava semplicemente di una superiore disciplina o di un morale più alto. La resa sul fronte occidentale era pericolosa; anzi, per quasi tutto il corso della guerra la maggior parte dei soldati riteneva che i rischi cui si esponeva un uomo arrendendosi fossero maggiori di quelli che correva continuando a combattere.

Perché era rischioso arrendersi? La risposta è che in molte occasioni uomini di entrambi gli schieramenti furono uccisi non solo mentre cercavano di arrendersi ma anche dopo che si erano arresi. Sono queste, si potrebbe dire, le «atrocità» dimenticate della prima guerra mondiale; ma sono indubbiamente le più importanti. Per tutto il tempo in cui si verificarono – e si verificarono abbastanza spesso perché gli uomini di entrambi gli schieramenti ne fossero consapevoli – costituirono un concreto disincentivo alla resa. Questo fu uno dei principali motivi per cui gli uomini continuarono a combattere anche quando si trovavano in posizioni pericolose, se non addirittura disperate. Se nel 1917-1918 fosse stato più sicuro arrendersi, si potrebbe supporre che molti lo avrebbero fatto per sfuggire alle terribili battaglie di quegli anni: evidentemente non lo era, e ciò contribuì a prolungare la guerra. Non appena i tedeschi non ebbero più paura di arrendersi agli eserciti alleati, la guerra terminò. Se nella primavera del 1918 i francesi o i britannici si fossero arresi in numero paragonabile a quello dei tedeschi, a Ludendorff sarebbero stati perdonati tutti i suoi errori strategici.

Figura 17 – Prigionieri tedeschi catturati dall’esercito britannico in Francia, luglio 1917 - dicembre 1918.

Fonte: War Office, Statistics of the Military Effort, p. 632.

Tabella 42 – Prigionieri di guerra, 1914-1918.

Paese di origine dei prigionieri

Minimo

Massimo

Prigionieri in percentuale del totale delle perdite

Francia

   446.300

   500.000

11,6

Belgio

     10.203

     30.000

11,0

Italia

   530.000

   600.000

25,8

Portogallo

     12.318

     12.318

37,2

Gran Bretagna

   170.389

   170.389

   6,7

Impero britannico

     21.263

     21.263

   3,3

Romania

     80.000

     80.000

17,8

Serbia

     70.423

   150.000

14,6

Grecia

         1000

         1000

   2,1

Russia

2.500.000

3.500.000

51,8

Stati Uniti

         4480

         4480

   1,4

Totale Alleati

3.846.376

5.069.450

28,0

Bulgaria

     10.623

     10.623

   4,2

Germania

   617.922

1.200.000

   9,0

Austria-Ungheria

2.200.000

2.200.000

31,8

Turchia

   250.000

   250.000

17,2

Totale Potenze centrali

3.078.545

3.660.623

19,9

Totale prigionieri

6.924.921

8.730.073

24,2

Conteggio netto dei prigionieri

   767.831

1.408.827

 

Differenza in percentuale

            25

            38

 

Nota: La cifra dei prigionieri greci comprende i dispersi, perciò il numero dei prigionieri è inferiore. Le cifre dei prigionieri rumeni sono molto approssimative.
Fonti: War Office, Statistics of the Military Effort, pp. 237, 352-357; Terraine, Smoke and the Fire, p. 44.

Per chiarire meglio il problema della resa – un problema costante della guerra – può essere utile immaginare un gioco teorico: invece del «dilemma del prigioniero» (cfr. supra, cap. XII, nota 33), il «dilemma del catturatore». Il quale è molto semplice: accettare la resa del nemico o ucciderlo. Il catturatore ha combattuto contro un avversario che ha cercato di ucciderlo, e improvvisamente l’avversario si comporta come se volesse arrendersi. Se è sincero, la cosa giusta da fare è accettare la sua resa e mandarlo dietro le linee in un campo di prigionia. Questo è il modo di comportarsi più razionale, per quattro ragioni. Un prigioniero può essere usato come:

a. fonte di informazioni;

b. fonte di lavoro;

c. ostaggio;

d. esempio per i suoi camerati (trattandolo bene è possibile indurli ad arrendersi).

Di questi punti, il primo e il secondo furono considerati particolarmente importanti durante la prima guerra mondiale. I tedeschi catturati furono interrogati per ottenere informazioni e Haig diede molto peso agli esiti di questi interrogatori.  7 Perdipiù, i prigionieri si dimostrarono un’utile fonte di lavoro a basso costo proprio in un momento in cui la manodopera scarseggiava. Anche se all’inizio Haig si oppose all’idea di tenere i prigionieri tedeschi in Francia proprio a questo scopo, il gabinetto decise diversamente. Nel novembre del 1918 i prigionieri tedeschi rappresentavano il 44 per cento delle unità di lavoro della BEF. Tecnicamente, in virtù della convenzione dell’Aia, non si poteva affidare loro incarichi connessi con le operazioni militari, ma era sostanzialmente impossibile attenersi a tale distinzione e l’espressione lavori di preparazione finì per essere interpretata in modo alquanto flessibile (i francesi usarono i prigionieri addirittura per scavare trincee).  8 In effetti, l’utilizzo dei prigionieri di guerra in aree distanti non più di trenta chilometri dalla linea del fronte suscitò nel gennaio del 1917 le proteste del governo tedesco, accompagnate da rappresaglie in cui i prigionieri britannici furono spostati in prossimità delle linee tedesche in Francia e in Polonia.  9 I prigionieri furono usati anche come ostaggi: i tedeschi li rinchiusero nei campi di Karlsruhe, Friburgo e Stoccarda perché facessero da «parafulmini» nella speranza di dissuadere gli Alleati dal bombardare queste città.  10 Si prestò invece meno attenzione al quarto punto, cioè si fece ben poco per diffondere il trattamento ragionevolmente buono dei prigionieri.

Quali sono gli argomenti a favore dell’altro aspetto del dilemma del catturatore, ossia quello di non fare prigionieri? Innanzitutto, chi si arrende potrebbe bleffare. Più e più volte, nel corso della Grande guerra, i comandanti avvertirono i propri uomini di stare attenti a questi trucchi: un uomo sembra voler arrendersi, gli attaccanti allentano quindi il proprio impegno e la vigilanza, e in quello stesso momento forze nemiche nascoste aprono il fuoco. Tipico fu il caso di alcune truppe britanniche sull’Aisne nel settembre del 1914, sterminate dopo avere accettato un atto di resa fasullo.  11 Allo stesso modo, il tenente Louis Dornan, dei Dublin Fusiliers, fu ucciso sulla Somme quando alcuni tedeschi che si erano apparentemente arresi «gli spararono al cuore».  12 In altre occasioni non si trattava di un trucco: mentre alcuni soldati intendevano veramente arrendersi, altri volevano continuare a combattere. A Bullecourt, nel 1917, un ufficiale australiano di nome Bowman ordinò ai suoi uomini di arrendersi e poi si arrese egli stesso. «Due tedeschi lo stavano scortando nelle retrovie quando i nostri compagni spararono a entrambe le guardie. Minacciarono anche di sparare al tenente Bowman.»  13 Poteva anche succedere esattamente il contrario, come nel caso del tenente colonnello Graham Seton Hutchison, il quale fucilò trentotto suoi uomini che avevano cercato di arrendersi e poi riprese a combattere contro i tedeschi.  14

In altre parole, accettare la resa comporta dei rischi.  15 Può risultare anche piuttosto difficile scortare un prigioniero dietro le linee – nella prima guerra mondiale l’esercito aveva stabilito che per ogni dieci prigionieri fossero necessari da uno a due uomini di scorta   16 – e i soldati incaricati di fare da scorta devono essere sottratti alle forze d’attacco. Il problema è ulteriormente complicato se l’uomo che si arrende è ferito o incapace di camminare da solo. La soluzione più semplice è sparargli e non pensarci più; se continua a combattere probabilmente andrà incontro allo stesso destino e potrà infliggere perdite all’attaccante. Ma anche se sparare ai prigionieri risolveva un problema immediato, era una cosa illegale in base al diritto militare e internazionale: per essere precisi, secondo la convenzione dell’Aia, la Disposizione 23(c), che dichiarava proibito uccidere o ferire un prigioniero che si fosse arreso deponendo le armi, e la Disposizione 23(d), che imponeva di dar quartiere.  17 Inoltre, uccidere prigionieri aveva conseguenze negative nella pratica, perché incoraggiava la resistenza di altre truppe nemiche che altrimenti avrebbero potuto scegliere di arrendersi. Ecco quindi il dilemma del catturatore: accettare la resa, con tutti i rischi personali che comportava, oppure sparare a chi si arrendeva, con la probabile conseguenza di rafforzare in altri la decisione di non arrendersi e aumentando così i propri rischi.

Accuse e controaccuse

In realtà furono i tedeschi a dare inizio alla pratica illegale e in definitiva irrazionale di non fare prigionieri. Così, il soldato Fahlenstein, del 34º fucilieri, annotò nel suo diario che il 24 agosto 1914 venne dato l’ordine di uccidere i prigionieri francesi. Circa nello stesso periodo, al forte di Kessel, vicino ad Anversa, il sottufficiale Göttsche, dell’85º reggimento di fanteria, ricevette dal proprio capitano l’ordine di non fare prigionieri inglesi. Secondo il diario di un medico tedesco, il 31 agosto i francesi feriti furono colpiti a morte con la baionetta da una compagnia di genieri tedeschi. Un giornale della Slesia arrivò persino a riferire (sotto il titolo Una giornata di onore per il nostro reggimento) che i prigionieri francesi erano stati tutti uccisi entro la fine di settembre.  18 I soldati coinvolti avevano quasi certamente eseguito ordini dati a voce, come quelli impartiti al 112º (Baden) e al 142º reggimento. Secondo l’annotazione del 27 agosto sul diario di un soldato tedesco, «i prigionieri e i feriti francesi sono stati tutti fucilati perché loro mutilano e maltrattano i nostri feriti»; perlomeno questo era ciò che gli era stato detto dai suoi superiori. Un altro soldato di leva, Dominik Richert, confermò che il suo reggimento (il 112º fanteria) aveva ricevuto l’ordine di uccidere i prigionieri; fatto interessante, Richert osservò che alla maggior parte dei soldati – ma non a tutti – l’ordine non era piaciuto.  19

Comportamenti del genere continuarono per tutta la guerra. Nel marzo del 1918 Ernst Jünger raccontò come un soldato di una compagnia comandata da un altro ufficiale avesse sparato a «una dozzina abbondante» di prigionieri inglesi che «correvano con le mani alzate verso le retrovie». I sentimenti di Jünger erano ambivalenti: «Uccidere un uomo indifeso», scrisse, «è una viltà. Nulla in guerra mi ripugnava più di quegli eroi da mensa degli ufficiali che erano soliti ripetere con una crassa risata la storiella [sic] sui prigionieri fatti sfilare uno davanti all’altro: “Hai sentito del massacro? Impagabile!”». Ciononostante, non pensava di poter «rimproverare agli uomini il loro comportamento sanguinario».  20

Viene la tentazione di aggiungere questi episodi alla lista di accuse di Schrecklichkeit da parte tedesca. Ma non è sufficiente. Infatti, sembra chiaro che le potenze dell’Intesa non persero tempo a rispondere con la stessa moneta. Karl Kraus lo chiarisce in Gli ultimi giorni dell’umanità. Nel quinto atto, scena quattordicesima, si vedono alcuni ufficiali tedeschi che ordinano ai loro uomini di uccidere dei prigionieri francesi a Saarburg. Nella scena seguente, però, alcuni ufficiali francesi discutono la possibilità di passare alla baionetta centottanta prigionieri tedeschi vicino a Verdun.  21 Come spesso avviene nel caso di Kraus, quanto più una scena è grottesca tanto più risulta veritiera.

Nel 1922 August Gallinger, ex medico dell’esercito e dal 1920 professore di filosofia all’Università di Monaco, pubblicò un libro intitolato Gegenrechnung (Controaccusa), nel quale elencava una serie di atrocità commesse dai soldati alleati sui prigionieri tedeschi.  22 La maggior parte degli storici sarebbe incline a liquidare questo libro come una semplice perorazione, un debole tentativo da parte tedesca di dimostrare che «due errori fanno una cosa giusta», in risposta alle accuse sulla atrocità tedesche. Ma le tesi di Gallinger meritano di essere prese seriamente in considerazione.

Gallinger aveva prestato servizio nell’esercito bavarese ed era stato uno dei tanti tedeschi catturati verso la fine della guerra (per la precisione dai francesi nel settembre del 1918). Non si lamentò del trattamento ricevuto ed era abbastanza onesto da ammettere che, personalmente, non aveva assistito ad alcuna uccisione di prigionieri. Ma, come vedremo, a quel punto della guerra si ebbero probabilmente meno incidenti di questo genere (il che spiega perché molti tedeschi fossero pronti ad arrendersi).

Dopo la guerra Gallinger iniziò a raccogliere le testimonianze di altri ex prigionieri di guerra. Sono letture da far rizzare i capelli. Senza dubbio, alcuni descrivono quel tipo di incidenti che si verificano in quasi tutte le guerre nell’infuriare delle battaglie; altri però parlano di atti che possono essere definiti semplicemente omicidi a sangue freddo. Spesso i prigionieri erano uomini feriti a cui i francesi si limitavano a dare il colpo di grazia. Karl Alfred di Mehlhorn descriveva come, dopo che la trincea della sua compagnia era stata presa d’assalto, «i soldati francesi fossero apparsi da entrambi i fianchi e avessero spietatamente ucciso i feriti con il calcio del fucile o con la baionetta. Quelli che mi giacevano accanto furono uccisi uno dopo l’altro a colpi di baionetta nel cranio. Feci finta di essere morto e così mi salvai».  23 Un certo «Johan Sch.», di Dortmund, raccontava di avere visto «le riserve francesi che marciavano verso il fronte mettere in fila cinque o sei tedeschi gravemente feriti e divertirsi a sparare contro quei disgraziati indifesi. Il comandante della compagnia fu ucciso da due colpi alla testa».  24 Secondo Gallinger, questo tipo di comportamento non era necessariamente spontaneo: la 151  a divisione francese aveva specificamente incaricato i cosiddetti nettoyeurs di uccidere i nemici feriti, perché «i soldati tedeschi, dopo avere alzato le mani in segno di resa, hanno spesso sparato alla schiena dei loro catturatori».  25 Ma non erano solo i feriti a essere uccisi. Ecco il racconto di John Böhm, di Fürth: «Un sergente francese venne a chiederci a quale nazione appartenessimo. Il primo a essere interrogato rispose “Baviera”, al che il sergente gli sparò in testa a bruciapelo e quello cadde morto all’istante. Poi fece lo stesso con gli altri».  26 Nell’ottobre del 1914, secondo la dichiarazione giurata del sergente Feilgenhauer, «centocinquanta uomini del 140º fanteria furono massacrati dietro le trincee e soltanto trentasei riuscirono a fuggire; e tutto questo in presenza di un ufficiale [francese]».  27 Un altro testimone racconta che un ufficiale francese gli aveva sparato mentre lui e altri prigionieri venivano portati dietro le linee francesi.  28 Max Emil Richter, di Chemnitz, ricorda come i suoi catturatori francesi avessero ordinato a lui e ai suoi camerati di «abbandonare le armi e scendere in una piccola trincea; quando iniziammo a scendervi, si misero a spararci, in modo che cademmo uno sopra l’altro. Chiunque desse un segno di vita veniva colpito con il calcio del fucile o con la baionetta. Io stesso fui colpito al polmone e alla testa».  29 Adolf K., di Düsseldorf, racconta che, nel settembre del 1915, l’ufficiale in comando ordinò a lui e ad altri trentanove uomini di arrendersi dopo che i francesi avevano conquistato la loro trincea: «Su ordine di qualche superiore ... i francesi aprirono il fuoco contro di noi. Cercammo di fuggire e io caddi in una buca di granata, ferito a un ginocchio. Da lì vidi i francesi uccidere gli altri mentre giacevano a terra, pigliandoli a pedate e colpendoli con il calcio del fucile». Fu l’unico superstite.  30 Nel maggio del 1916 Julius Quade, che prestava servizio nella 2  a compagnia del 52º fanteria, fu catturato a Douamont:

Cinquanta o sessanta metri dietro le trincee c’era un ufficiale francese che sparò a sei o sette miei camerati disarmati, e alcuni persino feriti. Io fui colpito a una coscia. Al suo ordine dovemmo passargli davanti in fila, e lui sparò a ciascuno di noi da distanza ravvicinata.  31

Sebbene molti degli episodi riferiti da Gallinger riguardino l’esercito francese, il suo libro abbraccia la maggior parte dei teatri di guerra e degli eserciti belligeranti. Ci sono spaventose storie sugli africani, i marocchini e gli «indù» con tanto di teste tagliate e altre cose del genere, nonché altrettanto terribili racconti sulle uccisioni di prigionieri da parte dei rumeni.  32 Non sono risparmiate nemmeno le truppe britanniche. Anch’esse, affermava Gallinger, «sparavano senza esitare» ai prigionieri feriti troppo gravemente per essere scortati nelle retrovie.  33 E anch’esse uccisero a sangue freddo prigionieri in perfetta salute. Un soldato di Magdeburgo firmò una dichiarazione giurata in cui raccontava che, a Pozières, nel luglio del 1916, «quattro prigionieri appartenenti al 27º fanteria furono fucilati e poi trafitti con la baionetta dagli inglesi».  34 Nel maggio del 1917, secondo la testimonianza del sergente Drewenik, di Posen, «circa trenta uomini del 98º fanteria della riserva, che erano rimasti bloccati in una trincea e si erano arresi a un sergente inglese, furono uccisi mentre venivano scortati nelle retrovie».  35 Quattro mesi più tardi, secondo la testimonianza del soldato di fanteria Oberbeck, di Hannover, quaranta o cinquanta uomini del 77º fanteria della riserva catturati a Saint-Julien furono mandati «in una casamatta vicino alla seconda linea inglese. La maggior parte di essi fu uccisa con bombe a mano e revolverate».  36 Quello stesso mese il soldato di fanteria Stöcken, anch’egli di Hannover, assistette a Ypres «all’uccisione sistematica dei feriti a gruppi di quattro o cinque uomini alla fine della battaglia».  37 I soldati inglesi potevano comportarsi in modo violento nell’esigere i beni personali dei prigionieri. Secondo Hugo Zimmermann, nel novembre del 1918 «un uomo che, immobilizzato dalla paura, non riuscì a togliersi rapidamente la cintura, fu ucciso con un colpo di baionetta».  38 Friedrich Weisbuch, di Ettenheimmünster, disse di essersi trovato a «cinquecento metri oltre le linee nemiche quando un uomo fu ucciso e altri due feriti da tre soldati inglesi, nonostante avessero alzato le mani in segno di resa».  39 Gallinger sostiene inoltre che in certi casi gli uomini agivano in base a precisi ordini. Al riguardo cita la dichiarazione di un certo Jack Bryan, del 2º reggimento scozzese, secondo il quale «l’ordine di “non fare prigionieri” fu dato a tutti gli uomini della compagnia».  40 Riferisce anche alcuni incidenti in cui furono coinvolte truppe dei Dominions. Secondo il sergente medico Eller, del 17º reggimento di fanteria bavarese, a Messines i canadesi avevano ricevuto «l’ordine di non fare prigionieri, e di uccidere tutti i tedeschi. Ma ne erano stati catturati così tanti che non fu possibile eseguire l’ordine».  41 Il sergente Walter, di Stoccarda, testimoniò che «[a Miramont] un ufficiale canadese uccise senza motivo due prigionieri, il fante Mahl e il tenente Kübler, entrambi del 120º reggimento di fanteria della riserva».  42

Erano pure e semplici invenzioni? Senza dubbio, gli Alleati hanno spesso negato che cose del genere siano mai accadute. Il tenente generale Sir John Monash, nel suo resoconto sulla campagna dell’esercito australiano in Francia nel 1918, dichiarò che «non mi è mai giunta notizia di alcun caso di brutalità o disumanità nei confronti dei prigionieri».  43

Ma a sostegno della propria tesi, Gallinger è stato in grado di citare anche fonti inglesi. Nelle sue memorie di guerra, intitolate A Private in the Guards, Stephen Graham racconta che un istruttore gli disse le seguenti parole: «Il secondo uomo con la baionetta uccide i feriti ... Non potete permettervi di farvi ostacolare dai nemici feriti che giacciono ai vostri piedi. Non fate gli schizzinosi. L’esercito vi fornisce un paio di stivali robusti: fatene buon uso». Poi Graham racconta come

l’idea di prendere prigionieri fosse diventata molto impopolare. Un buon soldato non faceva prigionieri. Se si riceveva l’ordine di scortare prigionieri in cella, li si poteva sempre uccidere lungo il tragitto e dire che avevano cercato di scappare ... Il capitano C., che a Festubert aveva sparato a due ufficiali tedeschi prigionieri con i quali aveva avuto un alterco, fu sempre considerato un eroe; e quando qualcuno raccontava la storia, gli ascoltatori commentavano tutti contenti: «È così che bisogna trattarli».

Graham parla anche di soldati britannici che avevano «giurato di non prendere mai prigionieri», aggiungendo: «L’opinione condivisa nell’esercito sui tedeschi era che fossero una sorta di parassiti simili ai ratti della peste e che quindi dovessero essere sterminati». Riferisce poi una storia che gli era stata raccontata da altri:

Un sergente vecchia maniera va dal suo ufficiale, il quale tra l’altro era un poeta e scriveva versi molto belli ed era anche appassionato d’arte, e lo saluta: «Ho il permesso di fucilare i prigionieri, signore?». «Perché vuole fucilarli?», domanda il poeta. «Per vendicare la morte di mio fratello», risponde il sergente. Suppongo che il poeta gli abbia detto di procedere. Lui spara ai tedeschi uno per uno, e alcuni suoi camerati gli dicono «Bravo!», mentre ad altri si gela il sangue nelle vene.  44

Gallinger ha potuto anche citare una storia tratta da Now It Can Be Told di Philip Gibbs, come era stata riferita in origine dal colonnello Ronald Campbell, il tristemente famoso teorico sanguinario dell’uso della baionetta:

Un gruppo di tedeschi era stato catturato in un trinceramento. Al sergente era stato detto che i suoi uomini dovevano provare il brivido di ammazzarli, e durante il massacro il sergente si voltò e chiese: «Dov’è Harry? Harry non ci ha ancora provato».
Harry era un ragazzo timido, che provava orrore per quel lavoro da macellai, ma fu chiamato e gli fu consegnato il suo uomo da uccidere. Dopodiché Harry diventò una tigre mangiauomini nella sua brama di sangue tedesco.

Ecco un’altra storia su Campbell riportata da Gibbs: «Se ti capita di incontrare un tedesco che ti dice: “Pietà! Ho dieci figli!”, uccidilo! Potrebbe farne altri dieci».  45 Gallinger cita inoltre un autore francese di nome Vaillant-Courturier, il quale ricordava «ufficiali che si vantavano di avere ucciso prigionieri tedeschi solo per provare i loro revolver ... e ufficiali che avevano fatto fucilare intere compagnie di prigionieri disarmati e che erano stati promossi per queste atrocità».  46

Naturalmente, nulla di tutto ciò può essere ritenuto vero in assoluto. Anzi, le citazioni inglesi devono essere lette con un senso dell’umorismo di cui Gallinger era certamente privo. Se Norman Gladden le avesse scritte prima, Gallinger avrebbe potuto citare anche le sue memorie:

La maggior parte dei nostri compatrioti settentrionali [ossia, gli scozzesi] erano contrari a prendere prigionieri, con nostro grande disappunto. Fritz, sostenevano, non ne prende, quindi perché dovremmo farlo noi? Io non ci credevo, anche se, naturalmente, in una simile anarchia era possibile qualsiasi cosa. Circolavano orribili storie su prigionieri tedeschi mai arrivati nei campi di prigionia, per un motivo o per l’altro. La storia preferita era quella di un gruppo di bellicosi gurka estremamente seccati di avere ricevuto l’ordine di eseguire un compito così inutile come scortare alcuni prigionieri nelle retrovie. Ma avevano trovato un modo più sbrigativo di eseguirlo e le autorità avevano chiuso un occhio. Che fosse vera o no, questa storia era accolta con soddisfazione, come un caso di giustizia sommaria.  47

Il tenente A.G. May riferì una storia analoga dopo la battaglia di Messines; aveva visto due Tommies passare con un gruppo di prigionieri e poi tornare senza di essi:

Dopo un lungo interrogatorio si scoprì che i due uomini avevano ucciso i prigionieri. «Benissimo», disse il capitano di stato maggiore, «finirete davanti alla corte marziale per questo.» «Non ce ne importa niente, ce lo aspettavamo.» «Allora perché li avete uccisi?» «Avevano ucciso mia madre in un raid aereo», rispose uno. «Quando avevano bombardato Scarborough avevano ucciso la mia fidanzata», rispose l’altro.  48

Il 16 giugno 1915 Charles Tames, soldato semplice della Honourable Artillery Company, descrisse un episodio avvenuto dopo un attacco a Bellewaarde, vicino a Ypres:

Eravamo rimasti sotto il fuoco d’artiglieria per otto ore. Ormai per me era come essere in un sogno, dovevamo essere completamente pazzi in quel momento: alcuni sembravano usciti di senno dopo la fine dell’attacco. Quando penetrammo nelle trincee tedesche trovammo centinaia di soldati dilaniati dal nostro fuoco d’artiglieria; molti si fecero avanti e chiesero pietà: inutile dirlo, furono ammazzati sul posto, che era la migliore pietà che potevamo offrirgli. I Royal Scots fecero circa trecento prigionieri: i loro ufficiali gli dissero di condividere le loro razioni con i prigionieri, ma non appena gli ufficiali si allontanarono, i soldati spararono a tutto il gruppo gridando: «Morte e inferno a tutti voi figli di puttana», e in cinque minuti il terreno fu intriso di sangue tedesco».  49

Gallinger avrebbe anche potuto apprezzare le storie che Somerset Maugham aveva sentito, e in un caso visto personalmente nel 1914, sulle violenze dei francesi nei confronti dei prigionieri. Un ufficiale di cavalleria cosacco che prestava servizio con i francesi gli fece il seguente racconto:

Dopo avere preso prigioniero un ufficiale tedesco, lo portò nella sua caserma. Qui gli disse: «Orà ti mostrerò come trattiamo prigionieri e gentiluomini» e gli diede una tazza di cioccolata; quando l’ebbe bevuta, gli disse: «Ora ti mostrerò come voi li trattate» e lo colpì sul viso. «E lui cosa disse?», domandai. «Nulla, sapeva che se avesse aperto bocca l’avrei ucciso.» Poi mi parlò dei senegalesi. Ai tedeschi gli tagliavano la testa: «Solo allora sono sicuri che sono morti – et ça fait une bonne soupe».  50

In Addio a tutto questo Robert Graves riporta altri episodi: «Alcune divisioni, come quelle dei canadesi e una divisione di Lowland Territorials ... si davano un gran daffare per finire [i nemici feriti]».  51 Non aveva dubbi che «vere e proprie atrocità, vale a dire ... violazioni personali del codice di guerra» accadessero di frequente «nell’intervallo tra la resa dei prigionieri e il loro arrivo (o mancato arrivo) al quartier generale»:

Troppo spesso si approfittava del vantaggio offerto da questa opportunità. Quasi ogni istruttore poteva citare casi specifici di prigionieri uccisi nel tragitto di ritorno ... In tutti questi casi, all’arrivo in caserma, le scorte riferivano che una granata tedesca aveva ucciso i prigionieri; e nessuno faceva domande. Avevamo tutte le ragioni per credere che la stessa cosa avvenisse nel campo tedesco, dove i prigionieri [erano considerati] inutili bocche da sfamare in un paese già a corto di viveri.  52

Queste storie, la maggior parte delle quali esagerate se non del tutto inventate, non costituiscono un’adeguata conferma alle testimonianze tedesche di Gallinger, sebbene dimostrino la diffusa convinzione che i prigionieri venissero uccisi. Il maggiore F.S. Garwood sosteneva di essere rimasto stupefatto quando un ufficiale tedesco preso prigioniero durante la prima battaglia di Ypres «affermò che gli era stato riferito che noi fucilavamo tutti i nostri prigionieri»; questo, dichiarò Garwood, «dimostra quante menzogne i tedeschi diffondano tra le loro truppe».  53 Herbert Sulzbach ebbe la stessa identica reazione quando alcuni prigionieri francesi gli raccontarono «storie di uccisioni di prigionieri da parte nostra» ed espressero la «piacevole sorpresa che ciò non succedesse».  54 Ma è chiaro che in entrambi gli schieramenti queste «storie» si basavano su fatti concreti.

A tale riguardo è importante cercare di distinguere fra le uccisioni che avvenivano nel furore dei combattimenti e quelle più premeditate che si verificavano lontano dal campo di battaglia. Le annotazioni del diario di Harry Finch per il primo giorno della terza battaglia di Ypres sono un buon esempio della difficoltà di operare tale distinzione: «Rimandammo indietro masse di prigionieri. Erano terrorizzati a morte. Alcuni di quei poveri disgraziati furono uccisi a sangue freddo, dato che i nostri uomini erano molto eccitati».  55 In questo caso, il sangue dei soldati responsabili (uomini del Royal Sussex Regiment) non era affatto «freddo»: era una situazione tipica della confusione del campo di battaglia descritta così bene da John Keegan, in cui gli uomini che erano andati all’attacco non riuscivano a fermare il proprio desiderio di uccidere i nemici anche di fronte a un gesto di resa. Il 20 settembre 1917, per fare un altro esempio, le truppe australiane circondarono un fortino tedesco a due piani e convinsero gli uomini che si trovavano al pianterreno ad arrendersi:

Gli australiani assunsero immediatamente un atteggiamento rilassato, e i prigionieri stavano uscendo quando vennero sparati dei colpi, uno dei quali uccise un australiano. Lo sparo veniva dal piano superiore, i cui occupanti non sapevano nulla della resa di quelli che stavano al piano inferiore. Ma le truppe che lo circondavano erano troppo eccitate per rendersene conto. Per loro si trattava di tradimento, e iniziarono subito a prendere a baionettate i prigionieri. Uno che stava per infilzare un tedesco si accorse che la baionetta non era inastata sul fucile: mentre quel poveretto implorava pietà, la inastò infuriato e poi lo trafisse.  56

Questo era stato fatto a sangue freddo o a sangue caldo? La stessa domanda vale a proposito di un altro esempio citato da Keegan: la storia, riferita da Chapman, di un sergente che, sulla Somme, sparò a un ufficiale tedesco che aveva detto chiaramente «Mi arrendo» e aveva persino consegnato il suo binocolo da campo. Secondo Chapman il sergente era probabilmente «fuori di senno per l’eccitazione quando saltò nella trincea. Credo che non fosse consapevole di quello che stava facendo. Se spingi un uomo a uccidere, poi non puoi fermarlo come se fosse un semplice motore».  57 Un veterano della Somme ricordava di avere ucciso tedeschi che si arrendevano quasi per un riflesso condizionato: «Alcuni tedeschi uscivano fuori dalle trincee con le mani alzate in segno di resa; altri correvano in direzione delle proprie retrovie. Per noi dovevano essere uccisi».  58 Analogamente, il battaglione neozelandese Otago non fece prigionieri quando assaltò la Trincea del Crinale.  59 Quando questo genere di cose non accadeva, era occasione di commenti. A Ginchy, nel settembre del 1916, un tenente irlandese della 16  a divisione rimase colpito dal fatto che «nemmeno uno» dei duecento «unni» che erano stati «impegnati a massacrare i nostri uomini fino all’ultimo momento» fosse stato ucciso dopo la resa. E aggiungeva: «Non ho visto un solo caso di prigionieri fucilati o ammazzati con la baionetta. Se penso che i nostri uomini erano in uno stato di frenetica eccitazione, questo supremo atto di pietà verso i loro nemici va sicuramente a loro eterno credito».  60 Il fatto che fosse rimasto così colpito da questo comportamento indica che si trattava dell’eccezione e non della regola.

Sarebbe facile elencare molti altri casi analoghi di violenza formalmente «impropria», che tuttavia erano destinati talvolta a verificarsi nei combattimenti ravvicinati. Probabilmente alcuni dei casi citati da Gallinger erano più simili a questi di quanto non lascino supporre i suoi resoconti. In Niente di nuovo sul fronte occidentale Remarque ci offre un vivido quadro delle decisioni prese a bruciapelo che determinavano la sorte degli uomini che si arrendevano:

Abbiamo perso ogni sensibilità nei confronti degli altri; a stento ci riconosciamo tra noi quando, eccitati come siamo, qualcuno capita nel nostro campo di visione. Siamo uomini morti privi di sentimenti, che, grazie a qualche trucco e a qualche pericolosa magia, continuano a correre e a uccidere.
Un giovane francese rimane indietro, viene raggiunto, alza le mani, in una stringe ancora una rivoltella – non si sa se voglia sparare o arrendersi – un colpo di vanghetta gli spacca la faccia. Un secondo, veduto ciò, tenta di fuggire, ma una baionetta gli guizza nella schiena. Salta alto, le braccia aperte, la bocca spalancata nell’urlo e corre via, con la baionetta infissa fra le spalle. Un terzo getta via il fucile, si rannicchia a terra, le mani sugli occhi. Questo lo lasciamo indietro, con qualche altro prigioniero, per portare via i feriti.  61

Anche Ernst Jünger ammetteva che

se un difensore spara addosso all’aggressore fino a quando si trova a cinque passi da lui non può più contare sulla sua grazia. Il combattente cui durante l’assalto cala come un velo di sangue davanti agli occhi non vuol fare prigionieri, ma uccidere. Non ha più il minimo scrupolo. Rimane soltanto la violenza bruta dell’istinto primordiale.  62

Tuttavia, Jünger citava anche un episodio in cui dei prigionieri tedeschi avevano sparato ai loro catturatori e un altro in cui un ufficiale britannico era stato catturato proprio mentre cercava di prendere prigionieri alcuni tedeschi!  63 Era precisamente il genere di cose che sulla Somme convinse uomini come i Norfolks della 18  a divisione di Ivor Maxse a non prendere prigionieri. Come ricordava un subalterno:

Durante l’attacco vidi gruppi di tedeschi sparare sui nostri compagni finché non furono a pochi metri da loro; poi, quando si accorsero che per loro non c’era più speranza, gettarono a terra le armi e si fecero avanti per stringere le mani dei nostri uomini. Alla maggior parte di loro fu servito il dessert [sic] e non furono presi prigionieri. Alcuni tedeschi feriti spararono alla schiena dei nostri uomini, che li avevano appena medicati. Sono dei porci – credetemi – ho visto succedere queste cose con i miei stessi occhi.  64

Era particolarmente gratificante uccidere un uomo che sembrava voler arrendersi e poi scoprire che voleva giocare sporco. «Disteso sulla pancia, voltò il capo e chiese pietà», scrisse un soldato,

ma i suoi occhi tradivano volontà di uccidere. Gli piantai la baionetta nella schiena, all’altezza del cuore, e lui crollò con un grugnito. Lo rivoltai. Aveva un revolver nella mano destra, nascosto sotto l’ascella sinistra. Aveva cercato di spararmi da sotto il corpo. Dopo aver estratto la baionetta, premetti il grilletto e gli sparai tanto per essere sicuro.  65

Ma la sfiducia non era la sola ragione che gli uomini adducevano come giustificazione per uccidere i prigionieri. Graves citava tra «le giustificazioni più comuni ... la vendetta per la morte di amici o parenti, la gelosia del fatto che il prigioniero sarebbe stato portato in un confortevole campo di prigionia in Inghilterra, l’entusiasmo militaresco, il timore di essere improvvisamente sopraffatti dai prigionieri o, più semplicemente, la seccatura di fare la scorta».  66 Talvolta era sufficiente la minaccia di una controffensiva: correva voce che nell’ottobre del 1917 il II Anzac Corps avesse ucciso un gran numero di prigionieri perché aveva saputo che «i Boches si stavano raccogliendo per lanciare una controffensiva».  67 Più spesso, comunque, gli uomini erano spinti dal desiderio di vendetta che abbiamo già incontrato come motivazione a combattere: ne sono la prova gli uomini descritti da May, che volevano vendicarsi sui tedeschi per la morte rispettivamente della madre e della fidanzata in bombardamenti aerei. Ancora più comune era probabilmente il desiderio di vendicare un camerata ucciso: il tenente John Stamforth raccontava come, dopo l’attacco a Vermelles, nel giugno del 1916, tre «ragazzi» del 7º Leinster avessero ucciso sei prigionieri, mentre li conducevano nelle retrovie, quando «si erano imbattuti nel corpo di uno dei nostri ufficiali».  68 Qualche volta un uomo cercava vendetta per se stesso: dopo essere stato ferito a un piede durante un raid tedesco vicino a Loos, nel dicembre del 1916, il soldato O’Neill, del 2º Leinster, dovette essere fermato per impedire che uccidesse un prigioniero tedesco catturato al termine dello scontro.  69 L’esempio classico del modo in cui la violenza si diffondeva e si moltiplicava ci è offerto da George Coppard, il quale ricordava «uno sporco trucco dei prussiani» nella ridotta di Hohenzollern:

In trecento attraversarono la terra di nessuno fingendo di volersi arrendere, senza fucili o altro equipaggiamento, le mani ben alzate, ma con le tasche piene di granate. Poco prima di giungere al nostro filo spinato si gettarono a terra e lanciarono una pioggia di bombe a mano nella trincea della compagnia B, provocando molte perdite. Il colpo fu talmente grave che quel che restava della compagnia non fu in grado di rispondere con una forte rappresaglia. Il resto del battaglione era avvilito e furioso per il trucco e definì i prussiani sporchi bastardi. Molti giurarono che si sarebbero vendicati brutalmente non appena avessero preso dei prigionieri. La maggior parte dei mitraglieri Vickers giurò di vendicarsi di persona. Da quel momento in poi, l’arrivo di un gruppo di crucchi con le mani alzate divenne il segnale per aprire il fuoco.  70

In realtà, quando Coppard ebbe l’opportunità di prendersi la sua vendetta ad Arras infliggendo «l’estremo trattamento» ad alcuni tedeschi che si erano arresi sull’altra sponda del canale della Scarpe, «il tenente W.D. Garbutt decise che dovevano essere fatti prigionieri». Comprensibilmente i tedeschi erano restii a obbedire quando gli fu ordinato di attraversare il canale, temendo di essere falciati dalle mitragliatrici durante il guado.  71

Comunque, la vendetta talvolta era compiuta per qualcosa che i tedeschi avevano fatto in un passato anche piuttosto lontano, comprese atrocità alle quali i soldati non avevano assistito personalmente. «Alcuni [tedeschi che si erano arresi] strisciavano sulle ginocchia», ricorda un altro soldato britannico,

tenendo alta sulla loro testa la foto di una donna o di un bambino, ma furono tutti uccisi. L’eccitazione era svanita. Li uccidemmo a sangue freddo perché era nostro dovere ucciderne il più possibile. Pensai spesso al Lusitania. Avevo addirittura pregato perché arrivasse il giorno [della vendetta], e quando arrivò, ne uccisi tanti quanti avevo sperato che il destino mi avrebbe concesso di ucciderne.  72

Un altro soldato ricordava di aver dovuto impedire a un amico di uccidere un pilota tedesco catturato:

Cercò di scoprire se avesse solcato i cieli di Londra per bombardarla. E disse: «Se è stato lassù, gli sparo! Non se la passerà liscia». E lo avrebbe fatto. La vita non significava più niente. La vita era sempre in pericolo, e quando catturavi un branco di crucchi puzzolenti da togliere il respiro, non provavi molta simpatia per i loro Kamerad e quel loro modo di fare umile e servile.  73

Un soldato australiano raccontava come, nell’agosto del 1917, un ufficiale avesse sparato a due tedeschi, uno dei quali giù ferito, che si trovavano nel cratere di una granata:

Il tedesco gli chiese di dare da bere al suo camerata. «Sì», rispose il nostro ufficiale, «gli darò da bere... questo», e scaricò il suo revolver su tutti e due. È il solo modo di trattare un unno. Non ci eravamo forse arruolati per ammazzare gli unni, questi massacratori di bambini?  74

Si osservi in questo caso come finte atrocità (l’uccisione di bambini belgi) riescano a provocare atrocità vere: Kraus aveva ragione. Era chiaro che alcuni soldati credevano a ciò che leggevano nei giornali di Lord Northcliffe.

Ordini

Più controversa è un’altra questione, vale a dire se gli uomini, quando uccidevano i prigionieri, obbedissero a degli ordini. Ci sono, naturalmente, molti esempi di ufficiali superiori che esortarono i loro uomini a «uccidere gli unni». Nel dicembre del 1915 il comandante della 24  a divisione incitò i suoi soldati a «uccidere ogni tedesco armato a ogni occasione possibile»; ma almeno aveva specificato che fosse armato.  75 Nel 1915 il maggiore John Stewart, del Black Watch, scrisse a sua moglie che il suo battaglione «AVEVA PRESO POCHISSIMI PRIGIONIERI» a Loos, aggiungendo che «la cosa principale era uccidere quanti più UNNI potevano con le minori perdite possibili». Ma questa era una lettera privata e non prova che abbia ordinato ai suoi uomini di non fare prigionieri.  76

La prova di simili ordini è tuttavia evidente nel caso della Somme, tradizionalmente considerata il luogo del martirio di massa dell’esercito britannico. Un soldato dei Suffolk udì un brigadiere (si trattava probabilmente di Gore) dire alla vigilia della battaglia: «Potete prendere prigionieri, ma io non voglio vederne». Un soldato della 17  a Highland Light Infantry ricorda che era stato dato l’ordine «di non concedere quartiere al nemico e di non fare prigionieri».  77 Nelle sue note sui «recenti combattimenti» del II corpo, in data 17 agosto, il generale Sir Claud Jacob esortava a non fare prigionieri, in quanto ostacolavano il rastrellamento.  78 Il colonnello Frank Maxwell, insignito della Victoria Cross, ordinò ai suoi uomini (il 18º battaglione del 12º reggimento Middlesex) di non prendere prigionieri nel corso del loro attacco contro Thiepval, il 26 settembre, affermando che «tutti i tedeschi dovrebbero essere sterminati».  79 Il 21 ottobre Maxwell lasciò un messaggio d’addio al suo battaglione, che fu fatto circolare insieme agli ordini del suo successore. Lodava i suoi uomini per avere

cominciato a capire che l’unico modo di trattare i tedeschi è ucciderli ... Io quasi non so come sia fatto un prigioniero e uno dei motivi di ciò è che questo battaglione sa come placare le sue anime assetate ... Ricordate che i «duri a morire» del 12º UCCIDONO e NON PRENDONO PRIGIONIERI A MENO CHE NON SIANO FERITI.  80

Il capitano Christopher Stone riteneva che «un Boche vivo non serve né a noi né al mondo in genere».  81

Analoghe testimonianze si possono trovare anche per il 1917. Prima di Passchendaele, l’ufficiale comandante di Hugh Quigley disse ai suoi uomini:

Non sparate ai prigionieri quando questo ... è commettere un omicidio bell’e buono [sic]; non uccidete i feriti se sono in condizioni disperate e indifesi. Se vi imbattete in prigionieri, potete trattarli come preferite. Non altrimenti!  82

Queste erano, tutt’al più, indicazioni piuttosto flessibili. Tipico dell’atteggiamento di molti ufficiali sulla linea del fronte è il seguente dialogo fra tre ufficiali alla mensa del Royal Berkshire Regiment:

L: Gira una storia piuttosto sgradevole su quell’assalto di ieri notte.
R&F: E qual è?
L: Be’, hanno catturato un ufficiale tedesco e mentre lo stavano portando dietro le nostre linee con le mani legate dietro la schiena una pallottola vagante ha colpito uno degli uomini della scorta; così gli altri se la sono presa con lui e l’hanno ucciso.
R: Non ci vedo niente di sbagliato ... Di Boches, più ne ammazzi meglio è.
L: Ma ... era un prigioniero; ed è stata una pallottola vagante a uccidere l’uomo della scorta. Il tedesco poi aveva le mani legate dietro la schiena e non poteva difendersi; e loro lo hanno ucciso così, senza pensarci nemmeno un istante.
R: E hanno fatto un lavoro dannatamente buono.  83

Come dimostra questo dialogo, gli ufficiali avevano opinioni diverse sulla questione. Anthony Brennan, del Royal Irish Regiment, riferì il caso di «uno dei nostri caporali che aveva deliberatemente sparato a un tedesco che veniva avanti con le mani alzate, uccidendolo». Brennan e i suoi colleghi «si erano scandalizzati per questo episodio e avevano espresso il loro più assoluto disprezzo nei confronti dell’assassino».  84 Viceversa, Jimmy O’Brien, del 10º Dublin Fusiliers, ricordava che il suo cappellano (un pastore inglese di nome Thornton) aveva fatto il seguente discorso: «Allora, ragazzi, domani mattina entriamo in azione e se prendete prigionieri le vostre razioni saranno dimezzate. Quindi, non fate prigionieri. Uccideteli! Se prendete prigionieri, bisognerà alimentarli con le vostre razioni. Perciò ve le dimezzeranno. La risposta è: non fate prigionieri».  85

Tuttavia, non è vero che il capo di stato maggiore di Haig, tenente generale Sir Lancelot Kiggell, incoraggiasse questo genere di cose.  86 L’ordine che fece emanare il 28 giugno 1916 si limitava a rammentare agli ufficiali i trucchi dei tedeschi (l’uso di parole di comando inglesi, il camuffamento delle mitragliatrici) e dichiarava:

È dovere degli uomini di ogni grado continuare a usare le loro armi contro le truppe combattenti del nemico, a meno che e fin quando non risulti al di là di ogni dubbio che non solo hanno cessato qualsiasi resistenza, ma che, avendo deposto le armi volontariamente o in altro modo, hanno definitivamente e incontrovertibilmente abbandonato ogni speranza o intenzione di resistere. In caso di resa, spetta al nemico dimostrare le sue intenzioni al di là di ogni possibile fraintendimento, prima che la resa possa essere considerata autentica.  87

Questo voleva dire semplicemente seguire le regole dei manuali.

I fatti in questione sembrano dunque chiari: in determinate circostanze, e con l’incoraggiamento di alcuni comandanti, gli uomini andavano in battaglia con l’intento di non dare quartiere. E anche quando non avevano questo intento, trovavano difficile prendere prigionieri – rischiando di cadere in una trappola – se avevano l’opportunità di ucciderli. Naturalmente, gli incidenti di questo tipo furono relativamente pochi in confronto alle migliaia di catture che procedettero senza intoppi dal campo di battaglia al luogo di raccolta degli sbandati, al campo di concentramento divisionale, al quartier generale del corpo per l’interrogatorio, al campo di prigionia, e infine al ritorno a casa alla fine della guerra (di solito parecchi mesi dopo la fine). Dietro le linee, i tedeschi cessavano di essere oggetto di odio e diventavano semmai oggetto di curiosità (come animali di uno zoo o «numeri da baraccone») e persino di simpatia,  88 proprio come i prigionieri russi mezzi morti di fame suscitavano la compassione del protagonista in Niente di nuovo sul fronte occidentale,  89 per quanto neppure nei campi di prigionia si fosse sempre al sicuro. Lo stesso Somerset Maugham vide un gruppo di gendarmes francesi mitragliare senza alcun motivo alcuni prigionieri tedeschi. Questo accadde a venticinque chilometri dal fronte.  90

Tuttavia il numero degli incidenti non è importante quanto l’impressione che essi suscitavano nella cultura delle trincee. Gli uomini glorificavano e ingrandivano questi episodi, che entravano nella mitologia della trincea. E quanto più questi miti venivano ripetuti, tanto più gli uomini diventavano restii ad arrendersi. Perciò Keegan sbaglia quando liquida questi episodi considerandoli «del tutto insignificanti in termini di “vittoria-sconfitta”», in quanto le future decisioni di resa non potevano non essere condizionate dall’idea che lo schieramento avversario non prendesse prigionieri o che almeno lo facesse difficilmente.

Solo negli ultimi tre mesi del conflitto i soldati tedeschi iniziarono ad arrendersi in quantità tali da rendere di fatto impossibile continuare la guerra. Fu questa la chiave della vittoria alleata. Tuttavia non è affatto facile spiegare perché all’improvviso i tedeschi decisero di arrendersi. Di solito si dice che il fallimento dell’offensiva di primavera di Ludendorff, dopo il successo iniziale, convinse finalmente un gran numero di soldati che la guerra non poteva essere vinta.  91 Un’altra possibile spiegazione è che l’arrivo delle truppe americane sul fronte occidentale spinse i tedeschi ad arrendersi perché gli americani avevano fama di trattare bene i prigionieri. Ma non ci sono molte prove a favore di questa tesi. Quando, il 7 novembre 1918, Elton Mackin, del 21º battaglione, 5º reggimento dei marines, avanzando in direzione della Mosa, si imbatté in alcuni mitraglieri tedeschi morti rimase sconcertato:

Il nemico era in rotta davanti a noi, e aveva lasciato in diversi punti delle postazioni di mitragliatrici Maxim per ritardare la nostra avanzata. I loro coraggiosi e disperati addetti avevano fatto tutto il possibile ed erano morti.
Non riuscimmo mai a comprendere veramente questi uomini. Erano piccole squadre, raramente composte da più di due o tre persone, e sempre giovani. Questi giovani erano rimasti lì a morire perché così gli era stato ordinato. I compagni più anziani avrebbero usato la testa, urlando Kamerad prima che le mitragliatrici fossero diventate troppo roventi e gli uomini gelidamente cinici.  92

Tuttavia, le cifre indicano chiaramente che soltanto un esiguo numero di tedeschi (circa 43.000) si arrese agli americani nell’ultima fase del conflitto, in confronto ai 330.000 catturati dai britannici e dai francesi.  93 Più probabilmente fu l’idea di rinforzi americani in continuo aumento, piuttosto che la loro effettiva presenza, a contribuire al crollo del morale tedesco. In ogni caso, è chiaro che i marines statunitensi erano altrettanto pronti a non fare prigionieri delle più stagionate truppe britanniche e francesi. Lo stesso Mackin ricordava che il maggiore generale Charles P. Summerall, comandante del V corpo della Forza di spedizione americana, gli aveva detto: «Lassù a nord c’è un capolinea ferroviario ... Vada a tagliarmelo. E quando l’avrà fatto, si ritroverà ad avere fame se cercherà di nutrire i prigionieri che avrà preso ... Ora le dico, e se lo tenga bene a mente, su quei tre crinali non faccia prigionieri».  94 Mackin descrive almeno un episodio in cui non furono presi prigionieri e un altro in cui fu risparmiato soltanto un tedesco ferito «per qualche motivo che noi più giovani non capimmo ... Fu il solo prigioniero preso lì, o forse sarebbe meglio dire “accolto”».  95

Una spiegazione generale della resa in massa dei tedeschi alla fine del 1918 resta alquanto vaga. Dire che i tedeschi «sapevano» di avere perso la guerra implica probabilmente una comprensione del «grande quadro» strategico più ampia di quella che aveva la maggior parte dei soldati sulla linea del fronte. La decisione di combattere o arrendersi era legata più a calcoli personali immediati che a considerazioni di natura strategica. Perché, per esempio, Jünger rifiutò di arrendersi quando la sua posizione era chiaramente disperata nelle settimane precedenti l’armistizio? Rifiutandosi di arrendersi insieme ai suoi uomini rischiò di essere ucciso. La sua motivazione sembra essere stata l’onore personale, analogamente a un tedesco ferito a morte che rifiutò l’assistenza medica britannica perché voleva «morire senza essere preso prigioniero».  96 Perché i giovani mitraglieri visti da Mackin continuarono inutilmente a combattere nel novembre del 1918?

L’8 luglio 1920 Winston Churchill dichiarò alla Camera dei Comuni:

Più e più volte abbiamo visto ufficiali e soldati britannici attaccare i trinceramenti sotto il fuoco più massiccio, con metà dei loro effettivi uccisi prima ancora di penetrare nelle posizioni del nemico, la certezza di un lungo giorno di sangue, uno spaventoso bombardamento che distruggeva tutto ciò che gli stava intorno – li abbiamo visti in queste circostanze ... mostrare non solo pietà, ma addirittura gentilezza nei confronti dei prigionieri, trattandoli con moderazione, punendo chi meritava di essere punito secondo le dure leggi di guerra e risparmiando chi poteva pretendere di avere diritto alla clemenza del conquistatore. Li abbiamo visti sforzarsi di mostrare compassione aiutando i feriti, anche a rischio della loro stessa vita. Lo hanno fatto migliaia di volte.  97

Migliaia di volte? Forse; ma certo non sempre. Se entrambe le parti fossero riuscite a fare qualcosa di più concreto per incoraggiare il nemico ad arrendersi – invece di lasciare che la cultura del «non prendere prigionieri» infettasse certe unità, generando impressioni esagerate in entrambi gli schieramenti sul rischio di arrendersi – forse la guerra sarebbe potuta terminare prima, e non necessariamente con una sconfitta tedesca. Viceversa, se un maggior numero di uomini avesse continuato a non prendere prigionieri la guerra avrebbe potuto prolungarsi all’infinito. E, ancora una volta, forse le cose andarono proprio così.

Guerra senza fine

Si afferma di solito che gli uomini si arresero perché erano «stanchi della guerra». Un bavarese di nome August Beerman, che si arrese ad Arras, ai suoi catturatori disse: «Eravamo stanchi dei gas, delle granate, del freddo e della mancanza di cibo. Non avevamo più la volontà di combattere. Il nostro spirito era spezzato».  98 Esprimeva senza dubbio l’opinione di molti. Ma c’è un altro paradosso: benché stanchi della guerra, gli uomini non sembravano invece stanchi della violenza. Negli Ultimi giorni dell’umanità Karl Kraus avvertiva che

i reduci di guerra irromperanno nell’interno e cominceranno la guerra per davvero. I successi negati [al fronte] se li prenderanno con la forza, e l’essenza vitale della guerra, che è fatta di assassinio, stupro e saccheggio, sembrerà un gioco da ragazzi in confronto alla pace che scoppierà allora. Ci preservi il dio delle battaglie dall’offensiva che ci toccherà fronteggiare! Una paurosa attività, liberata dalle trincee da scavare e non più guidata da nessun comando, cercherà senza posa di allungare le mani verso le armi e il godimento, e il mondo avrà più morte e dolore di quanto non gli abbia mai richiesto la stessa guerra.  99

David Herbert Lawrence era d’accordo. «La guerra non è finita», disse a David Garnett la sera dell’armistizio:

L’odio e il male sono oggi più forti che mai. Molto presto la guerra scoppierà di nuovo e ci sommergerà ... Anche se i combattimenti dovessero cessare, il male sarà peggiore perché l’odio sarà racchiuso nel cuore degli uomini e si manifesterà in tutti i modi e ancor peggio che durante la guerra. Qualunque cosa succeda, non potrà esserci Pace in Terra.  100

Queste parole si rivelarono fin troppo vere. Hermann Hesse aveva perfettamente ragione quando, poco dopo la fine della guerra, scrisse: «La rivoluzione non è altro che guerra, proprio come la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi».  101

La guerra infuriò in lungo e in largo nel mondo «postbellico». I Freikorps tedeschi, composti da veterani e da studenti ancora troppo giovani ai tempi della guerra per parteciparvi, si impegnarono in scaramucce con i polacchi e altri popoli lungo i nuovi e contestati confini della Germania.  102 Herbert Sulzbach rimase stupefatto quando alcuni dei suoi camerati si unirono alla Guardia del confine orientale (Grenzschutz Ost): «Immaginatevi soltanto questo: soldati che sono stati impegnati per anni in aspri combattimenti ora si offrono volontari a migliaia senza la minima esitazione ... Potrebbe mai esserci una manifestazione più splendida di spirito e convinzione?». Altre unità di irregolari combatterono contro le «centurie» spartachiste e comuniste nelle grandi città tedesche: ogni anno, dal 1919 al 1923, ci furono tentativi di putsch, tanto della destra quanto della sinistra. I socialisti maggioritari utilizzarono i Freikorps contro l’estrema sinistra nel 1919; un anno dopo dovettero mobilitare un’«Armata rossa» di operai della Ruhr per fermare un colpo di Stato dei conservatori militari guidati dall’ex leader del Partito della patria Wolfgang Kapp. Nel 1921 i comunisti inscenarono un’«azione dimostrativa» ad Amburgo; nel 1922 ci fu un’ondata di assassinii compiuti da estremisti di destra (Walther Rathenau fu tra le vittime); e nel 1923 sia la sinistra (Aufstand di Amburgo) sia la destra (putsch della Bürgerbräukeller) tentarono di mettere in atto dei colpi di Stato. È difficile quantificare l’estensione della violenza nelle città tedesche: basti dire che nel 1920 si calcolava che circolassero illegalmente 1,9 milioni di fucili, più 8452 mitragliatrici; la smobilitazione non aveva incluso il disarmo.  103

Nel settembre del 1919 l’egocentrico Gabriele d’Annunzio s’impadronì di Fiume (oggi Rijeka) per impedirne la cessione alla Jugoslavia: questa effimera bravata ottenne l’appoggio degli arditi, smobilitati e frustrati, le cui camicie nere divennero ben presto simbolo del fascismo, il nuovo movimento politico fautore della violenza. Si ebbero sporadici scontri anche in Albania; e gli italiani fecero sbarcare delle truppe a Adalia (oggi Antalya), nell’Anatolia meridionale. Nel 1920 il governo italiano rinunciò a Fiume e all’Albania, ma a quel punto la violenza si era trasferita all’interno del paese. In Romagna e in Toscana il duro confronto tra agrari e socialisti portò alla nascita e alla diffusione dello squadrismo: il prototipo dell’ex soldato fascista era il ferrarese Italo Balbo. La «marcia su Roma» (28-30 ottobre) dei fascisti fu chiaramente una farsa: i 25.000 fascisti male armati che si riunirono attorno alla capitale avrebbero potuto essere facilmente dispersi se il re d’Italia non si fosse lasciato prendere dal panico e non avesse chiamato Mussolini al governo; ma con le loro uniformi e i loro saluti i fascisti agivano seguendo una sceneggiatura che si rifaceva genericamente alla guerra.  104

Anche nei Balcani «pace» significava guerra nelle campagne, soprattutto nel nord della Croazia. Si avvertivano inoltre i primi segnali del fatto che i serbi avrebbero usato la forza per imporre il loro dominio sulle minoranze etniche presenti all’interno del nuovo «Regno dei serbi, croati e sloveni»: secondo un rapporto, nel 1919 in Bosnia furono uccisi almeno un migliaio di musulmani e duecentosettanta villaggi saccheggiati.  105 La Turchia nel 1918 era apparsa completamente dilaniata, o almeno pronta a lasciarsi spartire da Francia, Gran Bretagna e Italia, che si misero immediatamente a litigare per le sue spoglie. Istigati da Lloyd George, i greci sbarcarono truppe a Smirne.  106 Ma sottovalutarono i turchi che, sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk, li cacciarono nel 1921.

La violenza era endemica anche nell’Impero britannico. In Irlanda i «Black and Tans» e gli «Auxies» – veterani dell’esercito britannico – furono impiegati contro i repubblicani; e non appena gli inglesi se ne andarono, i nazionalisti iniziarono ad ammazzarsi tra loro in una guerra civile che provocò almeno milleseicento morti.  107 Il nuovo dominio britannico in Medio Oriente fu scosso da disordini in Egitto nel 1919 e da rivolte in Palestina e Iraq nel 1920.  108 Le truppe britanniche stroncarono queste sommosse con la repressione più violenta: circa millecinquecento egiziani furono uccisi nel giro di appena otto settimane; mentre in Iraq il generale Sir Aylmer Haldane giunse addirittura a contemplare l’uso di gas venefici.  109 L’11 aprile 1919, in una delle più spaventose atrocità della storia imperiale britannica, i soldati uccisero trecentosettantanove persone che stavano assistendo a un comizio politico ad Amritsar. Il brigadiere generale Reginald Dyer, che diede l’ordine di aprire il fuoco, ne avrebbe fatte uccidere ancora di più se fosse riuscito a schierare due veicoli corazzati dotati di mitragliatrici.  110 Insomma, ora gli uomini esportavano le tecniche di sterminio di massa che erano state sperimentate sul fronte occidentale.

In altre parole, il mondo non era stanco della guerra, ma solo della prima guerra mondiale. Per molti che vi avevano combattuto, la violenza era diventata una sorta di droga; e quando sul fronte occidentale la violenza era cessata, l’avevano cercata altrove. Vi parteciparono anche gli uomini che erano stati presi prigionieri durante il conflitto: la Legione ceca in Russia è l’esempio classico. I veterani trovarono poi complici più che volenterosi nei bolscevichi, negli studenti tedeschi e nei repubblicani irlandesi: gente che non aveva combattuto, ma che era assetata di sangue.

Il caso estremo è rappresentato proprio dalla Russia. Fu l’esercito russo a crollare per primo, e il soldato russo era stato il più pronto ad arrendersi anziché continuare a combattere. Eppure in nessun altro luogo come in Russia la violenza si era maggiormente diffusa dopo la presunta fine del conflitto. Durante la guerra civile persero la vita più russi di quanti ne morirono nel corso della prima guerra mondiale. Tra l’ottobre del 1917 e l’ottobre del 1922 circa 875.818 uomini che prestavano servizio nelle forze armate sovietiche furono uccisi o morirono per ferite o malattie (circa il 13 per cento di tutti i richiamati); la stima più attendibile sulle perdite nell’esercito bianco è di 325.000. Il totale (1,2 milioni) dovrebbe essere confrontato con il numero di soldati russi uccisi durante la guerra (1,8 milioni).

Le cifre relative alla guerra civile non tengono però conto di un vasto numero di persone morte nelle centinaia di rivolte contadine o di sollevazioni antisovietiche che si verificarono nello stesso periodo, ma che in realtà non presero direttamente parte allo sforzo bellico dei Bianchi: per esempio, circa 250.000 persone rimasero probabilmente uccise nelle varie «guerre del pane» allorché i contadini cercarono di opporsi alle requisizioni di grano. Una stima sul numero delle vittime del «Terrore rosso» diretto dalla polizia segreta (la CEKA) contro gli avversari politici del regime indica una cifra massima di 500.000 persone, 200.000 delle quali ufficialmente giustiziate; ma la cifra potrebbe in effetti essere ancora più elevata.  111 È possibile che altre 34.000 persone siano morte nei campi di concentramento e lavoro creati dopo il luglio del 1918 o addirittura mentre vi venivano scortate.  112 E non bisogna dimenticare i numerosi pogrom contro gli ebrei compiuti sia dai Bianchi sia dai Rossi: un rapporto del 1920 menziona un totale di «più di 150.000 presunti morti».  113 Infine, circa 5 milioni di persone morirono di fame e altri 2 milioni di malattia. In definitiva, durante la guerra civile morì quasi lo stesso numero di persone morte in tutte le nazioni durante la prima guerra mondiale: una stima sul totale delle perdite demografiche nel corso della guerra civile indica una cifra di 8 milioni; circa il 40 per cento di queste morti può essere attribuito alle politiche dei bolscevichi.  114

Tabella 43 – Perdite della guerra civile russa, 1918-1922.

Totale richiamati, 1918-1920

6.707.588

Massimo degli effettivi di tutte le forze armate, novembre 1920

5.427.273

Media degli effettivi di tutte le forze armate, 1918-1920

2.373.137

Perdite irrecuperabili (uccisi, dispersi, prigionieri, morti)

   701.647

Malati e feriti

4.322.241

Media degli effettivi di tutte le forze armate, 1921-1922

1.681.919

Perdite irrecuperabili (uccisi, dispersi, prigionieri, morti)

   237.908

Malati e feriti, 1921-1922

2.469.542

Totale perdite irrecuperabili

   939.755

Totale malati e feriti

6.791.783

Fonte: Krivosheev, Soviet Casualties, pp. 7-39.

Per almeno un aspetto, la tesi di Kraus secondo cui sarebbero stati i reduci a scatenare la guerra civile risulta completamente errata. L’esercito bianco, guidato da anziani generali zaristi, fu sicuramente responsabile di un notevole numero di atrocità contro i civili;  115 e lo stesso vale per le unità dell’esercito rosso, guidate da altrettanto esperti ex ufficiali imperiali (nel complesso, tre quarti dei comandanti superiori dell’Armata rossa erano ex ufficiali zaristi; e tra le «prede» più grosse c’era Brusilov). Comunque, la violenza particolarmente estrema della guerra civile era dovuta in larga misura alla sete di sangue di uomini che non avevano sparato nemmeno un colpo durante la Grande guerra. In particolare, c’è qualcosa di inquietante nel modo in cui Lenin e Trockij si vantavano di avere stabilito nuovi livelli di spietatezza militare: due verbosi intellettuali che avevano osservato la guerra da quella che Dmitri Volkogonov ha chiamato «la grande cerchia degli émigrés russi»;  116 che erano giunti al potere nel 1917 denunciando il governo provvisorio di voler prolungare la guerra, che avevano promesso di portare la pace in Russia, che erano stati pronti a cedere la maggior parte dei possedimenti europei della Russia pur di porre fine alla guerra contro la Germania. Ma Lenin intendeva solo trasformare la guerra imperialista in una guerra civile contro la borghesia del suo stesso paese. Nel perseguire questo obiettivo, e nella loro opposizione agli sforzi delle armate bianche e di altri avversari della rivoluzione, Lenin e Trockij cercarono di risolvere con il terrore il problema della resa e della diserzione che aveva afflitto l’esercito zarista. Sebbene fossero rimasti lontani dai campi di battaglia durante la guerra imperialista, la loro immaginazione – stimolata da una profonda conoscenza della storia della Francia giacobina – si dimostrò più che all’altezza del compito di escogitare nuove regole di guerra, che per brutalità superavano di gran lunga persino quelle che avevano finito per prevalere sul fronte occidentale nel 1917.

Dopo avere reintrodotto la coscrizione nel maggio del 1918, i bolscevichi dovettero affrontare livelli di diserzione maggiori persino di quelli che avevano fatto naufragare lo sforzo bellico zarista. Nel 1920 20.018 uomini disertarono dalla linea del fronte, compresi 59 ufficiali comandanti; ma il tasso di diserzione dei soldati semplici poco dopo la chiamata arrivò fino al 20 per cento. Nel complesso circa 4 milioni di uomini disertarono dall’Armata rossa nel 1921; molti contadini disertori formarono le proprie forze «verdi» per opporsi alla coscrizione.  117 I bolscevichi risposero introducendo una disciplina draconiana: nel dicembre del 1918 fu creata una Commissione centrale temporanea per contrastare la diserzione. Nel 1919, in appena sette mesi, 95.000 uomini furono riconosciuti colpevoli di diserzione in circostanze aggravanti; di questi, 4000 furono condannati a morte e 600 effettivamente fucilati.  118 Nel 1921 in Russia e Ucraina furono giustiziati dai tribunali militari circa 4337 uomini.  119 Fu Trockij a stabilire il ritmo. La sua parola d’ordine era «repressione»: nel novembre del 1918 richiese «punizioni esemplari per i disertori e gli imboscati che stanno paralizzando la volontà della X armata ... Nessuna pietà per i disertori e gli imboscati». E nel 1919 dichiarò: «È impossibile mantenere la disciplina senza una pistola».  120 In caso di diserzione, dovevano essere arrestate anche le famiglie degli ufficiali coinvolti. Soprattutto, fu Trockij che, nel dicembre del 1918, ordinò la creazione di «unità di arresto» armate di mitragliatrici, il cui compito era semplicemente quello di sparare ai soldati che cercavano di ritirarsi dalla linea del fronte. Nacque così la regola fondamentale in base alla quale, se i soldati dell’Armata rossa avanzavano, poteva capitargli di essere colpiti, ma se si davano alla fuga si sarebbero sicuramente presi una fucilata.  121

Quanto a Lenin, forse era ancora più ossessivamente attratto dalle possibilità offerte dal terrore. Nell’agosto del 1918 telegrafò a Trockij: «Forse dovremmo dire ai [comandanti dell’Armata rossa] che da questo momento in poi applicheremo il modello della Rivoluzione francese e metteremo sotto processo e persino giustizieremo i comandanti superiori se si ritirano o falliscono nelle loro azioni». Allo stesso tempo, esortò il capo del partito della città di Saratov a «fucilare i cospiratori e gli indecisi senza chiedere niente a nessuno e senza perdere tempo in stupide lungaggini burocratiche».  122 La lettera che inviò quello stesso mese ai bolscevichi di Penza offre un illuminante spaccato della nuova etica della violenza contro i civili che caratterizzò il periodo della guerra civile:

Compagno! La rivolta dei kulaki [contadini benestanti] nei [tuoi] cinque distretti deve essere schiacciata senza pietà. Lo esige l’interesse dell’intera rivoluzione, perché ormai abbiamo ingaggiato la «battaglia finale e decisiva» contro i kulaki di ogni luogo. Bisogna dare l’esempio. 1) Impicca (e intendo impicca in modo che il popolo possa vederli) non meno di cento noti kulaki, ricchi e sfruttatori. 2) Rendi pubblici i loro nomi. 3) Porta via tutto il loro grano. 4) Identifica degli ostaggi ... Esegui tutto ciò facendo in modo che nel raggio di centinaia di miglia tutt’intorno la genta veda, tremi, sappia e gridi: stanno uccidendo e continueranno a uccidere quelle sanguisughe dei kulaki.
Tuo Lenin
P.S. Trova gente più dura.  123

Sorprendentemente i leader bolscevichi posero fine alle uccisioni di prigionieri: Trockij le proibì esplicitamente con un ordine emanato nel 1919.  124 Ma lo stesso fatto che si dovette emanare un ordine in proposito indica che la pratica di uccidere i Bianchi catturati fosse alquanto diffusa. Nell’agosto di quell’anno il comandante in capo dell’Armata rossa, Sergej S. Kamenev, ordinò di «non prendere prigionieri» quando dovette respingere un attacco dei cosacchi del Don:

Feriti o catturati, gli ufficiali [bianchi] dovevano non soltanto essere finiti e fucilati, ma anche torturati in ogni modo possibile. Gli venivano conficcati chiodi nella schiena, tanti quante erano le stellette sulle loro spalline; gli incidevano medaglie sul petto e galloni sulle gambe. Gli tagliavano i genitali e glieli ficcavano in bocca.  125

Orlando Figes riproduce la foto di un ufficiale polacco, catturato dall’Armata rossa nel 1920, appeso nudo a testa in giù, picchiato a morte.  126 Questo comportamento barbarico può avere avuto effetto contro le armate bianche, poco disciplinate, disperse sul territorio e ridotte di numero; contro i polacchi, invece, non fece che aumentarne la resistenza. La guerra civile fu quindi caratterizzata da un notevole avanzamento delle tattiche del terrore rispetto alla precedente guerra mondiale. La successiva guerra sul fronte orientale sarebbe stata combattuta secondo queste nuove «regole»: morte per i disertori, violenza esemplare contro i civili, nessun quartiere per i prigionieri. Questa era davvero la guerra «totale»: e a Hitler e Stalin, i quali emanarono entrambi ordini di questo tipo, sembrava la logica conclusione che bisognava trarre dalle sconfitte della Germania e della Russia nella prima guerra mondiale. Naturalmente, nulla avrebbe potuto essere meglio calcolato per fare di quella guerra una guerra di violenza senza precedenti, in cui gli uomini di entrambi gli schieramenti combatterono sino alla fine perché non avevano più alcuna alternativa.

Il grido dei morti: La prima guerra mondiale: il più atroce conflitto di ogni tempo
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