Introduzione
JCF
John Gilmour Ferguson aveva appena compiuto sedici anni quando scoppiò la prima guerra mondiale. 1 L’ufficiale reclutatore gli credette – o decise di credergli – quando mentì sulla propria età, ma prima che le procedure formali di arruolamento fossero completate arrivò sua madre e se lo riportò a casa. Se allora quel ragazzo di Fife ebbe paura di perdersi tutta l’azione, la sua preoccupazione era senz’altro ingiustificata. Quando, l’anno successivo, ebbe il permesso di arruolarsi, ogni illusione sul fatto che la guerra sarebbe stata di breve durata era ormai svanita. Dopo il consueto periodo di addestramento fu inviato in trincea come soldato semplice (numero di matricola S/22933) con il 2º battaglione dei Seaforth Highlanders, parte della 26 a brigata della 9 a divisione della Forza di spedizione britannica (British Expeditionary Force, BEF). Era uno dei 557.618 scozzesi che si arruolarono nell’esercito britannico durante la prima guerra mondiale. Di questi, ne morì oltre un quarto, il 26,4 per cento. Soltanto gli eserciti turco e serbo subirono perdite altrettanto gravi. 2
Mio nonno fu tra i fortunati (il 73,6 per cento) che ebbero salva la vita. Fu ferito a una spalla da un cecchino e la pallottola lo avrebbe sicuramente ucciso se lo avesse colpito solo pochi centimetri più in basso. Sopravvisse a un attacco con i gas, anche se i suoi polmoni rimasero irreparabilmente danneggiati. Il suo più vivo ricordo di guerra – o almeno quello che raccontò a suo figlio – fu un attacco sferrato dai tedeschi. Quando le truppe nemiche si lanciarono contro le trincee, lui e i suoi compagni inastarono le baionette e attesero l’ordine di arrampicarsi «oltre la cima». All’ultimo momento, però, l’ordine di muoversi fu dato ai Cameronians, che erano assiepati più in giù rispetto alla linea del fronte. Nello scontro che seguì le perdite furono talmente pesanti che mio nonno avrebbe perso certamente la vita se l’ordine fosse stato impartito ai Seaforth.
Non rimangono molti altri dati sulla guerra di John Ferguson. Come la stragrande maggioranza dei milioni di uomini che combatterono nella prima guerra mondiale non pubblicò né poesie né memorie. Anche le lettere che aveva inviato a casa non sono state conservate. Il suo ruolino di servizio rimane inaccessibile e gli archivi del reggimento non offrono che scarne informazioni. È possibile, per esempio, che abbia partecipato alla battaglia della Somme nel luglio del 1916, nella quale – in appena quattordici giorni di aspri combattimenti a Bois Billion, Carnoy e Longueuil – il suo battaglione, composto da circa settecentocinquanta soldati, registrò la perdita di settanta uomini più altri trecentottantuno feriti o catturati. Forse era presente anche a Eaucourt l’Abbaye tre mesi più tardi, quando le perdite subite dalla brigata ammontarono al 70 per cento nei primi minuti dell’attacco. Forse fu ferito a Saint-Laurent, vicino ad Arras. Fu abbastanza fortunato da non trovarsi a Passchendaele, dove il suo battaglione perse quarantaquattro uomini, mentre altri duecentoquattordici furono feriti o catturati nell’attacco a Zeggars Cappel? O fu proprio lì che venne gassato? Qualche tempo dopo avere subìto queste ferite fu allontanato dalla linea del fronte e gli venne affidato il compito di addestrare le nuove reclute; c’è una fotografia che lo ritrae insieme a un folto gruppo di uomini seduti di fronte a una lavagna sulla quale è disegnata una bomba a mano. Ma il suo ricordo di un grande attacco fa supporre che si sia probabilmente trovato in trincea nella primavera del 1918, quando Ludendorff fece il suo ultimo e inutile tentativo di vincere la guerra. Il 2º battaglione perse più di trecento uomini nel solo mese di marzo, quando fu respinto da Gouzeaucourt. 3
Tutte queste, però, non sono altro che plausibili ipotesi. A parte il suo grado e numero di matricola, la sola prova materiale in mio possesso è una scatola contenente una piccola Bibbia, tre medaglie e alcune sue fotografie in uniforme: un ragazzo in kilt con un volto piuttosto inespressivo. Sulla prima medaglia, la British Medal, è inciso un uomo nudo a cavallo. Dietro il cavaliere c’è la data: 1914; davanti al muso del cavallo, la consueta data della fine della guerra: 1918. Sotto gli zoccoli posteriori c’è un teschio, a quanto sembra sul punto di essere schiacciato (rappresenta un trionfo sulla morte o su qualche sfortunato tedesco?). L’altra faccia della medaglia non si distingue quasi da quella di una vecchia moneta. Porta inciso il profilo regale e la seguente iscrizione:
GEORGIVS V BRITT: OMN: REX ET IND: IMP:
Anche l’immagine incisa sulla Victory Medal è classica. Sul recto è raffigurato un angelo alato, la mano sinistra sollevata e la destra che regge un ramo d’ulivo (ma non è chiaro se rappresenti una donna inglese che accoglie in patria il sopravvissuto o invece l’angelo della morte che gli dà l’estremo saluto). L’iscrizione sul verso (questa volta in inglese) recita:
THE GREAT
WAR FOR
CIVILISATION
1914-1919 4
La terza medaglia di mio nonno è una croce di ferro, souvenir di un soldato tedesco morto o catturato.
Che mio nonno abbia combattuto sul fronte occidentale rappresentava e rappresenta ancora un singolare motivo di orgoglio. Se cerco di analizzare questo orgoglio, mi sembra che nasca dal fatto che la prima guerra mondiale rimane la cosa più spaventosa che la popolazione del mio paese abbia mai dovuto sopportare. Esservi sopravvissuti significava essere stati misteriosamente fortunati. Ma la sopravvivenza sembra suggerire anche una grande capacità di resistenza e di adattamento. La cosa più sorprendente di tutte era il fatto che mio nonno fosse tornato a condurre una vita civile relativamente stabile e (almeno esteriormente) piuttosto soddisfacente. Trovò lavoro in una piccola società di esportazioni e fu inviato a vendere whisky e macchinari in Ecuador. Questa fu l’esperienza più «esotica» che gli capitò. Dopo un paio d’anni tornò in Scozia, si stabilì a Glasgow, si sposò, aprì un’attività di ferramenta, ebbe un figlio e perse la moglie per una malattia; poi si risposò (con mia nonna) ed ebbe un altro figlio, mio padre. Trascorse il resto della sua vita in una casa del comune a Shettleston, un sobborgo orientale di Glasgow, allora dominato da una ferriera gigantesca e maleodorante. Pur avendo ulteriormente aggravato i suoi problemi polmonari con il vizio del fumo (probabilmente un’abitudine acquisita in trincea, dove il tabacco era la droga universale), ebbe la forza di tenere in piedi la sua piccola impresa durante una serie di crisi economiche e visse fino a poter cullare sulle proprie ginocchia i suoi due nipotini, pur ansimando faticosamente. Insomma, sembra essere riuscito a condurre una vita perfettamente normale. In questo, naturalmente, assomigliava alla grande maggioranza degli uomini che combatterono la guerra.
Non me ne parlò molto, ma dopo la sua morte ci pensai a lungo. Era davvero difficile non pensarci. Poco dopo la fine del conflitto, la scuola in cui mi iscrissero i miei genitori, la Glasgow Academy, era stata ufficialmente dedicata alla memoria di coloro che erano morti in guerra. Perciò, dai sei fino ai diciassette anni fui letteralmente educato all’interno di un memoriale di guerra. Ogni mattina, la prima cosa che vedevo quando mi recavo a scuola era una pallida lastra di granito collocata all’angolo di Great Western Road e Colebrooke Terrace, sulla quale erano incisi i nomi degli ex alunni dell’istituto morti in guerra. C’era un analogo «ruolino d’onore» al secondo piano dell’edificio principale, un cavernoso palazzo neoclassico. A volte, spostandoci dalla classe di algebra a quella di latino, ci passavamo proprio davanti. Il corridoio era così stretto che dovevamo disporci in fila indiana, e ogni volta avevo modo di leggere uno dei nomi. Mi sembra che ci fosse almeno un Ferguson, anche se non aveva alcuna parentela con la mia famiglia. E sopra tutti quei nomi di morti, incisi in lettere maiuscole e in grassetto, c’era un’iscrizione che imparai a memoria proprio come il padrenostro che borbottavamo ogni mattina all’adunata:
NON DIRE CHE I CORAGGIOSI MUOIONO 5
Credo che il mio primo serio ragionamento storico sia stata un’obiezione a questa severa ingiunzione. Loro erano morti, invece. Chi lo poteva negare? E, come osservò sarcasticamente John Maynard Keynes, prima o poi moriamo tutti, compresi coloro che avevano avuto la fortuna di sopravvivere alla prima guerra mondiale. È trascorso quasi un secolo dall’armistizio dell’11 novembre 1918, e per la prima guerra mondiale – esattamente come per la guerra di Crimea, la guerra civile americana e la guerra franco-prussiana – non esiste più una memoria storica diretta. Non dire che i coraggiosi muoiono? Uno scolaretto potrebbe anche accettare, senza pensarci troppo, l’audace affermazione secondo cui tutti coloro che sono morti in guerra erano coraggiosi. Ma l’idea che incidere i loro nomi su una lastra di granito li tenesse in qualche modo in vita non era molto convincente.
Naturalmente ho visto in televisione (in film del dopoguerra continuamente ritrasmessi) molte più cose sul secondo conflitto mondiale. Però, forse proprio per questo motivo, la Grande guerra mi è sempre sembrata una cosa assai più seria; ne ero istintivamente convinto prima ancora di sapere che vi era rimasto ucciso il doppio dei britannici morti durante la seconda guerra mondiale. 6 La prima ricerca di storia che mi fu chiesto di scrivere, quando avevo appena dodici anni, fu un «progetto» scolastico. Senza la minima esitazione scelsi come argomento la «guerra di trincea» e presentai due quaderni pieni di fotografie del fronte occidentale che avevo ritagliato da riviste come «Look and Learn», accompagnate da un breve commento, che non ricordo più da dove avevo tratto (non avevo ancora scoperto le note a piè di pagina).
I miei insegnanti incoraggiarono questo interesse. Come tanti alunni della mia generazione, fui introdotto abbastanza presto (avevo quattordici anni) alla poesia di Wilfred Owen; Dulce et decorum est risuona ancora, come una scossa agghiacciante, nella mia mente:
Il gas! Il GAS! Svelti ragazzi! ...
... se potessi sentire il sangue, a ogni sobbalzo,
fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,
osceno come il cancro, amaro come il rigurgito
di disgustose, incurabili piaghe su lingue innocenti –
amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore
la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est
pro patria mori.*
I Memoirs of a Fox-Hunting Man di Siegfried Sassoon erano un testo fondamentale in seconda e in terza. Mi ricordo anche di avere letto Addio a tutto questo di Robert Graves e Addio alle armi di Ernest Hemingway e di avere visto un adattamento televisivo piuttosto ben fatto e non eccessivamente retorico di Testament of Youth di Vera Brittain. Il piccolo schermo mi fece conoscere anche la versione del 1930 di All’ovest niente di nuovo (di Lewis Milestone), di cui rimasi affascinato, e Oh, che bella guerra! di Richard Attenborough, che invece mi irritò per i suoi voluti anacronismi. Ma ciò che più mi colpì fu Dulce et decorum est, così inequivocabilmente rivolta ai maestri di scuola e altrettanto inequivocabilmente dedicata alla morte per asfissia di un ragazzo. Mi sembrava strano che dovessimo impararla a memoria la mattina, solo per indossare le nostre uniformi della Cadet Force e sfilare sul terreno di gioco quello stesso pomeriggio.
Nonostante sia nato circa cinquant’anni dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, questo conflitto ha sempre avuto una profonda influenza su di me, come l’ha avuta su molti altri britannici troppo giovani per averne ricordi diretti. Ma fu un altro incontro con la letteratura prodotta dalla guerra a convincermi, quando ero ancora uno studente universitario, a diventare uno storico. Al Festival di Edimburgo del 1983 assistetti alla rappresentazione del Glasgow Citizens Theatre della commedia Gli ultimi giorni dell’umanità dello scrittore satirico viennese Karl Kraus. Fu senza dubbio l’esperienza teatrale più toccante e potente che avessi mai avuto. Ecco perfettamente raffigurata la prima guerra mondiale come era apparsa, in tutta la sua grottesca assurdità, dalla prospettiva del mordace Nörgler (brontolone) di Kraus, sempre seduto al tavolino di un caffè. Rimasi molto colpito dalla tesi centrale della commedia, secondo la quale la guerra era una specie di gargantuesco evento mediatico che doveva le sue origini e la sua perpetuazione alla distorsione imposta dalla stampa sulla lingua, e di conseguenza sulla realtà. Già allora mi colpì come teoria in anticipo sui tempi, perché, non avendo ancora iniziato a scrivere per i giornali, credevo incondizionatamente nella illimitatezza della loro influenza. Era anche evidente che la critica satirica di Kraus contro la guerra non aveva un corrispondente in lingua inglese. Si dovette aspettare fino agli anni Sessanta perché il mio paese producesse qualcosa del medesimo tipo, e, se confrontata con Gli ultimi giorni dell’umanità, Oh, che bella guerra! appare un’opera rozza e grossolana. Quella sera, mentre uscivo da teatro, presi la decisione di imparare il tedesco, leggere le opere di Kraus in lingua originale e scrivere qualcosa su di lui e sulla guerra.
Un incontro successivo, e in qualche modo meno decisivo, fu quello con Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes, che mi convinse a dedicarmi anche allo studio dell’economia. Il risultato di queste due decisioni fu una tesi di dottorato sul costo economico della guerra – in particolare l’iperinflazione – ad Amburgo, la Glasgow tedesca. Questa tesi, poi riveduta e pubblicata, 7 segnò l’inizio di un decennio di saggi sugli aspetti economici della Grande guerra, sulle sue origini, sul suo svolgimento e sulle sue conseguenze, alcuni dei quali sono apparsi su riviste accademiche mentre altri sono stati presentati a un pubblico ancora più ristretto in conferenze, letture e corsi universitari. 8 Questo libro cerca di trasformare un’ossessione durata una vita intera in qualcosa che sia accessibile a quell’elusiva persona alla quale lo storico ha innanzitutto il dovere di rivolgersi: il lettore comune.
Dieci domande
Ci sono, ovviamente, fin troppi libri sulla prima guerra mondiale. La ragione che mi ha spinto a scriverne un altro non è ripetere quello che altri studiosi hanno già detto. Questo non è in alcun modo un libro di testo. Non contiene una narrazione organica del corso della guerra, che si può facilmente trovare altrove. 9 Né intendo affrontare «gli innumerevoli aspetti della guerra»: 10 inevitabilmente ho dovuto tralasciare molti punti del conflitto e alcuni teatri di guerra. D’altra parte – e a rischio di lasciarmi trascinare in una interdisciplinare terra di nessuno – ho cercato di uscire da quelle che sono oggi le profondissime trincee della specializzazione accademica. In particolare, ho cercato di correlare la storia sociale ed economica in modo più stretto di quanto si faccia di solito nella storia diplomatica e militare. Gli storici militari hanno tradizionalmente avuto la tendenza a discutere le questioni strategiche e tattiche senza prestare adeguata attenzione alle difficoltà economiche con cui i generali dovevano fare i conti, mentre gli storici dell’economia e i sociologi (soprattutto in Germania) trascurano spesso lo svolgimento stesso dei combattimenti, presupponendo, più o meno consapevolmente, che le guerre si decidano sul «fronte interno» piuttosto che sul campo di battaglia. 11 E la maggior parte degli storici tende a studiare la guerra dal punto di vista di un singolo Stato-nazione. Ciò appare estremamente chiaro nei libri dedicati all’impatto letterario della guerra. 12 Ma questa tendenza caratterizza anche molti volumi recenti con saggi e atti di conferenze, che riuniscono senza offrire una sintesi i lavori di diversi specialisti. 13
Il mio metodo è analitico. Sono dieci le domande alle quali cerco di rispondere:
1. La guerra era davvero inevitabile, a causa del militarismo, dell’imperialismo, della diplomazia segreta o della corsa agli armamenti? (capp. I-IV)
2. Perché i leader tedeschi scommisero sulla guerra nel 1914? (cap. V)
3. Perché i leader britannici decisero di intervenire quando scoppiò la guerra sul continente? (cap. VI)
4. La guerra, come si afferma spesso, fu veramente accolta con entusiasmo dalle popolazioni? (cap. VII)
5. La propaganda, e in particolare la stampa, contribuì alla prosecuzione della guerra, come sosteneva Karl Kraus? (cap. VIII)
6. Perché l’enorme superiorità economica dell’Impero britannico non fu sufficiente a sconfiggere le Potenze centrali con maggior rapidità e senza l’intervento degli Stati Uniti? (capp. IX e XI)
7. Perché la superiorità militare dell’esercito tedesco non riuscì a garantire la vittoria sugli eserciti francese e britannico, come la assicurò invece sulla Serbia, la Romania e la Russia? (cap. X)
8. Perché gli uomini continuarono a combattere anche quando, come ci raccontano i poeti di guerra, le condizioni sul campo di battaglia non erano più umanamente sopportabili? (cap. XII)
9. Perché gli uomini smisero di combattere? (cap. XIII)
10. Chi vinse la pace, o meglio, chi finì per pagare la guerra? (cap. XIV)
In via preliminare, e per dimostrare che si possono ancora fornire nuove risposte a tali questioni, vorrei sottolineare la natura contraddittoria delle convinzioni più comunemente diffuse su questo tema per come è stato e viene ricordato. La prima di queste convinzioni è che la guerra fosse orribile. La seconda è che fosse ciononostante inevitabile. È opportuno chiedersi quale sia l’origine di queste idee. Gli storici non devono mai dimenticare che devono davvero poco al mestiere di storico.
Guerra nefasta
La persistenza dell’idea che la guerra fosse «una brutta cosa» è stata in gran parte promossa e garantita dal genere letterario noto come «poesia di guerra» (generalmente nel significato di «contro la guerra»), che negli anni Settanta divenne materia di studio obbligatoria nelle scuole britanniche.
Poesie che rifiutavano il tradizionale stile romantico ed elevato di vittoriani, edoardiani e georgiani – ma non sempre le loro convenzioni formali – iniziarono a essere scritte dai soldati molto prima della fine del conflitto. 14 Siegfried Sassoon scrisse la sua prima «esplicita» poesia sulla guerra, In the Pink, nel febbraio del 1916 15 e ne pubblicò molte altre in The Old Huntsman nel maggio dell’anno successivo. Counter Attack uscì nel 1918, lo stesso anno di The Blood of the Young Men di Richard Aldington («Siamo stanchi di sangue, del sapore e della vista del sangue»). 16 Al momento della sua morte, nel 1918, Owen aveva scritto più di cento poesie, ma fu soltanto dopo la guerra che le sue opere iniziarono a raggiungere un pubblico più vasto. 17 Anche la poesia meno lirica di Edmund Blunden, Third Ypres, fu pubblicata solo dopo la guerra, 18 come Strange Hells di Ivor Gurney. 19
Sebbene l’influenza esercitata dall’espressionismo e dal simbolismo fin-de-siècle sulla poesia continentale sia proseguita anche durante il conflitto, Sassoon e Owen ebbero i loro equivalenti tedeschi in poeti come Wilhelm Klemm, Carl Zuckmayer e Alfred Lichtenstein, quest’ultimo morto nel secondo mese di guerra. Lichtenstein avrebbe potuto affermare a buon diritto di essere stato il primo dei poeti contro la guerra. La sua Gebet vor der Schlacht (Preghiera prima della battaglia) anticipa il cambiamento di stile di Sassoon almeno di un anno e mezzo:
Dio, proteggimi dalla sventura,
Padre, Figlio e Spirito Santo,
fate che le cannonate dell’artigliera non mi colpiscano,
fate che i nostri nemici, quei bastardi,
non mi prendano, non mi sparino,
fate che non muoia nello squallore
per la nostra adorata patria.
Senti, mi piacerebbe vivere più a lungo,
mungere le vacche e scopare le mie amichette
e suonarle a quel pidocchioso di Josef,
ubriacarmi un sacco di volte
fin quando una morte beata non mi porti via.
Senti, offrirò preghiere dal profondo del cuore,
reciterò il rosario sette volte al giorno,
se tu, Dio, nella tua misericordiosa bontà,
sceglierai di uccidere il mio compagno, per esempio Huber
o anche Meier, e mi risparmierai.
Ma immaginiamo che debbano colpirmi,
fa’ che io non sia ferito gravemente.
Mandami soltanto una piccola ferita alla gamba
o un leggero graffio sull’avambraccio
così che io possa tornare a casa come un eroe
con una storia da raccontare.
Peraltro, i versi scritti nel 1917 da Zuckmayer sulla sorte del giovane soldato – fame, uccisioni, pidocchi, alcol, combattimenti e masturbazione – sono molto più brutali di qualsiasi cosa scritta da Owen. 20 La poesia di guerra, quindi, non era una caratteristica esclusivamente inglese, come si è a volte pensato. 21 In Francia, per esempio, c’era Guillaume Apollinaire e in Italia Giuseppe Ungaretti. Una recente raccolta di poesie sulla prima guerra mondiale riunisce oltre cinquanta autori, in rappresentanza di quasi tutte le principali potenze belligeranti; e questa cifra potrebbe indubbiamente aumentare. 22 Come dimostra il successo di questa e di altre raccolte, 23 la poesia di guerra non sembra passare di moda nelle scuole e nelle università.
C’è poi la prosa contro la guerra: i pamphlet, le memorie e i romanzi di guerra, alcuni dei quali così autobiografici da risultare delle autentiche memorie. In realtà, furono autori non direttamente coinvolti nella battaglia ad attaccare per primi la guerra in prosa. George Bernard Shaw trascorse l’inverno del 1914 a esaminare le opere ufficiali di autogiustificazione delle potenze rivali prima di scrivere il suo saggio Common Sense about the War, una combinazione di socialismo e ipocondria tipica dell’autore. Questo libro era stato preceduto da un articolo di giornale in cui Shaw invitava i soldati di entrambi gli schieramenti a «SPARARE AI PROPRI UFFICIALI E TORNARSENE A CASA». 24 Meno assurdo era stato l’articolo pubblicato da Francis Meynell nel dicembre del 1914, intitolato War’s a Crime, nel quale descriveva «l’orrore delle urla, delle mutilazioni e del fetore del campo di battaglia» e «le uccisioni, gli smembramenti e le violenze contro persone innocenti». Peace at Once di Clive Bell, uscito nel 1915, era animato da un tono meno istrionico; Bell condivideva l’opinione di Shaw, secondo il quale la guerra sarebbe servita solo a «pochi capitalisti». 25 Assai più vicino all’azione – aveva assistito alla battaglia della Somme da un osservatorio – Ford Madox Ford descrive attonito «un milione di uomini che marciano l’uno contro l’altro ... in un inferno di terrore». 26
In Gran Bretagna, il primo importante tentativo di esprimere il proprio dissenso in forma narrativa fu Mr. Britling Sees It Through, nel quale H.G. Wells domanda: «Per che cosa abbiamo combattuto? Per che cosa stiamo combattendo? Qualcuno lo sa?». A due anni dal suo inizio, la guerra, sosteneva Wells, era ormai diventata null’altro che «uno spreco e una mostruosa fatica». 27 Due donne – Agnes Hamilton e Rose Allatini – denunciarono ancora più drasticamente la guerra rispettivamente nel 1916 e nel 1918. 28 Scrivendo tra il 1916 e il 1917, David Herbert Lawrence ne deplorò «la violenza, l’ingiustizia e la distruzione» e predisse che «questo diluvio di una pioggia di ferro annienterà completamente il mondo». La guerra aveva «schiacciato il vertice della civiltà europea». 29
Persino i propagandisti mutarono tono non appena il conflitto terminò. In The Realities of War, pubblicato nel 1920, l’ex corrispondente di guerra Philip Gibbs, ritrattando ciò che aveva narrato nei suoi resoconti di guerra, scrisse che c’era stato
un terribile scalco di carne umana che apparteneva ai nostri ragazzi, mentre i vecchi ne ordinavano il sacrificio e i profittatori si arricchivano, e le fiamme dell’odio erano attizzate ai banchetti patriottici e alle riunioni di redazione ... La civiltà moderna naufragò su questi campi spazzati dal fuoco ... [C’era stato] un mostruoso massacro di esseri umani che pregavano lo stesso Dio, amavano gli stessi piaceri della vita e non si odiavano l’uno con l’altro se non quando infiammati e sospinti dai loro governanti, dai loro filosofi e dai loro giornali. Il soldato tedesco malediceva il militarismo che lo aveva fatto precipitare in quell’orrore. Il soldato britannico ... si voltava a osservare le retrovie delle sue linee e vedeva ... la malvagità di una diplomazia segreta che giocava con le vite dei più umili in modo che la guerra potesse prosperare su di loro senza che lo sapessero o lo accettassero, la malvagità di governanti che odiavano il militarismo tedesco ... per la sua stessa potenza, e la malvagità di una follia della mente degli uomini che aveva loro insegnato a considerare la guerra un’avventura gloriosa. 30
Gibbs non era l’unico giornalista a essersi pentito. Per Harold Begbie la guerra era stata «un tale scempio di massacri, una tale anarchia indiscriminata di uccisioni e mutilazioni, una tale oscenità di folli carneficine, quale nessun uomo aveva mai visto fin dall’inizio dei tempi». 31
Come ha dimostrato Samuel Hynes, la narrativa inglese degli anni Venti era piena di cose di questo genere. Christopher Tietjens, il personaggio di Parade’s End di Ford Madox Ford, simboleggia il declino e la caduta dell’élite inglese, tradita dai propri politicanti da strapazzo. 32 Si osserva un’analoga morìa aristocratica in Il cappello verde di Michael Arlen, uscito nel 1924. 33 In La signora Dalloway anche Virginia Woolf ci descrive una vittima di guerra: l’ex soldato suicida Septimus Smith è l’archetipo dell’uomo «che ha subìto di tutto» e per il quale la guerra ha privato il mondo di ogni significato. 34
Ciò che più colpisce è quanto profondamente la tristezza postbellica si sia estesa al di là di Bloomsbury. Persino uno scrittore sciovinista come John Buchan – il cui racconto di guerra Il mantello verde preannunciava il mito di Lawrence d’Arabia – non ne rimase esente. Il personaggio principale di A Prince of the Captivity, uscito nel 1933, è Adam Melfort, un ascetico eroe di guerra che cerca di trovare un modo per impiegare utilmente il suo compulsivo coraggio autoimmolatorio nel mondo postbellico popolato da cosmopoliti e proletari. 35 A quell’epoca Buchan stava ancora cercando di persuadersi che la guerra non era stata inutile. Anche scrittori che non avevano preso parte attiva al conflitto perché troppo giovani si univano alla massa dei suoi critici. Un episodio decisivo in A Scots Quair di Lewis Grassic Gibbon (pubblicato nel 1932-1934) è l’esecuzione di Ewan, marito dell’eroina Chris, per diserzione. 36 Il generale di Cecil Scott Forester, uscito nel 1936, contribuì in modo significativo a diffondere lo stereotipo dell’ufficiale britannico testardo come un mulo. 37
Tuttavia, ben più di tutte queste opere letterarie sono state le testimonianze (spesso in forma seminarrativa) degli ex soldati a esercitare la maggiore influenza. Uno dei primi e più longevi romanzi di un veterano britannico, The Secret Battle di Alan Patrik Herbert, si ispira alla vicenda di Edwin Dyett, un guardiamarina fucilato per codardia: la sua tesi di fondo è che «Harry Penrose» fosse un uomo coraggioso i cui nervi erano rimasti profondamente scossi dall’esposizione prolungata agli orrori del combattimento. 38 Nel 1922 Charles Edward Montague, illustre editorialista del «Guardian» e veterano di guerra, pubblicò le sue polemiche memorie, intitolate Disenchantment (senza dubbio il più influente di tutti i titoli postbellici). «Ora le battaglie non sono più circondate da nessuna aureola», dichiarava Montague, «agli occhi dei giovani [che] ... hanno visto le trincee piene di uomini gassati e i loro amici che facevano la coda alla porta dei bordelli a Béthune.» In questa guerra, diceva con parole che ancora ci colpiscono profondamente, «i leoni pensarono di avere scovato gli asini». 39
Nel 1926, quando Montague pubblicò il romanzo Rough Justice, c’era ormai una vera e propria inondazione di letteratura di guerra, come se ci fosse voluto un decennio perché l’esperienza diventasse comprensibile, o almeno perché si riuscisse a esprimerla. I sette pilastri della saggezza, di Thomas Edward Lawrence, fu pubblicato a spese dell’autore nel 1926 e l’anno successivo uscì una nuova edizione con il titolo Rivolta nel deserto; il 1926 vide anche la pubblicazione di In Retreat di Herbert Read. Seguirono opere di Max Plowman e Ralph Hale Mottram (1927), Blunden, Sassoon ed E.E. Cummings (nel 1928), Richard Aldington, Charles Edmonds, Frederic Manning e Robert Graves (nel 1929), e nel 1930, anno di massima abbondanza, di Sassoon, Manning, Henry Williamson, Richard Blaker e Liam O’Flaherty. 40 L’amara frase di Sassoon – «la guerrra era uno sporco tiro che avevano giocato a me e alla mia generazione» – è una delle tante che si potrebbero citare dai libri di quel periodo.
Analoghe condanne riecheggiarono altrove. Il fuoco di Henri Barbusse – uscito nel 1916, vendette trecentomila copie entro la fine della guerra – fu una precoce espressione del disgusto dei francesi per le battaglie sul fronte occidentale, superato soltanto dai dilanianti primi capitoli della sua antitesi politica, il Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, pubblicato nel 1932. 41 Nel 1936 Roger Martin du Gard pubblicò L’estate del 1914, ultimo volume della sua ampia saga dinastica intitolata I Thibault, nella quale Jacques Thibault muore cercando di lanciare volantini pacifisti sulle truppe francesi e tedesche nell’agosto del 1914. Nello stesso anno in cui fu pubblicato il libro, l’autore scrisse a un amico: «Qualsiasi cosa, ma non la guerra! Qualsiasi cosa! ... Niente, nessun martirio, nessuna servitù possono essere paragonati alla guerra». 42
Come noto, la Germania partorì il più famoso di tutti i romanzi contro la guerra, Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich Maria Remarque, un libro ancor oggi agghiacciante, uscito nel 1929, che vendette una quantità davvero sbalorditiva di copie nelle traduzioni inglese e francese. Ma Remarque non era il solo scrittore contrario alla guerra nell’epoca di Weimar. Analoghi sentimenti furono espressi da Ludwig Renn in La guerra, pubblicato l’anno precedente; in Austria uscirono Uomini in guerra di Andreas Latzko (1917) e La questione del sergente Grischa di Arnold Zweig (1928). A Vienna fu pubblicata anche la più brillante critica sulla guerra scritta per il palcoscenico: Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, iniziata nel 1921 e uscita in forma definitiva nel maggio del 1922. 43 Anche gli americani avevano amari ricordi. Per il pilota statunitense Elliot White Springs la guerra era «un’inutile [e] grottesca commedia». 44
Il ricordo di una guerra nefasta sopravvive anche nelle lugubri immagini dei dipinti. Secondo Paul Nash, i suoi spettrali e fangosi paesaggi, come The Menin Road (1919), dovevano «privare della parola gli uomini che combattono e restituirla a coloro che vogliono andare d’accordo per sempre ... e che possa bruciare le loro ignobili anime». 45 Fu la sua breve e traumatica carriera militare a trasformare lo stile artistico di Max Beckmann, mutamento prefigurato dai suoi commoventi disegni di soldati feriti, tracciati con una tecnica simile a quella di alcuni meno noti camoufleurs francesi. 46 Anche l’opera di George Grosz fu influenzata dalla sua esperienza di volontario (finì ricoverato in un ospedale psichiatrico). La sua grottesca vignetta intitolata I guaritori (del 1918) raffigura un medico militare che considera KV (kriegsdienstverwendungsfähig, vale a dire idoneo al servizio attivo) uno scheletro. I quadri dell’avanguardia ispirati alla guerra sono scioccanti ancora oggi. Che cosa ci potrebbe essere di più spaventoso dell’Inferno di Georges Leroux (1917-1918), con i suoi poilus con la maschera antigas e i cadaveri semisepolti, a malapena visibili in un paesaggio di fango, acqua e fumo nero? 47 Che cosa potrebbe esserci di più straziante delle Madri di Max Slevogt, un’infinita colonna di donne che piangono su una sterminata fossa piena di morti? 48
Nulla illustra in modo più chiaro la persistente visione della prima guerra mondiale come male assoluto della recente narrativa britannica da essa ispirata. L’esempio più illuminante è offerto dalla trilogia pubblicata da Pat Barker negli anni Novanta: Regeneration, The Eye in the Door e The Ghost Road. In sostanza, Barker ci racconta la storia di Sassoon e dello psicologo William Halse Rivers in un linguaggio più accessibile a un pubblico moderno di quello usato dallo stesso Sassoon in Sherston’s Progress, utilizzando il personaggio fittizio di Billy Prior – bisessuale, cinico, appartenente alla classe operaia – per «aggiornare» la storia. Il sesso è ciò che la letteratura originale di guerra ha di solito omesso, a causa degli scrupoli degli stessi autori o della censura; e il sesso è proprio ciò che offre Billy Prior. Per lo storico, questo personaggio risulta sospettosamente anacronistico; ma, senza dubbio, è anche la chiave del successo del romanzo. Non c’è nemmeno bisogno di dire che odia la guerra, anche se non molto di più di quanto odi se stesso.
L’opinione di Barker sulla guerra è espressa chiaramente in The Ghost Road, attraverso una discussione tra quattro ufficiali (uno dei quali è Wilfred Owen) durante una tregua dei combattimenti. Il primo, un laureato di Manchester di nome Potts, sostiene la tesi, squisitamente fabiana, che la guerra «arricchiva le reti dei profittatori». Hallet – «che proveniva da una vecchia famiglia di militari ed era stato educato con estrema cura e grandi spese a pensare il meno possibile» – risponde: «Noi stiamo combattendo in difesa della neutralità del Belgio. Noi stiamo combattendo per l’indipendenza francese ... questa è ancora una guerra giusta». Ma le sue parole sono pronunciate «come da un ragazzino, con tono d’implorazione», e naturalmente è Billy che la sa più lunga: «Non è rimasto più alcun tipo di autogiustificazione razionale. È diventato un sistema che si riproduce da solo. Nessuno ne trae vantaggio. Nessuno lo controlla. Nessuno sa come fermarlo». Alla fine Hallet si dichiara d’accordo. Moribondo sul suo letto di morte, con il volto deturpato da un proiettile, le sue parole a malapena intelleggibili riassumono perfettamente la situazione: «Shotvarfet ... Non ne vale la pena». Come per ribadire la cosa, anche gli altri feriti ricoverati in corsia si uniscono cantando in coro «Shotvarfet», in «un ronzio di protesta non contro il grido, ma in suo sostegno». Persino Rivers – l’uomo che aveva convinto Sassoon, Owen e Prior a tornare al fronte, dove due di loro perderanno la vita – si sente obbligato a unirsi al coro. 49
Altrettanto successo ha ottenuto il romanzo Il canto del cielo di Sebastian Faulks, uscito nel 1994, che inizia con un’idilliaca storia d’amore in Francia prima della guerra. Quando il protagonista, Stephen Wraysford, vi ritorna da soldato nel 1916, i luoghi della sua felicità e persino l’oggetto del suo desiderio sono stati deturpati dai bombardamenti. Lui stesso prova in prima persona l’orrore di rimanere intrappolato in uno di quei cunicoli scavati per collocare esplosivi sotto le postazioni tedesche. Il pathos dickensiano è garantito da Jack, un minatore disperato, con un figlio malato destinato a morire prima di lui. Anche in questo caso il protagonista del romanzo ha fin dall’inizio un’opinione piuttosto negativa sulla guerra. «Era stato rimproverato dal comandante della compagnia», scrive Faulks, «per avere detto a un soldato che la guerra sarebbe diventata molto peggiore prima che ci fosse la possibilità che migliorasse»:
Dapprima credette che si poteva combattere la guerra e concluderla rapidamente nel modo tradizionale. Poi osservò la mitragliatrice che scaricava proiettili sulle file della fanteria tedesca che avanzava ... Gli sembrò una grande violazione della natura che nessuno aveva il potere di arrestare ... Giunse a pensare che il peggio doveva ancora arrivare ... Detestò la guerra. 50
Non è dagli storici che la maggior parte dei lettori contemporanei trae le proprie impressioni sulla prima guerra mondiale, ma da libri come quelli appena citati e, naturalmente, da giornali, televisione, teatro e cinema. Ho già menzionato Oh, che bella guerra! – rappresentata per la prima volta dal Theatre Workshop nel 1963 – con il suo tipico «messaggio per gli anni Sessanta», ossia che le guerre potevano sempre scoppiare fintantoché il potere fosse rimasto nelle mani degli imbecilli delle classi superiori. 51 Gli anni spezzati, il film di Peter Weir su Gallipoli, ha un tematica analoga e contrappone l’idealismo degli australiani all’idiozia degli inglesi. Anche i documentari televisivi hanno avuto una certa influenza: sia la serie in ventisei puntate The Great War (trasmessa per la prima volta nel 1964 alla BBC2) sia la più recente 1914-1918 sono state seguite da un vasto pubblico. Sebbene per molti aspetti la prima serie intendesse spiegare la guerra anziché condannarla, molti spettatori sembrano essere rimasti sordi al commento, permettendo invece ai tetri spezzoni d’archivio di rafforzare l’opinione ormai radicata sugli «orrori della guerra di trincea» e «l’inutile e spaventoso massacro di persone innocenti». 52 Al confronto, 1914-1918 è rimasta più legata al solco tradizionale, concentrandosi sulla storia culturale della guerra come era stata «sopportata da milioni di uomini e donne comuni». 53 E così l’immagine di una guerra nefasta e futile viene ripetuta all’infinito. Persino un serial come Blackadder Goes Forth, di Rowan Atkinson, contribuisce a rafforzare il ricordo popolare di una leadership testarda e ottusa.
E non basta. Ogni anno migliaia di persone si recano a visitare i campi di battaglia del fronte occidentale per «vedere con i propri occhi»; una curiosa combinazione tra un pellegrinaggio e il turismo puro e semplice, che iniziò quasi immediatamente dopo la fine delle ostilità. 54 Ciò che vedono, naturalmente, non è quel che videro i soldati che presero parte ai combattimenti. Vedono i grandi cimiteri di forma geometrica progettati da Sir Edwin Lutyens e da altri dopo la guerra e la campagna ormai in larga misura recuperata alle coltivazioni: un panorama che oggi può apparire tragico soltanto con l’aiuto delle guide ai campi di battaglia. 55
Dato questo sfondo, non sorprende che, sebbene sia terminata quasi un secolo fa, la Grande guerra mantenga per molti versi una certa contemporaneità; diversamente da molti conflitti più recenti (come quello coreano, per fare solo un esempio) è ancora in grado di fare notizia. La questione delle esecuzioni per codardia continua a essere discussa pubblicamente in Gran Bretagna; anzi, vi sono vere e proprie campagne affinché queste esecuzioni vengano perdonate. 56 Mentre scrivevo questo libro, nel giro di appena un mese sono apparsi nei giornali britannici tre articoli sulla prima guerra mondiale: il primo sulla «striscia di morte», a quanto pare allestita dai tedeschi durante la guerra per separare il Belgio occupato dall’Olanda; il secondo sulle carte personali di Ellis Ashmead-Bartlett, «l’uomo che cercò di avvertire Asquith degli errori commessi dagli inglesi» a Gallipoli; e il terzo sulla sepoltura con onori militari di due soldati inglesi, i cui resti erano stati scoperti da alcuni archeologi nei pressi di Monchy-le-Preux. I commenti rilasciati da uno dei loro parenti sono rivelatori: «Non riesco assolutamente a comprendere come sia stata possibile questa guerra. Come possano degli uomini essere trattati alla stregua di carne da cannone su una scala di simili proporzioni va al di là della mia comprensione». 57
Guerra necessaria?
Uno storico ha contribuito più di tutti gli altri a dare rispettabilità accademica all’idea della malvagità della Grande guerra. La prima guerra mondiale illustrata di Alan John Percivale Taylor, pubblicata per la prima volta nel 1963, rimane l’opera più riuscita su questo argomento. Alla fine degli anni Ottanta aveva già venduto almeno duecentocinquantamila copie. 58 È stato uno dei primi libri di storia per adulti che ho letto da ragazzo; anzi, credo di avere visto per la prima volta un cadavere osservando la fotografia del corpo spaventosamente decomposto di un soldato. Quello di Taylor era uno studio sulla follia e l’inutilità: «Gli uomini di Stato erano sopraffatti dall’immensità degli eventi. Anche i generali lo erano ... Tutti annaspavano più o meno vanamente. Nessuno si domandò perché si combattesse quella guerra. I tedeschi avevano iniziato la guerra allo scopo di vincerla; gli Alleati la combatterono per non perderla ... Vincere la guerra era il fine ultimo». 59 Questa guerra senza scopo fu inoltre condotta in modo inetto e con grandi sprechi: Verdun venne contesa «letteralmente al solo scopo di combattere». La terza Ypres fu «il massacro più folle di una guerra folle». Taylor non era certo un sentimentale, ma proprio il suo stile aspro – addirittura faceto – faceva da contrappeso ai resoconti più emotivi di un certo numero di storici di altrettanto piacevole lettura che avevano pubblicato le proprie opere prima di lui: Leon Wolff, Barbara Tuchman, Alan Clark e Alistair Horne. 60 Scrivendo nell’epoca in cui uscivano questi libri, Robert Kee tuonava contro «il gigantesco imbroglio grazie al quale politici e generali diventarono più ricchi e potenti a spese di milioni di uomini coraggiosi spediti all’inferno ... per certi versi in modo analogo ai campi di concentramento di cui la Germania nazista non poteva fare a meno». 61 Questa passione non si è esaurita con il passare degli anni. Combinando i ricordi dei veterani e l’indignazione dello stesso autore, i libri di Lyn Macdonald sui momenti fondamentali della guerra sul fronte occidentale hanno rafforzato l’idea che la guerra fosse un puro inferno e i soldati le sue vittime. 62 John Laffin continua a definire «macellai e pasticcioni» i generali britannici. 63
È tuttavia opportuno riconoscere che queste restano le opinioni di una minoranza. In realtà, un numero sorprendentemente alto di storici ha insistito – e continua a insistere – sul fatto che la prima guerra mondiale non fu «insensata». Se ha avuto un aspetto malefico, è stato comunque un male necessario.
Naturalmente, fin da subito si è tentato di giustificare il conflitto. I diversi governi belligeranti si sono affrettati a rendere pubbliche le proprie spiegazioni ufficiali sullo scoppio della guerra in libri di varie tonalità di colore: il Libro Grigio belga, il Libro Rosso austriaco, il Libro Nero russo e il Libro Bianco tedesco. 64 Anche giornali e case editrici si precipitarono a giustificare la guerra. Nella sola Gran Bretagna, prima della fine del 1915, erano già state pubblicate almeno sette storie a puntate sul «Times» e sul «Guardian», nonché storie «a caldo» di autori affermati come John Buchan, Sir Arthur Conan Doyle, William Le Queux e persino Edgar Wallace. Prima della fine della guerra Buchan era riuscito a sfornare non meno di ventiquattro volumi, più di quanti fosse riuscito a pubblicarne il «Times» (al secondo posto con ventuno volumi). 65 Tutti questi libri sono accomunati da una fiducia incrollabile nella giustezza della causa britannica.
Lo stesso si può dire delle storie ufficiali pubblicate dopo il conflitto. Non è possibile in questo contesto dare conto della varietà e quantità di tali opere. In Inghilterra l’impresa più monumentale fu quella di Sir James Edmonds, in quattordici volumi, dedicata alla guerra sul fronte occidentale. 66 Per i vincitori era piuttosto facile giustificare la guerra. Per quanto riguarda gli inglesi, la Germania aveva rappresentato una minaccia per l’impero, e l’impero aveva risposto con successo alla sfida. Nelle condizioni ben diverse derivanti dalla sconfitta e dalla rivoluzione, la cosa si faceva alquanto più difficile. Ciononostante, l’opera in quattordici volumi pubblicata dal Reichsarchiv e intitolata Der Weltkrieg (La guerra mondiale) sfoggia un cocciuto orgoglio per il successo operativo dei tedeschi: non è un caso che l’ultimo volume sia stato pubblicato soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale. 67
Meno smaccatamente apologetiche, per la loro stessa natura, erano le raccolte di documenti pubblicate dopo il 1918. In Russia, naturalmente, il governo bolscevico non esitò a incensare la propria posizione nei documenti che pubblicava: qui la guerra era presentata come un atto di autoimmolazione imperialista. 68 Sostanzialmente simile nella sua prospettiva politica era la raccolta di documenti pubblicati dal socialdemocratico tedesco Karl Kautsky e alcuni suoi collaboratori. 69 Più ambivalente fu l’opera dell’Assemblea nazionale e della Commissione d’inchiesta del Reichstag sulle cause del collasso tedesco, che forniva ai leader della Germania prerivoluzionaria la possibilità di rispondere a domande insidiose. 70 I tedeschi, comunque, stabilirono un nuovo modello di riferimento con la monumentale Die Grosse Politik der europäischen Kabinette (La grande politica dei governi d’Europa: quaranta volumi in cinquantaquattro tomi, pubblicati fra il 1922 e il 1927, riguardanti il periodo 1871-1914). Concepita inizialmente come risposta alla clausola sulla «colpa della guerra» contenuta nel trattato di Versailles, e abilmente selettiva nella scelta dei documenti per mettere in buona luce il regime tedesco anteriore al 1918, quest’opera era e rimane il punto di partenza essenziale per gli storici della diplomazia. 71 Il suo successo costrinse la Gran Bretagna e la Francia a rispondere rispettivamente con gli undici volumi di documenti del Foreign Office curati da George Peabody Gooch e Harold Temperley, intitolati British Documents on the Origins of the War, 1898-1914 (pubblicati tra il 1926 e il 1938) 72 e i Documents diplomatiques français, la cui pubblicazione richiese tempi più lunghi (uscirono tra il 1929 e il 1959). 73
Ci sono poi le memorie dei leader dell’epoca; in questo caso lo sforzo di giustificazione appare più facilmente individuabile. I «pezzi grossi» non persero tempo a pubblicare le loro memorie. Sir John French pubblicò 1914 appena un anno dopo l’armistizio. Gallipoli Diary di Sir Ian Hamilton uscì nel 1920, mentre Soldiers and Statesmen di Sir William Robertson arrivò sugli scaffali delle librerie sei anni più tardi. 74 Sul versante tedesco, Ludendorff e Tirpitz pubblicarono i propri scritti già nel 1919, seguiti nel 1920 da Falkenhayn. 75 I politici, avendo meno tempo a disposizione dei militari, non furono di solito altrettanto veloci. L’ex cancelliere tedesco Theobald von Bethmann Hollweg aveva più che valide ragioni per cercare di giustificarsi rapidamente: il suo Betrachtungen zum Weltkriege (Riflessioni sulla guerra mondiale) era disponibile in traduzione inglese già nel 1920. 76 Il Kaiser pubblicò nel 1922 le sue memorie, nelle quali ribadiva che le potenze dell’Intesa avevano scatenato una guerra di aggressione premeditata contro una Germania innocente. 77 Winston Churchill pubblicò il primo volume di La crisi mondiale in quello stesso anno. Asquith pubblicò The Genesis of the War nel 1923, seguito nel 1928 da Memories and Reflections; Sir Edward Grey (ora visconte Grey di Falloden) pubblicò Twenty-Five Years nel 1925 e Lord Beaverbrook diede alle stampe Politicians and the War nel 1928. 78 Chiude l’elenco David Lloyd George con Memorie di guerra, pubblicate in sei volumi fra il 1933 e il 1936. 79
Ben pochi di questi autori osarono negare che la guerra fosse stata orribile; ma praticamente tutti sottolinearono con forza il fatto che fosse stata inevitabile. Anzi, il giudizio più frequentemente espresso dai politici britannici fu che la guerra era stata l’esito dell’azione di forze storiche talmente vaste che nessun fattore umano avrebbe potuto impedirla. «Le nazioni precipitarono nel calderone ribollente della guerra», scriveva Lloyd George in un celebre passo delle sue Memorie di guerra. E non era certo l’unica metafora utilizzata per comunicare il senso delle gigantesche forze impersonali che avevano condizionato gli eventi. La guerra era un «cataclisma», un «tifone» al di là delle possibilità di controllo degli uomini di Stato. Quando il Big Ben scoccò «l’ora fatale» del 4 agosto, «riecheggiò nelle nostre orecchie come il martello del destino ... Mi sentivo come un uomo che si trovasse su un pianeta strappato improvvisamente dalla sua orbita ... e roteante follemente nell’ignoto». 80 Churchill ricorse alla stessa immagine astronomica in Crisi mondiale:
Bisogna pensare ai rapporti tra le nazioni in quei giorni come a prodigiose organizzazioni di forze ... che, come corpi planetari, non potevano avvicinarsi nello spazio senza ... scatenare profonde reazioni magnetiche. Se si avvicinavano troppo ai bagliori di luce avrebbero cominciato a folgorare, e al di là di un certo punto avrebbero potuto essere attratte irresistibilmente fuori dalla propria orbita ... erano in rotta di collisione e si attiravano reciprocamente. 81
Anche le metafore climatiche erano molto in voga. Churchill ricordava «una strana atmosfera nell’aria», mentre Grey attribuiva parte della colpa a un’«aria miserabile e malsana» che circolava dappertutto. Fatto interessante, uno sconosciuto veterano di guerra tedesco usò sostanzialmente lo stesso linguaggio nelle sue memorie:
Quel che da ragazzo mi era apparso come una lunga malattia, ora mi sembrò essere la quiete prima della tempesta ... I Balcani erano immersi in quella plumbea calura che di solito annuncia l’uragano e di tanto in tanto appariva un raggio di luce più brillante ... Ma poi ci fu la guerra balcanica e con essa le prime raffiche di vento percorsero un’Europa sempre più nervosa. Il tempo che ora era seguito pesava sui petti degli uomini come un grande incubo, soffocante come le febbri dei climi tropicali, tanto che a causa dell’ansia costante il senso dell’incombente catastrofe diventò infine un desiderio: che il cielo lasciasse libero di agire un destino che non si poteva più evitare. E poi, il primo possente lampo colpì la terra; la tempesta si era scatenata e al tuono del cielo si mescolava il ruggito delle batterie della guerra mondiale. 82
Così si legge nel terzo capitolo di Mein Kampf di Adolf Hitler.
Per i politici che avevano fatto la guerra – anziché (come nel caso di Hitler) essere stati creati da essa – il fascino esercitato da tutte queste immagini di catastrofi naturali si spiega molto facilmente. In un’epoca in cui la guerra era ormai considerata la più grande calamità dei tempi moderni, queste immagini servivano a illustrare efficacemente ciò che affermavano i politici, ossia che era stato al di là dei loro poteri impedirne la deflagrazione. Grey affermava esplicitamente che la guerra era stata «inevitabile». 83 Di fatto, aveva espresso questo giudizio già nel maggio del 1915, quando aveva ammesso che, durante la crisi di luglio, aveva avuto la «netta impressione» di «non avere il potere di decidere il corso della politica». 84 E nell’aprile del 1918 dichiarò: «Mi arrovellavo continuamente chiedendomi se con maggiore lungimiranza o saggezza avrei potuto impedire la guerra, ma sono giunto alla conclusione che nessun essere umano avrebbe potuto impedirla». 85 Bethmann Hollweg aveva usato parole simili appena due mesi prima: «Mi chiedo sempre se si sarebbe potuto evitarla e che cosa avrei dovuto fare di diverso». 86 È inutile dire che non gli era venuto in mente nulla.
Alcuni storici continuano a prediligere l’immagine di profonde forze naturali che spingono nell’abisso le grandi potenze. Eric Hobsbawm ha paragonato lo scoppio della guerra a un incendio e a un temporale; Corelli Barnett ha paragonato il governo britannico a «un uomo in un barile che sta per precipitare nelle cascate del Niagara», mentre Norman Davies ha descritto la guerra come un terremoto provocato dallo slittamento di una zolla continentale. 87
Ovviamente, è possibile presentare la guerra come una calamità naturale anche senza ricorrere a immagini di questo tipo. I darwinisti sociali classici condividevano la tesi dell’ex capo dello stato maggiore generale austriaco Franz Conrad von Hötzendorf, secondo il quale «la catastrofe della guerra mondiale si è prodotta in modo quasi inevitabile e irresistibile» a causa del «grande principio» della lotta per la sopravvivenza. 88 Alcuni storici tedeschi del periodo fra le due guerre si lasciarono tentare dall’interpretazione geopolitica secondo la quale la Germania, un’autentica «terra di mezzo», era particolarmente esposta all’accerchiamento e pertanto condannata a scegliere tra le «concessioni» bismarckiane o una guerra preventiva di stile guglielmino. 89 Anche storici non tedeschi sostennero teorie impersonali o sistematiche. L’americano Sidney Fay riprese la tesi del presidente Woodrow Wilson, secondo cui la guerra era la conseguenza dei difetti del sistema internazionale (alleanze segrete ma contrattualmente vincolanti, cui si aggiungeva l’assenza di meccanismi di arbitrato indipendenti). 90 Altri accolsero la convinzione leninista secondo la quale la guerra era il risultato di rivalità economiche imperialiste scaricate sui lavoratori europei da interessi capitalistici: un drastico rovesciamento delle tesi prebelliche sostenute da uomini di sinistra come Karl Kraus e John A. Hobson, secondo i quali i capitalisti erano troppo astuti per desiderare la propria autodistruzione. 91 Questo approccio – che si condensò in un dogma intoccabile nella storiografia della Repubblica democratica tedesca – ha tuttora alcuni sostenitori. 92
In seguito, all’indomani di una seconda conflagrazione globale, quando il mondo sembrò sull’orlo di una terza e definitiva guerra, si affermò la tesi (anche in questo caso diffusa in Gran Bretagna da Taylor) secondo la quale i piani escogitati dagli stati maggiori generali in risposta ai mutamenti tecnologici rendevano una guerra «in base all’orario» non più arrestabile una volta oltrepassato un certo punto: «Tutti rimasero intrappolati dall’ingegnosità dei loro preparativi». 93 Arno Mayer, sulla scorta dell’esempio tedesco, cercò di giungere a una generalizzazione suggerendo che la guerra era stata provocata da pressioni politiche interne a tutti i maggiori paesi belligeranti, determinatesi quando le élite aristocratiche tentarono di neutralizzare le minacce della democrazia e del socialismo stringendo un patto diabolico con il nazionalismo radicale. 94 C’è persino una spiegazione demografica della guerra, secondo la quale essa «servì ad attenuare il sovrappopolamento rurale». 95 Non manca infine un’interpretazione puramente culturale, in base alla quale la guerra fu l’esito di un complesso di idee: «nazionalismo», «irrazionalismo», «militarismo» e via dicendo. 96 In realtà, queste idee erano state preannunciate niente di meno che da Bethmann Hollweg già nell’agosto del 1914: «L’imperialismo, il nazionalismo e il materialismo economico, che durante l’ultima generazione hanno determinato le linee orientative della politica di ogni nazione, hanno stabilito degli obiettivi che potevano essere raggiunti solo al prezzo di una conflagrazione generale». 97
Secondo Bethmann Hollweg, tormentato dal dilemma se «si sarebbe potuto evitare o no» la guerra, c’era una sola conclusione accettabile: la colpa era di tutte le nazioni. Ma aggiungeva: «Anche la Germania ha una larga parte di responsabilità». 98 Al contrario, secondo una tesi alternativa e assai influente, la prima guerra mondiale era stata inevitabile proprio a causa del comportamento dei leader tedeschi, Bethmann Hollweg compreso.
Nelle loro memorie molti politici britannici hanno mostrato la tendenza a sostenere, come già avevano fatto nell’agosto del 1914, che la Gran Bretagna avesse avuto l’obbligo morale e contrattuale di difendere la neutralità del Belgio dall’aggressione tedesca. Come disse Asquith, usando il linguaggio dei campi sportivi delle scuole private: «Non è possibile per uomini del nostro lignaggio e della nostra storia rimanere inerti ... mentre un grosso bullo sta per scaraventare a terra e pestare una vittima che non lo ha minimamente provocato». 99 Lloyd George era d’accordo con lui. 100 Da allora la tesi che l’intervento britannico nella Grande guerra fosse stato reso inevitabile dalla violazione della neutralità del Belgio è stata continuamente ribadita dagli storici. 101
Tuttavia, c’era un’altra tesi ancora più importante, almeno a giudizio di Grey e Churchill, ossia che la Gran Bretagna «non poteva, per la sua stessa salvezza e indipendenza, permettere che la Francia fosse sconfitta da un atto d’aggressione della Germania». 102 Secondo Churchill, un «tiranno continentale» mirava al «dominio del mondo». 103 Nelle sue memorie Grey accoglieva entrambe le tesi. «Il nostro intervento in guerra, immediato e compatto», scrive, «fu causato dall’invasione del Belgio»; 104 «ma la mia sensazione istintiva era che dovessimo accorrere in aiuto della Francia.» 105 Se la Gran Bretagna fosse rimasta in disparte, «la Germania ... avrebbe dominato tutta l’Europa e l’Asia Minore, perché i turchi si sarebbero schierati al fianco di una Germania vittoriosa». 106
Restare in disparte avrebbe significato il dominio della Germania, la sottomissione della Francia e della Russia, l’isolamento della Gran Bretagna, l’odio nei confronti di quest’ultimo paese sia da parte di chi ne aveva temuto l’intervento sia da parte di chi lo aveva desiderato e, in ultima analisi, il predominio assoluto della Germania sul continente. 107
Secondo Keith M. Wilson questa ragione egoistica era molto più importante del destino del Belgio, che il governo aveva sbandierato sostanzialmente per placare gli scrupoli di ministri di gabinetto tentennanti e per tenere a bada l’opposizione. Più di ogni altra cosa, la guerra fu combattuta perché era nell’interesse della Gran Bretagna difendere la Francia e la Russia e impedire «il consolidamento dell’Europa sotto un unico regime potenzialmente ostile». 108 David French sostiene una tesi simile, 109 come fanno d’altra parte anche molte recenti opere di sintesi, 110 nonché Paul Kennedy nella sua opera L’antagonismo anglo-tedesco. 111 Secondo Trevor Wilson, la Germania «aspirava a un’egemonia europea incompatibile con l’indipendenza della Gran Bretagna». 112
Probabilmente non c’è da stupirsi che gli storici britannici abbiano sposato questa tesi. All’epoca, la giustificazione più comunemente offerta per l’intervento in guerra era la necessità di sconfiggere il militarismo prussiano e la sua «inquietante» minaccia, come le atrocità perpetrate dall’esercito tedesco sulla popolazione civile belga avevano perfettamente dimostrato. Era, questa, un’argomentazione che ben si adattava agli orientamenti tanto dei liberali quanto dei conservatori e dei socialisti e che si poteva conciliare con l’avversione nei confronti della carneficina provocata dalla guerra. Ma l’idea che si dovesse fermare la Germania non avrebbe certamente goduto di grande longevità se negli anni Sessanta non avesse ottenuto anche l’inaspettato appoggio di alcuni studiosi tedeschi. La pubblicazione nel 1961 di Assalto al potere mondiale, l’importante saggio di Fritz Fischer, fu un profondo shock per gli storici tedeschi più conservatori, perché affermava che gli obiettivi bellici della Germania nella prima guerra mondiale non erano molto diversi da quelli perseguiti da Hitler nella seconda. 113 Per i lettori britannici si trattava semplicemente della conferma di una vecchissima ipotesi, secondo la quale la Germania guglielmina aspirava effettivamente a un «potere mondiale», che poteva conquistare solo a scapito della Gran Bretagna. Ma per gli storici tedeschi la «tesi della continuità» non solo sembrava far rivivere la clausola della «colpa della guerra» sancita dal trattato di Versailles, ma, cosa ben più grave, rafforzava l’assioma secondo cui gli anni 1933-1945, lungi dall’essere un’aberrazione nella storia moderna della Germania, erano semplicemente il culmine di una deviazione profondamente radicata da un certo tipo di norma anglo-americana. 114 Alles war falsch: era stato tutto sbagliato, compreso il Reich di Bismarck. Questa tesi era avvalorata da documenti che Fischer aveva scovato in quelli che erano allora gli archivi della Germania orientale a Potsdam, e inizialmente ad alcuni critici occidentali sembrò che Fischer si richiamasse alla linea marxista-leninista. Ma la sua ricerca esercitò un fascino ancora maggiore su una più giovane generazione di storici della Germania occidentale, che vi riconobbero una conferma postuma delle idee sostenute negli anni Venti da Eckart Kehr sui difetti del Reich prima del 1914. Lo stesso Fischer seguì la pista tracciata da questi giovani studiosi collegando la politica estera espansionistica della Germania alla sua politica interna: l’eccessiva influenza di un’aristocrazia reazionaria, gli Junker a est dell’Elba, e degli industriali antisocialisti della Ruhr. Kehr riteneva che gli errori della politica estera guglielmina prima del 1914 fossero stati causati dalla priorità assegnata ai ristretti interessi economici di questi due gruppi; 115 ora diventava possibile estendere questa tesi alla stessa guerra.
Si potevano criticare le opinioni di Fischer su alcuni aspetti specifici e certe particolari interpretazioni. Esisteva davvero, come Fischer aveva cercato di dimostrare in Krieg der Illusionen (Guerra delle illusioni), un piano di guerra risalente addirittura al dicembre del 1912, fondato sulla convinzione che ci si potesse assicurare la neutralità britannica in una guerra di conquista contro la Russia e la Francia? 116 Oppure Bethmann Hollweg stava correndo una sorta di «rischio calcolato», scommettendo su un conflitto localizzato per mantenere la «libertà d’azione» del Reich, se non per salvaguardare lo stesso Reich? 117 O, in alternativa, stava forse cercando di ottenere un impero coloniale in Africa sconfiggendo la Francia sui campi di battaglia dell’Europa e sperando che in qualche modo la Gran Bretagna restasse neutrale? 118
L’altra argomentazione contro la teoria della «unicità della colpevolezza» tedesca si richiamava naturalmente al fatto che anche tutti gli Stati europei avevano i loro scopi bellici imperialisti e le loro élite militariste. Negli scorsi decenni sono stati pubblicati numerosi studi riguardanti le politiche militari e diplomatiche dei principali contendenti, 119 che hanno contribuito a riconsiderare le origini della guerra da un punto di vista internazionale. 120 Per un certo numero di critici di Fischer, è stato un opportuno cambiamento rispetto alla tesi della «unicità della colpa». 121
Ma già nel 1965 Immanuel Geiss aveva respinto l’accusa secondo la quale la tesi di Fischer era eccessivamente incentrata sulla Germania, raccogliendo una serie di documenti di grande influenza sulla crisi di luglio, tratti dalle collezioni pubblicate dai paesi belligeranti a partire dagli anni Venti. Geiss concludeva che, sebbene le cause immediate andassero individuate nell’appoggio del governo tedesco all’attacco punitivo dell’Austria contro la Serbia, la guerra aveva le proprie origini nella Weltpolitik della Germania, che inevitabilmente rappresentava una minaccia per la Gran Bretagna. La Germania era l’aggressore in quanto aveva deliberatamente provocato la Russia. Ciò aveva messo la Russia, la Francia e la Gran Bretagna con le spalle al muro, in una posizione in cui non potevano fare altro che reagire di fronte alle prepotenti ambizioni tedesche. 122 La successiva sintesi di Geiss, Der lange Weg in die Katastrophe (La lunga strada verso la catastrofe), si spinge ancora più oltre, sostenendo che la prima guerra mondiale fu l’inevitabile conseguenza dell’unificazione della Germania avvenuta quasi mezzo secolo prima. 123 La Germania era stata «il centro delle crisi più gravi» nel 1848, il teatro della «versione più estrema» del nazionalismo europeo negli anni Sessanta dell’Ottocento e, una volta realizzata l’unità, la «potenza più forte del continente». 124 Secondo Geiss, fu «la Welpolitik tedesca a spingere l’Europa verso la guerra mondiale ... Esportando la propria politica nel mondo furono gli stessi tedeschi a scatenare il conflitto decisivo che avrebbe portato alla guerra mondiale». 125 Di conseguenza, l’errore di fondo della politica estera tedesca era stato rifiutare qualsiasi possibilità di rapprochement con la Gran Bretagna; la costruzione di una flotta militare tedesca «equivaleva a una dichiarazione di guerra all’Inghilterra». 126 In realtà, oggi alcuni storici di tendenze più conservatrici sottolineano che questa sfida alla Gran Bretagna era legittima, ma nessuno nega seriamente la realtà della sfida. 127 Il confronto anglo-tedesco è quindi diventato uno degli eventi più sovradeterminati della storia moderna.
Una guerra evitabile?
Questo significa quindi che i memoriali di guerra hanno ragione? Significa forse che quelle «infinite moltitudini» commemorate dal milite ignoto sepolto nell’abbazia di Westminster morirono davvero
PER IL RE E PER IL PAESE
PER GLI AMATI FOCOLARI E PER L’IMPERO
PER LA SACRA CAUSA DELLA GIUSTIZIA
E DELLA LIBERTÀ NEL MONDO [?]
Gli ex allievi celebrati dal memoriale eretto nel cortile del Winchester College «offrirono» veramente «le loro vite per l’umanità», per non parlare di Dio, del loro paese e della loro scuola? 128 Gli Old Hamptonians morirono realmente «per preservare tutto quello che è caro al cuore degli inglesi, “l’onore della nostra parola” ... la libertà ... e i diritti costituzionali»? 129
Quasi tutti i memoriali di guerra eretti nelle piazze, nelle scuole e nei chiostri delle chiese d’Europa, che ritraggano guerrieri idealizzati o donne in lutto o che contengano (come a Thiepval) semplicemente elenchi di nomi incisi nella pietra o nel bronzo, proclamano che i caduti non morirono invano. 130 «Morts pour la Patrie» è l’iscrizione più frequente sui monuments aux morts francesi, che siano commemorativi, civici o semplicemente funebri. 131 «Deutschland muss leben, auch wenn wir sterben müssen» recita la scritta sul memoriale di Dammtor, davanti al quale passavo ogni mattina quando studiavo ad Amburgo: «La Germania deve vivere, anche se noi dobbiamo morire». Ben pochi memoriali osano suggerire che il «sacrificio» degli uomini commemorati è stato vano. 132
Quindi la domanda fondamentale alla quale questo libro cerca di rispondere è la stessa che si pone ogni visitatore di Thiepval, Douaumont o di qualsiasi altro monumento ai caduti: tutti questi morti – oltre nove milioni – sono davvero serviti a qualcosa? Sembra una domanda ovvia, ma per molti aspetti è più complessa di quanto non appaia a prima vista. Per essere precisi: nel 1914 la Gran Bretagna fu davvero così minacciata nella sua sicurezza da giustificare la decisione di inviare milioni di reclute inesperte dall’altra parte della Manica e ancora più lontano allo scopo di «fiaccare» la Germania e i suoi alleati? Che cosa cercava realmente di ottenere il governo tedesco scatenando la guerra? Sono queste le domande che tratteremo nei primi sei capitoli, in cui esamineremo le minacce che ogni contendente doveva affrontare, o pensava di dover affrontare.
Queste minacce furono quasi completamente dimenticate non appena la guerra ebbe inizio. Avendo scatenato il conflitto, come disse Taylor, i dirigenti politici e i generali furono presto ossessionati dall’idea di vincerlo come un fine in se stesso. Allo stesso tempo, la combinazione tra la censura e la spontanea bellicosità di molti giornali contribuì a scoraggiare atteggiamenti di compromesso e a incoraggiare richieste di annessioni e altri «obiettivi bellici» che solo una vittoria completa poteva assicurare. Nel settimo e nell’ottavo capitolo esamineremo una questione importante: valutare in quale misura il sostegno popolare alla guerra spesso citato dagli storici (almeno nella fase iniziale del conflitto) fu una creazione dei mass media.
Perché la vittoria totale si dimostrò così difficile da ottenere? Questo è, almeno in parte, un problema di natura economica. Entrambi gli schieramenti avevano risorse limitate: un paese che avesse speso troppo in termini finanziari e materiali per ottenere un successo a breve termine sul campo di battaglia avrebbe potuto essere sconfitto in un conflitto prolungato. Le sue scorte di proiettili potevano esaurirsi. La sua riserva di manodopera – soprattutto quella specializzata – poteva venire a mancare oppure trovarsi a corto di strumenti e macchinari. Potevano verificarsi carenze di derrate alimentari per l’esercito e la popolazione civile. I debiti interni ed esteri potevano raggiungere livelli insostenibili. Poiché tutti questi fattori erano altrettanto importanti di quanto accadeva sul campo di battaglia, la prima guerra mondiale rimane un ottimo terreno di ricerca sia per gli storici dell’economia sia per quelli militari. Ma, sul piano economico, la guerra aveva – o almeno avrebbe dovuto avere – un esito scontato, dato che le risorse della coalizione guidata da Gran Bretagna, Francia e Russia erano immensamente maggiori rispetto a quelle della Germania e dei suoi alleati. Nel nono capitolo analizzeremo la ragione per cui questo vantaggio non riuscì a garantire la vittoria senza l’appoggio diretto degli americani e metteremo in discussione la tesi largamente accettata secondo la quale l’economia di guerra tedesca era organizzata in modo inefficiente.
La chiave di volta del successo fu quindi la strategia? Affronteremo questa domanda nel decimo capitolo. Per certi aspetti, lo stallo sul fronte occidentale e gli inconcludenti risultati dell’«approccio indiretto» in altri teatri di guerra furono una conseguenza inevitabile della tecnologia militare. Ma la strategia che si impose quasi automaticamente in assenza di sfondamenti decisivi, ossia quella di una guerra di logoramento, era chiaramente difettosa. Una conclusione cui giunsero i generali di entrambi gli schieramenti in seguito allo stallo fu che il loro principale obiettivo divenne quello di uccidere più soldati nemici di quanti uomini del proprio esercito perdessero. Su questa base è possibile stabilire il valore del sacrificio umano in termini strettamente militari. Calcolando il «conteggio netto dei corpi» (ossia il numero di soldati uccisi da una parte meno il numero di quelli uccisi dall’altra) e ricorrendo ad altre dettagliate statistiche sulle perdite, è possibile valutare l’efficienza militare. In effetti, il valore della morte di un singolo soldato può essere espresso in funzione del numero di soldati nemici che teoricamente avrebbe potuto uccidere direttamente o indirettamente. Valutare l’efficienza militare in questo modo è un compito piuttosto macabro (anzi, qualche lettore potrebbe anche giudicare il mio metodo di pessimo gusto); ma il presupposto logico ha le sue origini nella mente dei generali e dei politici dell’epoca. Giudicate secondo questa prospettiva, le Potenze centrali appaiono chiaramente dotate di una netta superiorità. Il mistero diventa quindi perché abbiano perso la guerra. Una possibilità (discussa nell’undicesimo capitolo) sta nel combinare i due parametri dell’efficienza militare e dell’efficienza economica. In altre parole, è possibile che il fattore decisivo non fosse il numero degli uomini che i due schieramenti riuscivano a uccidere quanto piuttosto il costo che comportava la loro uccisione. Ma ciò non fa che approfondire il mistero, perché, sotto questo punto di vista, le Potenze centrali riportarono successi ancora maggiori.
Quindi per rispondere alla domanda sul motivo per cui i tedeschi persero la guerra non possiamo limitarci al semplice conteggio netto dei corpi in base al dollaro. Dobbiamo anche tenere conto delle perdite minori rappresentate da soldati che non furono uccisi, ma soltanto feriti o presi prigionieri. Il numero dei prigionieri riveste una particolare importanza nella mia analisi perché, malgrado il loro destino fosse per gli stessi soldati preferibile a quello dei morti o dei mutilati, dal punto di vista dei generali un soldato catturato significava una perdita del tutto equivalente a quella di un soldato ucciso. Anzi, in un certo senso, era una perdita persino più grave, in quanto da vivo il soldato catturato avrebbe potuto fornire informazioni al nemico o essere costretto a lavorare a suo vantaggio. Perciò nella valutazione delle perdite inflitte da uno schieramento all’altro, ho attribuito maggior peso agli uomini catturati che a quelli feriti, dato che un sostanzioso numero di feriti fu in grado di tornare a combattere. Questo fatto, a sua volta, solleva alcune questioni fondamentali sulle motivazioni che animavano i singoli soldati. Se le condizioni di vita nelle trincee erano così spaventose come sostiene la letteratura contraria alla guerra, perché gli uomini continuarono a combattere? Perché non disertarono, non si ammutinarono o non si arresero in numero ben maggiore? Queste domande sono discusse nel dodicesimo e tredicesimo capitolo.
Infine, nessuna analisi della guerra può considerarsi completa senza il tentativo di valutare il prezzo della pace; infatti, molti di coloro che avevano già manifestato il proprio dissenso nei confronti della guerra rimasero ancora più delusi e irritati dalle sue conseguenze. Il trattato di Versailles – per non parlare degli altri trattati firmati dai vinti nei pressi di Parigi – fu quindi il verme nella mela dell’assetto postbellico? Cercheremo di dare una risposta nel quattordicesimo capitolo.
Il lettore avrà notato che, nell’analisi delle questioni appena citate, ricorro spesso ai cosiddetti scenari «simulati», sforzandomi di immaginare come sarebbero andate le cose se le circostanze fossero state in un modo o nell’altro differenti. In effetti, è possibile leggere questo libro come un’indagine sui molti risultati alternativi della guerra. Che cosa sarebbe successo se la Gran Bretagna non avesse accontentato la Francia e la Russia sulle questioni imperiali e successivamente continentali dopo il 1905? E se la Germania fosse stata in grado di ottenere una maggiore sicurezza prima del 1914 incrementando le sue capacità difensive, cosa che avrebbe anche potuto permettersi di fare? E se la Gran Bretagna non fosse intervenuta nell’agosto del 1914, come avrebbe probabilmente preferito la maggior parte dei ministri di gabinetto? Che cosa sarebbe accaduto se la Francia non fosse riuscita a fermare i tedeschi sulla Marna, fatto, questo, più che comprensibile dopo tutte le perdite che aveva già subìto? E se la Gran Bretagna avesse destinato l’intera forza di spedizione alla guerra contro la Turchia e fosse riuscita a condurre con maggior successo lo sbarco a Gallipoli? E se i russi avessero agito più razionalmente, accettando una pace separata con la Germania? Che cosa sarebbe avvenuto se ci fossero stati ammutinamenti nelle forze britanniche analoghi a quelli che si verificarono nell’esercito francese nel 1917? E se i tedeschi non avessero fatto ricorso a una guerra sottomarina illimitata o non avessero rischiato il tutto per tutto nelle offensive lanciate da Ludendorff nel 1918? E se nel 1919 fosse stata imposta alla Germania una pace ben più dura? Oppure una pace più accomodante? Come ho sostenuto altrove, questi problemi controfattuali ci aiutano in due modi: a rivivere l’incertezza di coloro che prendevano allora le decisioni, per i quali il futuro non era che un fascio di possibilità, e a valutare se abbiano preso le decisioni migliori. 133 Non penso di rivelare molto di quel che seguirà se affermo già ora che, nel complesso, non credo che le abbiano prese.
* W. Owen, Poesie di guerra, a cura di S. Rufini, Torino, Einaudi, 1985. [N.d.T.]