VIII
Stampa e propaganda
La guerra delle parole
Poco dopo la fine della guerra Jean Cocteau acquistò una copia di «Le Figaro» a Parigi, soltanto per scoprire di averlo pagato il doppio del normale e che, per di più, era un numero vecchio di due anni. Alle sue proteste l’edicolante replicò: «Ma, cher monsieur, proprio per questo costa di più ... perché dentro c’è ancora la guerra». 1
La prima guerra mondiale è stata la prima guerra mediatica. Naturalmente, le guerre erano già state raccontate dai giornali. E talvolta, come nel caso della guerra di Crimea e di quella boera, la copertura da parte della stampa aveva inciso sulla condotta stessa del conflitto: basti pensare alla censura del «Times» nei confronti dell’atteggiamento dei generali durante l’assedio di Sebastopoli nel dicembre del 1854, alle critiche contro la guerra in Sudafrica da parte della stampa liberale o agli attacchi della stampa cattolica tedesca contro Bülow per il modo in cui aveva affrontato la rivolta degli Herero nell’Africa sudoccidentale. Però, prima del 1914, i mass media, essi stessi di origine relativamente recente, non erano mai stati usati come un’arma da guerra. In effetti, uno dei più grandi miti della prima guerra mondiale è che sia stata in realtà decisa proprio dai media, nella loro funzione di canali della propaganda dei governi.
Com’è stato osservato, non tutti i governi impararono a usarli con la stessa rapidità, e si è perciò sostenuto che la superiore propaganda dell’Intesa abbia avuto un ruolo decisivo nella sconfitta delle Potenze centrali. «Oggi le parole sono diventate battaglie», dichiarò Ludendorff; «con le parole giuste si vincono le battaglie, con le parole sbagliate le si perdono.» 2 Nelle loro memorie sia Ludendorff sia Hindenburg considerano la propaganda la chiave di volta della «demoralizzazione» delle proprie truppe nel 1918. «Eravamo ipnotizzati ... come un coniglio da un serpente», scrisse Ludendorff. «Nei paesi neutrali eravamo soggetti a una specie di blocco morale.» 3 Le analisi postbelliche tedesche si concentrarono in particolare su Lord Northcliffe, il più anziano dei due fratelli Harmsworth, che nel 1914 aveva creato il maggior gruppo editoriale inglese. 4 Già detestato prima della guerra dai liberali in Gran Bretagna, Northcliffe suscitò anche l’odio dei tedeschi a causa della propaganda esercitata sui soldati del Kaiser nelle ultime fasi del conflitto. Come scrisse un amareggiato tedesco in una lettera aperta indirizzatagli nel 1921:
La propaganda tedesca era, in sostanza, la propaganda degli studiosi, dei professori e dei consiglieri. Come avrebbero potuto questi uomini onesti e sinceri competere con giornalisti scaltri ed esperti nell’avvelenare le masse come lo sono i vostri? La propaganda tedesca, per quanto esistesse, era rivolta alla ragione, all’intelligenza, alla coscienza ... Come avrebbe potuto un materiale semplice come i fatti competere con le storie roboanti, l’ipnotismo dell’odio, il rozzo sensazionalismo che scodellavate? ... I tedeschi rifiutarono categoricamente di abbassarsi al vostro livello. 5
Questo giudizio fu ripreso da un pacifista appartenente allo schieramento vincitore, Norman Angell, il quale definì i giornali inglesi al tempo di guerra «uno strumento più subdolo di quanto Bismarck avesse mai potuto sperare di possedere». 6 Per Hitler, invece, la propaganda di guerra orchestrata da Northcliffe era stata «l’opera ispirata di un genio»: «Io stesso ho imparato moltissimo da questa propaganda nemica», dichiara in Mein Kampf. 7 In Propaganda und nationale Macht (Propaganda e potere nazionale, uscito nel 1933) il propagandista nazista Eugen Hadamovsky proclama recisamente: «Il popolo tedesco non fu battuto sul campo di battaglia, ma sconfitto nella guerra delle parole». 8 Numerose ricerche condotte durante il Terzo Reich svilupparono questa tesi nei particolari, cercando di dimostrare come la propaganda fosse riuscita ad assicurarsi l’appoggio dell’Italia alle potenze dell’Intesa. 9 Il contrario di questa tesi, naturalmente, era che la propaganda tedesca si fosse dimostrata un fallimento e che la stampa ebraica e socialista avesse sistematicamente minato il morale dei tedeschi: un precoce esempio di applicazione alla stampa della mitologia della «pugnalata alla schiena» fu l’attacco di Alfred Rosenberg pubblicato sul «Berliner Tageblatt». 10
Cosa niente affatto sorprendente, i responsabili della propaganda alleata si dichiaravano d’accordo. «Se la gente sapesse veramente», disse Lloyd George a Charles Prestwich Scott del «Manchester Guardian» in un momento di pessimismo nel dicembre del 1917, «la guerra finirebbe domani. Ma ovviamente non sa, e non può sapere. I corrispondenti non scrivono la verità e la censura non la farebbe comunque passare.» 11 Anche il romanziere John Buchan, che aveva svolto un ruolo importante nella propaganda britannica, era d’accordo: «Per quanto riguarda la Gran Bretagna», osservò nel 1917, «senza i giornali non si sarebbe potuto combattere la guerra nemmeno per un mese». 12 William Beaverbrook sostenenva che i cinegiornali che aveva fatto produrre in qualità di ministro dell’Informazione fossero stati «i fattori fondamentali nel mantenere alto il morale delle gente durante i cupi giorni di inizio estate del 1918». 13 Northcliffe giunse addirittura ad affermare che «la buona propaganda aveva probabilmente risparmiato un anno di guerra, e questo significava avere risparmiato migliaia di milioni in denaro e almeno un milione di vite». 14 Il mestiere di propagandista non era certo segno di nobiltà. Per citare le parole di A.R. Buchanan: «Un cinico potrebbe avere la tentazione di dire che, mentre alcuni patrioti erano andati sul fronte di guerra ed erano morti per il loro paese, altri erano rimasti a casa a mentire in suo favore». 15 Ma il sacrificio della propria integrità compiuto dai dirigenti dei media britannici durante la guerra continua a essere largamente considerato degno di lode (o almeno efficace). 16
Gli incarichi affidati ai proprietari di giornali durante la guerra sembrano parlare da soli. Nel maggio del 1917 Lloyd George incaricò Northcliffe di una missione speciale negli Stati Uniti e nel febbraio del 1918 lo stesso Northcliffe accettò il ruolo di direttore della propaganda nei paesi nemici. Nel 1916 suo fratello era stato nominato direttore generale del Royal Army Clothing Department, il dipartimento incaricato delle divise militari, e l’anno successivo divenne ministro dell’Aviazione. Sir Max Aitken, uomo d’affari canadese e deputato unionista al parlamento, che aveva acquisito il controllo del «Daily Mail» nel dicembre del 1916, prestò servizio come cancelliere del ducato di Lancaster e, a partire dal febbraio 1918, come ministro dell’Informazione. Anche il conferimento di titoli nobiliari dimostra la stessa cosa. Northcliffe (già nominato Pari nel 1905) divenne visconte nel 1917. Suo fratello Harold fu nominato barone nel 1914 e visconte di Rothermere nel 1919. Nel dicembre del 1916 Aitken divenne Lord Beaverbrook, dopo avere ricevuto il titolo di cavaliere nel 1911 ed essere stato nominato baronetto nel gennaio del 1916. Waldorf Astor, proprietario dell’«Observer», divenne visconte nel 1917. Sir George Riddell, proprietario del «News of the World», ottenne il titolo di Pari nel 1918, come anche Henry Dalziel della United Newspapers e William Ewart Berry del «Sunday Times» e del «Financial Times» nel 1921. Nel 1916 a Robert Donald, direttore del «Daily Chronicle», fu offerto il titolo di baronetto, che però rifiutò. Furono conferiti non meno di dodici cavalierati della stampa. 17 Era questo il modo in cui Lloyd George ringraziava i «signori della stampa» per i loro leali servizi.
L’idea che la stampa godesse di poteri eccessivi senza un’adeguata responsabilità non fu, naturalmente, un’invenzione della prima guerra mondiale. Ma in tutti paesi sembrò che la guerra aumentasse notevolmente il potere dei media. Anzi, secondo Karl Kraus, la stampa era la principale beneficiaria – e forse addirittura l’istigatrice – della guerra. Si diceva che persino i famosi Quattordici punti del presidente Wilson fossero stati redatti per soddisfare una richiesta di Edgar Sisson, il commissario americano del Comitato per l’informazione pubblica a Pietrogrado. 18
Voci discordanti
Tuttavia, l’idea che vi fosse una profonda differenza tra le tecniche di propaganda utilizzate dai due schieramenti in conflitto, per quanto conveniente per coloro che cercano di dare una spiegazione non militare dell’esito della guerra, non regge a un esame più attento. Come ha notato Georges Weill, ciascuna nazione belligerante era convinta che il proprio governo avesse trascurato la propaganda, mentre quella del nemico era stata straordinariamente efficace. 19 La stampa non subì restrizioni in nessun paese, e non fu imposto alcun criterio di uniformità. In ogni caso, si dovettero improvvisare enti addetti alla censura e alla gestione delle notizie, che, comunque, non funzionarono in modo efficace. Inizialmente, la maggior parte della propaganda fu indirizzata agli Stati neutrali anziché all’opinione pubblica interna. Quando si cercò di influenzare il «fronte interno», lo scopo principale fu negativo: la soppressione del dissenso. Sul piano positivo, l’obiettivo principale fu quello di aumentare la vendita di buoni del Tesoro o (in Gran Bretagna e nel suo impero) il reclutamento. Per gran parte della guerra la propaganda non fu quasi mai rivolta ai combattenti; eppure, furono costoro, in definitiva, a determinare l’esito del conflitto.
È opportuno sottolineare la profonda diversità di opinioni della stampa europea all’inizio della guerra. Il 30 giugno 1914 la «Neue Freie Presse», il baluardo dell’opinione liberale viennese, dichiarò che, nonostante l’attentato di Sarajevo, «gli obiettivi fondamentali della politica della monarchia» rimanevano «la pace con onore e senza debolezza e la difesa dei nostri interessi»; e il 2 luglio aggiunse che «guerre di vendetta sono in questi tempi fuori discussione». 20 Due settimane più tardi continuava a considerare la scena internazionale con equanimità: «L’uomo che ... potrebbe dare l’ordine di mettere a ferro e fuoco il mondo per il bene della Grande Serbia non è ancora nato»; e il 16 luglio ribadì «l’atteggiamento pacifico della monarchia». Anche quando cominciò a adottare un tono più bellicoso nei confronti della Serbia, insisté nell’affermare che «conflitti locali non dovrebbero trasformarsi in guerre mondiali» (18 luglio). 21 L’ungherese «Pester Lloyd» mantenne un tono altrettanto conciliante per tutto il mese di luglio. 22
In Germania il quotidiano liberale «Berliner Tageblatt» fu uno dei pochi a considerare la «questione della Grande Serbia ... una delle più minacciose e più preoccupanti, una questione che ci coinvolge tutti». Ma il 30 luglio ribadiva ancora: «Il popolo tedesco è assolutamente pacifico», limitandosi alla richiesta di «rafforzare i confini» quando ricevette la notizia ufficiale della mobilitazione russa. 23 Il suo corrispettivo nella Germania occidentale, la «Frankfurter Zeitung», non era in alcun modo più desiderosa di entrare in guerra. 24 Sebbene la «Kölnische Zeitung» manifestasse un «patriottismo» esagerato subito dopo l’inizio della guerra, nemmeno la stampa cattolica mostrava un atteggiamento bellicoso: il 30 luglio la testata «Germania» insisteva che il popolo tedesco desiderava «la pace sopra ogni cosa». 25 Il quotidiano conservatore (e tradizionalmente ispirato dal governo) «Norddeutsche Allgemeine Zeitung» sostenne con particolare decisione la localizzazione del conflitto tra Austria e Serbia, 26 arrivando persino a negare il pessimistico avvertimento espresso il 1º agosto dal «Berliner Tageblatt» sull’inevitabilità della guerra. 27 Senza dubbio, tale diversità di opinioni può essere attribuita alle complesse manovre del governo tedesco, che cercava di mascherare i suoi atti di guerra dietro editoriali pacifisti. Ma questo sembra anacronistico: molto più probabile è la semplice mancanza di un chiaro indirizzo da parte di un governo completamente assorbito da questioni diplomatiche e militari. 28
In Gran Bretagna, con un’unica eccezione, inizialmente la stampa osservò l’approssimarsi della guerra con disinteresse e disgusto. Nel luglio del 1914 il «Manchester Guardian» sosteneva con fiduciosa convinzione che non c’era «pericolo che la Gran Bretagna fosse trascinata nel conflitto tra Austria e Serbia in forza di trattati d’alleanza». 29 Il 1º agosto il suo direttore, Charles Prestwich Scott, affermò che l’intervento avrebbe «violato dozzine di promesse fatte al nostro stesso popolo; promesse di cercare la pace, di proteggere i poveri, di alimentare le risorse del nostro paese e di promuovere un progresso pacifico». 30 Quando scoppiò la guerra, il giornale protestò rabbiosamente che, «a causa di qualche clausola segreta», la Gran Bretagna era stata proditoriamente impegnata «nella rovinosa follia di prendere parte al violento gioco di una guerra tra due leghe militariste». E sebbene alla fine concludesse che «il nostro fronte è unito», il «Manchester Guardian» lanciava questo solenne avvertimento: «Sarà una guerra in cui rischieremo tutto ciò di cui andiamo orgogliosi e nella quale non avremo nulla da guadagnare ... Un giorno ce ne pentiremo». 31
Il «Daily News» era ancora più sprezzante del «sacrificio del modo di vivere britannico ... a favore della causa dell’egemonia russa sul mondo slavo». Il 1º agosto pubblicò un articolo di Alfred G. Gardiner intitolato semplicemente «Perché non dobbiamo combattere». «In quale parte del mondo i nostri interessi si scontrano con quelli della Germania?», domandava Gardiner. E rispondeva: «In nessun luogo». «Se scaraventiamo nella polvere la Germania e facciamo della Russia la dittatrice dell’Europa e dell’Asia, sarà il più grande disastro mai capitato alla cultura e alla civiltà occidentali.» 32 Il 3 agosto il giornale affermava che non esisteva «un partito a favore della guerra in questo paese», perché «gli orrori della guerra hanno già fatto presa sull’immaginario popolare». 33 Anche se alla fine il «Daily News» concedeva che la Gran Bretagna doveva vincere la guerra in cui si era impegnata, il 4 agosto deplorava «il terribile conflitto» e «l’errato corso della politica estera» di Grey. 34 Sir George Riddell, proprietario del settimanale popolare della domenica «News of the World», si riferiva in sostanza ai giornalisti liberali quando parlò a Lloyd George del suo «sentimento di profonda disperazione ... di fronte alla prospettiva di un governo che si impegnasse in una guerra». 35
Nemmeno la stampa liberale di provincia era entusiasta. Il 29 luglio lo «Yorkshire Evening News» scrisse che era «sicuramente nell’interesse della Gran Bretagna tenersi alla larga dalle contese». Il «Northern Daily Mail» si spinse ancora oltre, sostenendo il 28 luglio che la Gran Bretagna «poteva e doveva rimanere neutrale per tutto il corso della guerra». 36 «È accaduto il peggio», esclamava il 4 agosto il «Carlisle Journal». Non c’erano dubbi che «la maggior parte degli inglesi considerasse la prospettiva di essere trascinata in questa guerra con sentimenti di sorpresa e di orrore». 37 Solo l’8 agosto giornali come il «Lancaster Guardian» e il «Barrow News» si convinsero che la guerra fosse necessaria per «sottrarre questi piccoli ma coraggiosi Stati alle fauci della Germania». 38
In tutta Europa ci fu un solo grande giornale che si schierò fin dall’inizio a favore della guerra: il «Times». Il quotidiano londinese aveva previsto una guerra europea già dal 22 luglio, e cinque giorni dopo chiese il coinvolgimento britannico, richiesta ribadita negli editoriali del 29 e del 31 luglio. 39 Abbiamo già visto come Northcliffe e il suo caporedattore agli esteri, Henry Wickham Steed, avessero respinto categoricamente le richieste dei Rothschild di ammorbidire la linea del giornale. È in questa prospettiva che bisogna considerare l’affermazione fatta il 31 luglio dall’ex ministro liberale Lord Fitzmaurice, secondo il quale la stampa di Northcliffe stava conducendo «una campagna per spingere questo paese a prendere parte alla guerra». 40 (Fatto rivelatore, quando ormai disperava del governo britannico, il corrispondente da Londra di «Le Figaro» esclamò: «Ma non possono fare qualcosa Lord Northcliffe e il “Mail?”». 41)
Lo stesso Northcliffe non sapeva affatto quale ruolo avrebbe dovuto svolgere la Gran Bretagna nella guerra, anche perché non aveva compreso immediatamente l’autentico significato della crisi balcanica di luglio. 42 Quando scoppiò la guerra, i suoi giornali non fecero il minimo tentativo di ridimensionarne le catastrofiche conseguenze. Persino il «Times» previde, il 3 agosto, «la guerra più terribile [in Europa] ... dalla caduta dell’Impero romano». Si dichiarò «terrorizzato al solo pensiero delle perdite di vite umane e delle ricchezze accumulate nel corso di generazioni che un simile conflitto comporterebbe». 43 E il 5 agosto Northcliffe lasciò di stucco i suoi dirigenti con una violenta «sparata» contro l’invio della BEF: «Che cos’è questa storia di una Forza di spedizione britannica in Francia?», chiese a Thomas Marlowe, direttore del «Mail»:
È una sciocchezza. Non un solo soldato lascerà questo paese. Abbiamo una flotta superba, che ci darà tutto l’aiuto possibile, ma non appoggerò l’invio di un solo soldato britannico. E l’invasione? E il nostro stesso paese? Mettete questo nell’editoriale. Capito? Non un solo soldato partirà senza il mio consenso. Scrivete questo nel numero di domani.
A tal fine scrisse addirittura una lettera e accettò di pubblicare la versione alternativa di Marlowe, che sosteneva si dovesse inviare la BEF, soltanto dopo una rovente discussione. 44
Persino alla fine di novembre del 1914 il «Times» non vedeva alcun motivo di abbellire la verità di ciò che accadeva al fronte. «Tutto il lato spettacolare della guerra è scomparso e non riapparirà mai più», riferì con tono cupo il suo corrispondente:
Trincee e ancora trincee, e la legge suprema è non farsi vedere nel raggio di tiro dei fucili nascosti ... Giorno dopo giorno il massacro di uomini sconosciuti da parte di uomini invisibili ... La guerra è diventata stupida ... Al costo di migliaia di vite si possono guadagnare soltanto poche centinaia di metri, e ben raramente anche l’attacco più brillante frutta qualcosa ... Truppe fresche portate in trincea sotto la copertura di uno spaventoso fuoco d’artiglieria che inizia di sorpresa non sono in grado di fare altro che aprire una piccola breccia ... Ma un attacco di questo genere può essere compiuto solo con pesanti perdite. 45
Questo non significava certo alimentare la speranza che i soldati inglesi avrebbero potuto festeggiare il Natale a Berlino.
E non era certo l’unica nota discordante suonata dai giornali conservatori. A fine luglio lo «Yorkshire Post» pubblicò un editoriale nel quale si dichiarava
niente affatto convinto del fatto che, se la Russia e la Francia avessero sconfitto la Germania e l’Austria, la posizione del nostro paese sarebbe stata migliore di quella in cui si sarebbe trovato se avesse vinto lo schieramento opposto: riteniamo che un rivolgimento delle condizioni attuali risulterebbe, in un modo o nell’altro, estremamente svantaggioso per noi. Perciò non siamo affatto dell’opinione che il governo britannico dovrebbe affrettarsi a entrare in un conflitto europeo, da una parte o dall’altra. 46
Il 1º agosto la «Pall Mall Gazette» definì un «crudele colpo del destino il fatto che [la Gran Bretagna e la Germania] debbano affrontarsi in un momento in cui sembra che la cattiva volontà si sia affievolita», aggiungendo:
Pensiamo che l’imperatore GUGLIELMO e i suoi consiglieri abbiano lavorato alacremente per la pace. Se, come sembra fin troppo probabile, i loro sforzi sono stati vanificati da forze non sottoposte al controllo dell’uomo, perché dovremmo pronunciare parole di rimprovero nei loro confronti? Non lo faremo. Se è nostro destino, con cuore pesante, estrarre la spada, combatteremo da gentiluomini e rispetteremo il cavalleresco avversario. 47
L’editoriale sul «John Bull» pubblicato da Horatio Bottomley nella settimana che terminava l’8 agosto era ancora più eccentrico; iniziava con queste parole: «ALL’INFERNO LA SERBIA» e continuava così: «La Serbia deve essere spazzata via. Eliminiamo la Serbia dalla carta geografica dell’Europa». Parole più violente persino di quelle usate dai più accaniti autori di editoriali austriaci. Comunque, proseguiva Bottomley, il governo britannico avrebbe dovuto
servirsi della crisi per liberarsi una volta per tutte della minaccia tedesca ... In mancanza di una soddisfacente assicurazione di un mutamento nei piani dei nostri rivali teutonici, la sola cosa che dovrebbero fare statisti patriottici e lungimiranti sarebbe annientare immediatamente la flotta tedesca. E, ancora una volta ... ALL’INFERNO LA SERBIA! DIO SALVI IL RE. 48
Come dimostra perfettamente questa bizzarra argomentazione, le reazioni della stampa allo scoppio della guerra furono tutt’altro che uniformi.
Neppure i governi riuscirono a ottenere una certa uniformità; anzi, non è affatto chiaro se ci abbiano mai provato. Tanto per cominciare, per impedire la pubblicazione di informazioni militari che avrebbero potuto essere utili al nemico si ricorse unicamente alla censura. Su questo vi erano già dei precedenti. In Gran Bretagna, dove esisteva una tradizione di censura delle arti, affidata all’autorità del Lord cancelliere, i giornali avevano accettato un sistema di autocensura sulle questioni militari sotto l’egida di una commissione congiunta permanente stabilita nel 1912. 49 La Legge per la difesa del regno (DORA), approvata l’8 agosto 1914 (e successivamente prorogata per sei volte), aumentava drasticamente il potere dello Stato in questo ambito. La disposizione 27 proibiva esplicitamente resoconti o affermazioni «a voce per iscritto o in qualunque giornale o periodico ... o altra pubblicazione a stampa» che «mirassero o intendessero mirare» a indebolire la lealtà nei confronti del re, del reclutamento o della fiducia nella moneta nazionale. 50 Inoltre, il 26 settembre 1914 i censori proibirono la pubblicazione di notizie riguardanti movimenti di truppe o anche soltanto ipotesi su tali movimenti. Il marzo successivo la stampa venne avvertita di non esagerare la portata dei successi britannici, anche se (come obiettò un proprietario) un simile eccessivo ottimismo era interamente frutto di Sir John French. 51 Gli elenchi delle perdite non furono pubblicati prima del maggio 1915. Sebbene nell’autunno del 1915 venissero respinti con successo diversi tentativi di rafforzare ulteriormente la censura, la stampa fu rigidamente controllata per tutta la durata della guerra. In quasi tutte le regioni dell’Impero britannico i periodici furono sottoposti a censura. 52 Malgrado fornisse ai direttori di quaranta pubblicazioni informazioni confidenziali sulla guerra, il cosiddetto sistema delle «D-Notices» (notizie del giorno) non era stato creato espressamente per la stampa; la stessa cosa valeva per le numerose informazioni riservate fornite al corrispondente di guerra del «Times» Charles à Court Repington (egli stesso ex colonnello dell’esercito). Come riconobbe anche Lloyd George: «Il pubblico conosceva solo metà della storia; la stampa sapeva qualcosa di più, circa i tre quarti». 53
Ciò che DORA era per gli scrittori britannici, «Anastasie» lo era per i francesi: la personificazione della censura di guerra. 54 La quale fu imposta in base alle leggi sullo stato d’assedio del 1849 e del 1878, che consentivano ai militari di proibire qualsiasi pubblicazione ritenuta dannosa per l’ordine pubblico. Per attuarla, il ministero della Guerra creò il 3 agosto un apposito ufficio stampa. Una legge approvata due giorni dopo proibiva alla stampa di pubblicare informazioni relative alle operazioni militari che non fossero quelle indicate dal governo. 55 A settembre, quando il ministro della Guerra Alexandre Millerand rese ancora più rigide le regolamentazioni, fu imposto un bando anche sulla pubblicazione degli elenchi delle perdite. 56
Come in Francia, anche in Germania, allo scoppio delle ostilità, rientrò in vigore una vecchia legge sullo stato d’assedio (quella del 1851), con la quale si sospendeva «il diritto di esprimere liberamente opinioni a parole, a stampa o con raffigurazioni» e che conferiva ai comandi militari regionali il potere di censurare o proibire le pubblicazioni. Per scoraggiare ulteriormente la pubblicazione di «informazioni inaffidabili» il cancelliere del Reich emanò una circolare in cui erano elencati ventisei divieti particolari per la stampa. Altre raccomandazioni erano state emanate dal ministero della Guerra nel 1915, tra le quali il divieto di pubblicare le cifre delle perdite (nemmeno nei ruolini d’onore si dovevano usare numerazioni consecutive). 57 In totale, alla fine del 1916 erano state emanate circa duemila disposizioni censorie di questo genere. Tuttavia, visto che i comandanti le applicavano in modo discordante, nel febbraio del 1915 fu creato un Ufficio centrale della censura (Oberszensurstelle), destinato a diventare l’Ufficio della stampa di guerra (Kriegspresseamt) sette mesi più tardi. 58 In Austria la stessa funzione era affidata all’Ufficio della supervisione di guerra (Kriegsüberwachungsamt). 59 Istituzioni del genere furono create in Italia anche prima dell’entrata in guerra. 60
La censura era utilizzata con brusca rigidità. Nel 1915 sia il «Times» sia il «Labour Leader» furono multati per avere violato le disposizioni censorie. Il 14 agosto ne fu vittima «Le Figaro», con suo grande imbarazzo, a causa di un resoconto sulla situazione in Marocco. 61 L’«Homme Libre» di Clemenceau fu sospeso perché aveva pubblicato un articolo sui mezzi di trasporto dei soldati feriti, i quali erano talmente sporchi che molti di essi vi avevano contratto il tetano; quando riapparve con il nome della testata cambiato in «L’Homme Enchaîné» fu nuovamente sospeso. 62 Come disse Alfred Capus il 27 settembre del 1914:
Se nei propri articoli non si menzionavano le autorità, il governo, i politici ... le banche, i feriti, le atrocità tedesche o il servizio postale, si poteva esprimere liberamente qualsiasi cosa, con il permesso di due o tre censori. 63
Fra i giornali tedeschi censurati o chiusi per avere rivelato informazioni militari c’era l’innocuo e oscuro «Tägliche Rundschau für Schlesien und Posen».
Gradualmente, però, tutti i paesi si spinsero oltre la censura delle informazioni militari e utilizzarono i propri poteri per il tempo di guerra in un modo decisamente più politico. In Gran Bretagna tra i giornali o le riviste soppressi in un qualche momento durante la guerra ci furono l’«Irish Worker», l’«Irish Volunteer», l’«Irish Freedom» e «Sinn Féin», oltre a «Nation» e al pacifista «Tribunal». Si pose particolare attenzione a impedire l’esportazione di qualsiasi cosa fosse ritenuta potenzialmente dannosa allo «sforzo bellico». Furono compilati dettagliati elenchi di letteratura proibita: non soltanto le pubblicazioni di gruppi nazionalisti irlandesi, socialisti e pacifisti, ma anche riviste scolastiche che avevano inavvertitamente pubblicato resoconti troppo particolareggiati sui movimenti al fronte di ex alunni e bollettini ferroviari che rivelavano informazioni ritenute delicate sui sistemi di trasporto britannici. Ne fu vittima anche il «British Old Heidelbergers’ Association Magazine». 64 DORA cercò anche di arrogarsi il ruolo di balia letteraria della nazione svolto dal Lord cancelliere. La versione libresca della commedia di Archibald Fenner Brockway, The Devil’s Business, fu messa al bando all’inizio della guerra. Quattro anni dopo Rose Allatini fu perseguita da DORA per il suo romanzo (pubblicato con uno pseudonimo) Despised and Rejected, che narrava la storia di un obiettore di coscienza omosessuale: l’editore fu multato e le copie del libro distrutte. 65 Insomma, la Gran Bretagna del tempo di guerra divenne poco a poco uno Stato di polizia. Nel 1916 l’ufficio stampa, assistito dal dipartimento MI7(a) dei servizi segreti, esaminò più di ventottomila articoli, venticinquemila foto e non meno di trecentomila telegrammi privati. 66 Metternich ne sarebbe stato invidioso. Come lamentava giustamente «Nation» nel maggio del 1916, era «una tragedia della guerra che il paese che era andato a difendere la libertà stesse perdendo una per una le sue libertà, e che il governo che aveva cominciato a basarsi sull’opinione pubblica considerandola un grande aiuto fosse ora arrivato a temerla e a contenerla». 67
La stessa cosa era avvenuta pressoché ovunque. Nel 1917 un tribunale francese stabilì che la legislazione del 1914, che proibiva la pubblicazione di informazioni militari non autorizzate, poteva essere impiegata per vietare la pubblicazione di «manifestazioni di disfattismo». 68 Su tale base il pacifista «Bonnet Rouge» fu censurato non meno di millesettantasei volte tra il maggio del 1916 e il luglio del 1917. 69
In Germania l’uscita di «Vorwärts» fu proibita tra il 27 e il 30 settembre 1914 e gli fu permesso di riprendere le pubblicazioni solo a patto che evitasse riferimenti alla «lotta e all’odio di classe». Un analogo bando fu imposto nel gennaio del 1918, quando il giornale sostenne la necessità di uno sciopero generale. 70 Pellicole straniere furono proibite fin dall’inizio della guerra e la preesistente censura sui film di produzione interna fu cambiata in modo da permettere esclusivamente la visione di opere che «sostenessero il morale e promuovessero il patriottismo». 71 All’inizio del 1915 i giornalisti furono avvertiti di non «mettere in dubbio il sentimento nazionale e la determinazione dei cittadini tedeschi»; è interessante osservare che fu chiesto loro anche di evitare «ripugnanti richieste di una condotta barbarica di guerra e dell’annientamento dei popoli stranieri». Nel novembre del 1915 fu emanato un bando sui dibattiti pubblici relativi agli scopi bellici della Germania. A partire dal 1916 l’Ufficio della stampa di guerra fu incaricato di verificare, prima della loro pubblicazione, tutte le interviste con i generali, i dibattiti sui rapporti fra tedeschi e americani e tutti i riferimenti al Kaiser. Inoltre, i comandanti militari locali, 72 avevano la facoltà di emanare ordini ogni volta che ne riconoscessero la necessità. Il «Berliner Tageblatt» fu vittima dei pregiudizi politici del generale responsabile della censura nel Märkischer Kreis: fu temporaneamente soppresso per avere difeso Bethmann Hollweg dagli attacchi degli annessionisti! 73
Ma in nessun paese occidentale la censura raggiunse livelli totalitari. I censori francesi, per esempio, permisero a «L’Œuvre», appena fondato e piuttosto aggressivo (il suo slogan era: «Gli imbecilli non leggono “L’Œuvre”») di pubblicare a puntate Il fuoco di Henri Barbusse. 74 Né i censori si impegnarono a fondo per tenere a freno la rivista satirica «Le Canard Enchaîné», pubblicata per la prima volta nel settembre del 1915 da Maurice Maréchal e dai suoi amici. 75 In Germania gli articoli sugli scopi bellici (in seguito alla sospensione del bando del novembre 1916) avevano un campo ben più libero di quanto fosse permesso in Francia. Ancora più significativo è il fatto che i censori tedeschi non impedirono mai la pubblicazione di comunicati militari alleati sui giornali tedeschi. 76
Inoltre, le esperienze europee – e persino britanniche – appaiono ben poca cosa rispetto alle misure draconiane adottate dagli Stati Uniti: conseguenza, senza dubbio, dell’incertezza americana sulla reale portata del patriottismo in una popolazione multietnica (14,5 milioni di americani – rispetto a una popolazione complessiva di 100 milioni nel 1914 – erano nati all’estero; e circa 8 milioni erano tedeschi di prima o seconda generazione). 77 Dopo che la legge sullo spionaggio del 1917 venne emendata dalla legge sulla sedizione nel maggio del 1918, persino criticare la guerra in una camera in affitto divenne illegale. Oltre 2500 americani furono incriminati in base a questa legge, e di essi un centinaio fu condannato a trascorrere da dieci a vent’anni in carcere. Il regista di un presunto film patriottico, The Spirit of ’76, fu condannato a quindici anni perché era apertamente antibritannico. 78 Nemmeno la Gran Bretagna arrivò a negare fino a questo punto la libertà di opinione in tempo di guerra. Che gli Alleati si stessero battendo per la libertà, a questo punto sembrava piuttosto una presa in giro.
Si dovettero improvvisare apposite istituzioni per la gestione concreta delle notizie (in particolare per la copertura della guerra nei paesi neutrali). I primi comunicati militari britannici erano semplicemente letti ad alta voce ai membri del gabinetto ombra dei ministri in riunioni a porte chiuse; solo in settembre venne affidato al maggiore Ernest Swinton l’incarico di comunicare i dispacci ai giornali, che li pubblicavano con il sottotitolo di «testimone oculare». (Max Aitken svolse un ruolo analogo per le forze canadesi.) Per informazioni più dettagliate, Sir George Riddell, della Newspaper Proprietors’ Association, fungeva da ufficio stampa dei corridoi del potere, e riferiva ciò che dicevano Asquith, Churchill e altri esponenti governativi ai suoi colleghi proprietari e ai direttori nel corso di riunioni settimanali, che furono istituzionalizzate con un accordo nel marzo del 1915. 79 Solo nel novembre del 1915 venne introdotto un sistema di corrispondenti di guerra accreditati, ma i loro resoconti erano sottoposti a un rigido controllo. 80
I primi passi per coordinare un’efficace propaganda britannica all’estero furono compiuti quando Charles Masterman, cancelliere del ducato di Lancaster, invitò un gruppo selezionato di illustri romanzieri e saggisti alla Wellington House a Buckingham Gate (dove si trovavano gli uffici della National Insurance Commission, considerata un buon «fronte»). 81 Alla fine del 1914 erano state tradotte più di venti pubblicazioni da distribuire nei paesi neutrali; nel giugno del 1915 erano già stati commissionati e pubblicati circa due milioni e mezzo di libri. La Wellington House inviò anche un bollettino a circa trecentosessanta giornali americani e finanziò una serie di film, perlopiù documentari. Inoltre, nell’agosto del 1914 un Comitato parlamentare per gli scopi bellici creato in tutta fretta organizzò un ufficio stampa sotto la direzione dell’unionista Frederick Edwin Smith. 82
Tuttavia, nel 1916 Lloyd George chiese al direttore del «Daily Chronicle», Robert Donald, di occuparsi dell’attività della Wellington House: in seguito alle critiche da lui espresse si decise la creazione di un nuovo dipartimento dell’informazione. Due mesi dopo, nel febbraio del 1917, il compito di dirigerlo fu affidato al popolare romanziere, avvocato e occasionalmente amministratore imperiale John Buchan. 83 Quando, nel luglio del 1917, il dipartimento diventò un vero e proprio ministero, Buchan fu sottoposto all’autorità del leader unionista dell’Ulster Sir Edward Carson, ma la mancanza di interesse di quest’ultimo convinse il comitato consultivo della stampa a dare le dimissioni in segno di protesta, costringendo Lloyd George a creare un nuovo ministero dell’Informazione sotto la guida di Beaverbrook (febbraio 1918). 84 Ciò suscitò una prolungata azione di retroguardia da parte del ministro degli Esteri Balfour, che intendeva mantenere il controllo sulla distribuzione della propaganda britannica all’estero. 85 Un ruolo analogo – ma all’interno del paese – toccò alla Commissione nazionale per gli scopi bellici creata nel giugno 1917, che tra il settembre e il marzo del 1918 organizzò milleduecentoquarantaquattro riunioni pubbliche e che nella primavera del 1919 aveva distribuito centosette milioni di copie di testi di sua produzione e fornito a seicentocinquanta giornali articoli di fondo filogovernativi pressoché identici. 86
Gli sviluppi istituzionali non furono molto diversi nel continente, come si è spesso sostenuto. Nell’ottobre del 1914 l’esercito francese creò una Sezione informazioni sotto il controllo dei servizi segreti militari, che inizialmente si limitò a emanare e pubblicare comunicati militari tre volte al giorno, ma in seguitò fornì ai giornali rapporti più o meno anodini sulla vita al fronte. Più tardi il generale Nivelle la riorganizzò come Servizio d’informazione per gli eserciti, e permise per la prima volta a giornalisti accreditati (anziché a ufficiali dell’esercito) di inviare corrispondenze. Nel frattempo, il ministero degli Esteri creò un proprio ufficio per la stampa e l’informazione (Bureau de la presse et de l’information). Solo nel gennaio del 1916 fu creata una Maison de la Presse per coordinare la propaganda francese all’estero. 87
In Germania ufficiali dello stato maggiore organizzarono, fin dal 3 agosto, riunioni quotidiane (alle undici di mattina) per i corrispondenti che inviavano poi dei resoconti all’agenzia telegrafica Wolff. Nel settembre del 1915 il nuovo ufficio della stampa di guerra aggiunse una seconda riunione serale e diffuse anche tre bollettini di notizie militari. Come in Gran Bretagna, le informazioni erano spesso messe a disposizione con il tacito accordo che non fossero pubblicate. 88 All’inizio si ebbe un certo dualismo istituzionale. Il ministero degli Esteri aveva il proprio dipartimento delle notizie (Nachrichtenabteilung) responsabile della propaganda nei paesi neutrali. Ma nel 1917 il comando supremo istituì un servizio stampa specializzato, il Servizio tedesco delle notizie di guerra (Deutsche Kriegsnachrichtendienst), come parte della centralizzazione generale di governo sostenuta da Ludendorff. Sebbene il nuovo cancelliere Georg Michaelis cercasse di riaffermare il controllo civile sulla propaganda incaricando un capufficio stampa nella tarda estate del 1917, i generali mantennero il controllo sino alla fine. 89
Anche l’Austria istituì un Ufficio della stampa di guerra (Kriegspressequartier), che produceva bollettini ufficiali per uso interno ed esterno. 90 Quando entrarono in guerra, gli americani fecero sostanzialmente la stessa cosa, creando, nell’aprile del 1917, una Commissione sull’informazione pubblica che alla fine della guerra aveva prodotto e distribuito non meno di settantacinque milioni di copie di pubblicazioni a favore della guerra. 91
Oltre a cercare di influenzare l’opinione pubblica estera, uno degli scopi principali di tutta questa attività era rafforzare la determinazione interna. Estremamente importante era la necessità di raccogliere fondi. I film britannici You! e For the Empire (commissionati dal Comitato dei prestiti di guerra per i piccoli investitori) esortavano gli spettatori a investire in buoni del Tesoro; il secondo di essi mostrava addirittura la «quantità di munizioni» che avrebbe fornito un investimento di quindici scellini e sei penny. 92 La Germania contava ancor più della Gran Bretagna sulla volontà dei suoi cittadini di prestare soldi al governo; pertanto, vennero prodotti numerosi manifesti per incoraggiare il pubblico ad acquistare buoni del Tesoro. Il manifesto di Lucian Bernhard, del 1917, raffigurava una nave nemica che stava affondando, con la seguente scritta: «Ecco come i tuoi soldi ti aiutano a combattere. Trasformati in U-Boot, tengono lontani i proiettili nemici. Perciò sottoscrivi un prestito di guerra!». 93 Anche in America in occasione della campagna per il Primo prestito della libertà si distribuirono due milioni di manifesti, il cui numero salì a nove milioni all’epoca del Terzo prestito. 94
Al contrario, i tentativi di indottrinare i soldati con qualcosa di più della tradizionale etica dell’obbedienza agli ordini furono estremamente limitati. E quelli per influenzare le menti dei soldati nemici furono attuati soltanto verso la fine della guerra. Nel luglio del 1917 edizioni fasulle di giornali tedeschi come la «Frankfurter Zeitung» vennero portate di nascosto in Germania da agenti francesi. 95 Il servizio segreto britannico impiegò lo stesso trucco, anche se la tecnica fu resa nota al pubblico soltanto quando a Northcliffe venne affidata la direzione della «Crewe House» del ministero dell’Informazione. Nei sei mesi successivi al giugno del 1918 vennero lanciati sulle truppe tedesche in ritirata circa venti milioni di volantini con titoli come Grüße an die Heimat (Salve patria) e testi relativi alle perdite tedesche e alla disfatta degli alleati dei tedeschi. 96
Le Potenze centrali non si impegnarono in analoghi sforzi. I tedeschi preferivano cercare di corrompere, tramite i loro agenti, i giornali pacifisti con finti investimenti nei paesi neutrali. Fra i casi più celebri in Francia ci fu quello riguardante «Le Journal», che aveva ricevuto circa dieci milioni di franchi da fonti tedesche, ma anche quello di «Le Pays», il nuovo giornale fondato nel 1917 per promuovere l’idea, lanciata da Joseph Caillaux, di una pace negoziata con la Germania, e quello di «Bonnet Rouge», l’editore e il direttore del quale furono entrambi arrestati e accusati di tradimento nel luglio del 1917 (il primo si suicidò in cella, mentre il secondo fu giudicato colpevole e giustiziato). 97
L’autonomia della propaganda
Finora si è dato per scontato che con il termine propaganda intendevamo la propaganda di governo. In realtà, gran parte della propaganda del tempo di guerra non era affatto prodotta da agenzie governative, bensì da organizzazioni o individui autonomi, mentre il ruolo delle istituzioni precedentemente descritte era perlopiù di semplice coordinamento. 98 Un caso istruttivo è offerto dal cinema, il più costoso di tutti i media e quindi quello in cui ci si aspetterebbe che il governo avesse un ruolo predominante. La Commissione parlamentare per il reclutamento, per esempio, era un’agenzia governativa? Non esattamente. Il suo lavoro veniva svolto su base volontaria da deputati e da altre figure pubbliche. Fu però proprio questa commissione, e non il ministero della Guerra, a iniziare, nel 1915, la produzione del lungometraggio sul reclutamento intitolato You! 99 È vero, d’altra parte, che il ministero della Guerra aveva cominciato a usare il cinema per attrarre nuove reclute ancor prima che scoppiassero le ostilità, commissionando The British Army Film (1914). 100 Ma in seguito non aveva fatto altro che tollerare le attività del British Topical Committee for War Films, un cartello di società di produzione indipendenti che pagava il ministero della Guerra per il privilegio di riprendere il fronte e poi di vendere i filmati al governo, che li utilizzava per la propaganda. Il primo lungometraggio prodotto in questo modo – Britain Prepared – fu proiettato nel dicembre del 1915. Seguirono The Battle of the Somme (agosto 1916) e The German Retreat and the Battle of Arras (giugno 1917). 101 Ben lungi dall’influenzare il taglio documentaristico di questi film, il ministero della Guerra tendeva semmai a prenderne le distanze. I cineasti britannici produssero circa duecentoquaranta pellicole tra il 1915 e il 1918, oltre al cinegiornale bisettimanale introdotto nel maggio del 1915. La proporzione di film ispirati direttamente dai dipartimenti governativi era estremamente bassa, sebbene ieri come oggi i cineasti britannici fossero sempre alla ricerca di sussidi statali.
Anche in Germania i cosiddetti film «grigio militare» tipo Come Max ottenne la Croce di Ferro, Sul Campo dell’Onore, La Signorina Grigio Militare e Quel che dovrebbe appartenere alla Germania furono prodotti dal settore privato con pochissimi incentivi da parte delle autorità. 102 Il bando sui film stranieri imposto dal ministero della Guerra ebbe un certo effetto, come lo ebbero anche le commissioni segrete (a partire dal 1916). Ma in sostanza il cinema di guerra tedesco era autonomo. Fu il produttore Oskar Messter ad avvicinare opportunisticamente le autorità militari con la proposta di girare filmati nei vari teatri di guerra. Il cinegiornale «Messter-Woche» conquistò rapidamente una posizione di monopolio grazie al controllo ufficiale che Messter esercitava sulla concessione dei permessi di girare al fronte, con grande scontento dei concorrenti. Soltanto in seguito il comando supremo stabilì un controllo burocratico sulla produzione, precisamente dall’ottobre del 1916, con la creazione dell’Istituto militare del cinema e della fotografia (Militärische Filmund Photostelle), che nel gennaio del 1917 divenne l’Ufficio film e fotografie (Bild- und Filmamt). Quando, nella seconda metà del 1917, Ludendorff cercò di intensificare la propaganda cinematografica con un programma di «educazione patriottica», il progetto fu affidato a una nuova compagnia, la Universum-Film-AG (UFA), finanziata sia dallo Stato sia dall’industria privata. Dopo la guerra si affermò rapidamente come la maggiore compagnia di produzione europea. 103
Il meno interessato a un coinvolgimento del governo era il cinema americano. In larga misura su propria iniziativa, Hollywood creò l’Association of the Motion Picture Industry, che produceva film di guerra come How the War Came to America, The Kaiserite in America e German War Practices. 104
Inoltre, una grande quantità di «propaganda» meno costosa fu prodotta senza alcun rapporto con il governo da associazioni come il Sir Francis Younghusband’s Fight for Right Movement, il Council of Loyal British Subjects, la Victoria League, la British Empire Union e il Central Council for National Patriotic Organisations. 105 La stessa cosa vale per la Germania, dove la Lega pangermanica e il nuovo Partito della patria erano anch’essi indipendenti dal governo. Negli Stati Uniti la caccia al nemico interno fu condotta, più che dal dipartimento di Giustizia, da gruppi di vigilantes come l’American Patriotic League, il Patriotic Order of Sons of America e i Knights of Liberty. Queste organizzazioni furono responsabili di centinaia di episodi di violenza illegale durante gli anni di guerra, tra cui il linciaggio di individui sospettati di coltivare simpatie per il nemico. 106
Non era semplicemente una guerra dei media, ma una guerra dei baroni dei media. Il 4 ottobre, su suggerimento del ministero della Marina, novantatré illustri accademici, intellettuali e artisti tedeschi (tra i quali gli scienziati Max Planck e Fritz Haber, il commediografo Gerhart Hauptmann e gli economisti Lujo Brentano e Gustav Schmoller) pubblicarono un manifesto sulla stampa tedesca intitolato «Al mondo della cultura!» nel quale si giustificava l’intervento tedesco in Belgio (compreso l’incendio di Lovanio) e si denunciava l’intervento della Gran Bretagna a fianco della Russia «barbara» e «mezza asiatica». Gli eminenti studiosi Ernst Haeckel e Rudolf Eucken avevano già dichiarato in un analogo manifesto pubblicato alla fine di agosto: «È colpa dell’Inghilterra se l’attuale guerra si è estesa fino a diventare una guerra mondiale». 107 A questo seguirono una dichiarazione dello stesso tenore pubblicata dalla Lega culturale degli studiosi tedeschi e «Perché siamo in guerra», a cura degli storici Friedrich Meinecke e Hermann Oncken.
Sotto questo aspetto gli scrittori britannici furono ancora più rapidi. Com’è noto, il contromanifesto firmato da cinquantadue «noti uomini di lettere» e pubblicato sul «Times» il 18 settembre 1914 fu il frutto di un incontro organizzato da Masterman il 2 settembre alla Wellington House. 108 Ma i firmatari non ebbero bisogno di grandi incoraggiamenti: la maggior parte non vedeva l’ora di approfittare dell’occasione. Tra coloro che si erano recati alla Wellington House o avevano firmato la «Dichiarazione degli scrittori» del «Times» c’erano Gilbert Keith Chesterton, Arthur Conan Doyle, John Mansfield, Rudyard Kipling e il direttore di «Punch» Owen Seaman: insomma, un vero Who’s Who di scrittori patriottici, per non dire conservatori. Tra i presenti all’incontro, e ansiosi di dar voce alle proprie opinioni, c’erano inoltre H.G. Wells, il profeta della guerra a cui gli eventi davano ora ragione, e Thomas Hardy. Più inaspettate furono le firme dei romanzieri Arnold Bennett e John Galsworthy, del classicista Gilbert Murray e dello storico George Macaulay Trevelyan, nessuno dei quali aveva salutato lo scoppio della guerra con particolare entusiasmo. 109
Un esempio estremamente significativo di automobilitazione intellettuale è offerto dalla facoltà di Storia dell’Università di Oxford. Lavorando a una velocità inconsueta, forse addirittura senza precedenti negli annali dell’università, cinque storici oxoniani guidati da Henry William Charles Davis ed Ernest Barker scrissero Why We Are at War: Great Britain’s Case – talvolta chiamato semplicemente The Red Book – che la University Press riuscì a fare uscire già il 14 settembre (appena due settimane dopo la consegna del manoscritto). 110 Successivamente fu pubblicata una serie di «Oxford Pamphlets» per «l’operaio intelligente». Anche gli storici delle università «provinciali» vi si gettarono a capofitto, compresi D.J. Medley, dell’Università di Glasgow, e Ramsay Muir, di quella di Manchester. Si organizzarono conferenze nelle principali città per controbattere l’ipotetica convinzione diffusa «tra molti nostri operai ... secondo cui se la Germania vince non staranno peggio di quanto stanno adesso». 111 Anche decani di altre facoltà diedero un contributo. Oltre a firmare il manifesto degli «uomini di lettere», Gilbert Murray scrisse How Can War Ever Be Right? e The Foreign Policy of Sir Edward Grey 1906-1915, un resoconto apologetico pubblicato nel giugno del 1915 e giustamente liquidato da Ramsay MacDonald come uno «straordinario esercizio di imbiancatura e stuccatura». 112
Si deve osservare che ben pochi degli affermati scrittori sopracitati accettarono di essere pagati per i loro scritti militanti. Galsworthy e Wells scrissero i propri articoli per la Wellington House senza chiedere nulla in cambio, facendo allarmare il loro agente letterario. 113 Solo verso la fine della guerra scrittori più assidui come Arnold Bennett furono assunti come impiegati governativi del ministero dell’Informazione di Beaverbrook. Più o meno la stessa cosa accadde in Francia. 114
Si mobilitarono anche i poeti. Nell’agosto del 1914 il «Times» riferì di avere ricevuto un centinaio di poesie al giorno, la stragrande maggioranza delle quali di tono romantico-patriottico. Secondo una stima, in Germania, nel corso dello stesso mese, furono scritte cinquantamila poesie di guerra al giorno. Una bibliografia sulla poesia di guerra britannica, quasi interamente di natura patriottica, elenca più di tremila volumi; un analogo conteggio di trecentocinquanta libri relativo alla Germania potrebbe essere errato per difetto, a meno che il Denker, il pensatore, fosse riuscito a sorpassare il Dichter, il poeta, dopo i giorni d’agosto. 115 Senza dubbio, i poetastri erano incoraggiati dai governi: il giornalista Ernst Lissauer, per esempio, fu insignito della Croce di ferro per il suo poema Hassgesang gegen England, cioè l’«Inno all’odio contro l’Inghilterra». Ma lo aveva scritto di propria iniziativa. Allo stesso modo, non era necessario incoraggiare i commediografi a scrivere commedie teatrali patriottiche. 116
A qualsiasi livello sociale i governi non avevano bisogno di produrre propaganda: si produceva già da sé. Accademici, giornalisti, politici, poeti dilettanti e gente comune la sfornavano senza dover essere sollecitati a farlo. Anche le industrie vi prendevano parte, come dimostra perfettamente la produzione di giocattoli e fumetti per bambini, fenomeno riscontrabile in quasi tutti i paesi belligeranti. 117 In Gran Bretagna c’erano carri armati giocattolo, disponibili sei mesi dopo che i veri carri armati erano stati impiegati per la prima volta in battaglia; in Francia c’erano il puzzle del Lusitania e una versione militarizzata del Monopoli; in Germania i pezzi di artiglieria sparavano piselli. 118
Poiché gran parte della propaganda non era controllata dal governo, spesso viveva di vita autonoma. Espressione tipica del modo in cui i gruppi nazionalisti dei vari partiti tendevano a indebolire Bethmann Hollweg fu il trattato di Wolfgang Kapp Die nationalen Kreise und der Reichskanzler (Circoli nazionalisti e il cancelliere del Reich), uscito nel 1916, come parte dell’incessante campagna condotta (per sua stessa ammissione con la connivenza del ministero della Marina) per togliere ogni restrizione alla guerra sottomarina. 119 Un esempio ancora più illuminante è il modo davvero straordinario in cui Northcliffe importunò diversi governi britannici. Durante la guerra Charles à Court Repington parlava talvolta della «stampa di governo» intendendo la stampa fedele al governo; ma in certi casi la Gran Bretagna sembrava avviarsi verso un governo della stampa. 120 Northcliffe usò i propri giornali per fare campagna contro Haldane nel 1914, contro Kitchener nel 1915, contro Asquith nel 1916 e infine contro Lloyd George e Milner dopo la conclusione della guerra. I suoi giornali condussero una serie di campagne dirette a intensificare lo sforzo bellico britannico: per l’internamento degli stranieri, per la creazione di un ministero delle Munizioni, per l’introduzione di un registro nazionale degli uomini in grado di usare un’arma, per l’istituzione di un consiglio di guerra speciale, per la fornitura di nuove mitragliatrici e, naturalmente, per la coscrizione. Queste sue intromissioni suscitavano tali problemi che il conte di Rosebery, assecondato da Churchill, propose che il «Times» fosse nazionalizzato; ma non lo si fece. 121 Asquith passò il resto della sua vita a rammaricarsene. Sebbene Northcliffe non fosse l’unico artefice della sua rovinosa caduta da primo ministro – vi ebbe una parte anche Beaverbrook – non c’è dubbio che i signori della stampa l’affrettarono. 122
Tipiche del modo di comportarsi di Northcliffe sono le sue istruzioni al direttore del «Daily Mail», Tom Clarke, nel dicembre del 1916: «Cerca una foto di Lloyd George sorridente e mettici sotto la didascalia “FALLO ADESSO”; poi cerca la foto peggiore di Asquith e mettici sotto la didascalia “ASPETTA E VEDRAI”». 123 Verso la fine della guerra (soprattutto dopo il suo viaggio negli Stati Uniti, da cui tornò ancora più convinto dei propri meriti), 124 Northcliffe mostrava sintomi in qualche modo vicini alla megalomania. «Dica al capo», ordinò a un ufficiale dello stato maggiore di Haig nell’autunno del 1917, «che se [Lloyd] George si permette di fare qualcosa contro di lui, gli toglierò l’incarico». 125 Il 3 ottobre 1918 arrivò al punto di dire a Riddell: «Non propongo di usare i miei giornali e la mia influenza personale per appoggiare un nuovo governo ... a meno che non conosca perfettamente e per iscritto, e possa quindi approvarla in piena consapevolezza, la sua composizione». 126
Inoltre, la relativa autonomia della stampa permetteva di premere spesso sul governo affinché mirasse a obiettivi bellici più ambiziosi. Se il dibattito sugli obiettivi bellici in Germania è noto grazie a Fischer, non bisogna dimenticare che ci fu un dibattito molto simile anche in Gran Bretagna e, naturalmente, in tutti gli altri Stati belligeranti. Tra le opzioni più estremistiche concepite dai giornalisti britannici come obiettivi bellici c’era per esempio la dissoluzione del Reich tedesco. Altri obiettivi – come la distruzione degli impero asburgico e ottomano – appaiono meno fantasiosi di quelli perseguiti dai tedeschi soltanto perché furono effettivamente realizzati. 127
Stile basso e stile elevato
Non serve dilungarsi sul contenuto della propaganda. In tutti i paesi ci fu un vero e proprio fiume di quello che Paul Fussell ha chiamato «stile elevato»: un amico diventava un «camerata», un cavallo un «destriero», il nemico l’«avversario». 128 In Berlino Barbara Chesterton affermava che la Gran Bretagna stava «combattendo per la speranza e l’aspettativa ... per la lunga arma dell’onore e della rimembranza». La poesia era il veicolo privilegiato per questo genere di sentimenti. «La morte non è morte per colui che ha il coraggio di morire», sentenziava Sir Henry Newbolt in Sacramentum Supremum. 129 «Cosa rimane se crolla la libertà?», domandava Kipling in For All We Have and Are; «chi muore se l’Inghilterra vive?». Nessun aspetto della guerra, non importa quanto poco romantico, era esente da questo stile pomposo. Newbolt era in grado di impiegarlo anche quando parlava di un film («Oh, immagine vivente dei morti / Oh, canzoni senza suoni»). 130 Alfred Noyes, un altro poeta della vecchia scuola, descriveva le operaie delle fabbriche di munizioni di Glasgow che «profondono tutta la passione della maternità» sulle loro «splendenti nidiate di proiettili ... partorite per fare da scudo [sic] a un’amata prole di carne e sangue». 131 Gilbert Murray cercò di giustificare queste sciocchezze sostenendo che
il linguaggio del romanzo d’avventura e del melodramma è oggi diventato il linguaggio della nostra vita normale ... Vecchie espressioni, come «meglio morti che senza onore», che consideravamo adatte solo per il palcoscenico o le favole dei bambini, sono oggi le verità comuni in base alle quali viviamo. 132
Davvero troppo. Un critico più sobrio colse molto più nel segno quando liquidò lo stile elevato del tempo di guerra definendolo una «verniciatura di parole». 133
Per la propaganda britannica la violazione della neutralità del Belgio fu l’asso da giocare, e difatti fu giocata ad nauseam. La Gran Bretagna, come avevano proclamato gli «uomini di lettere», stava combattendo «per sostenere la legge della giustizia comune tra i popoli civili e per difendere i diritti delle piccole nazioni». 134 Il Red Book di Oxford contrapponeva la Gran Bretagna, uno Stato fondato sul regno della legge, alla Germania, paese abituato a infrangere i trattati. Il «solenne trattato più di una volta rinnovato» era, così scriveva Gilbert Murray in How Can War Ever Be Right?, l’argomento decisivo a favore dell’entrata in guerra. 135 Anche Harold Spencer rassicurò i liberali dubbiosi che la Gran Bretagna era entrata in guerra per imporre il rispetto della legge e «per questo motivo soltanto». 136 Lo scrittore Hall Caine pubblicò King Albert’s Book: A Tribute to the Belgian King and People, «un patto solenne ... firmato sull’altare violato della libertà di una piccola nazione». 137 John Galsworthy e lo storico Arnold Toynbee furono tra i molti che sulla stampa si scagliarono contro gli «orrori» della Germania. Thomas Hardy scrisse addirittura una poesia sull’argomento intitolata On the Belgian Expatriation, e il clero anglicano più bigotto non si stancò mai di ribadire le medesime cose. 138 E lo stesso vale anche per la Commissione parlamentare per il reclutamento: il suo manifesto The Scrap of Paper riproduceva i sigilli e le firme del trattato del 1839. Al confronto, solo una piccola parte della propaganda britannica si concentrava sul problema strategico (così importante all’interno del gabinetto del 1914 e così caro ai germanofobi prebellici), secondo il quale il Belgio e la Francia dovevano essere difesi per impedire alla Germania di allestire basi navali sulla costa della Manica. 139
Com’è noto, la propaganda dell’Intesa insistette sulle «atrocità» inflitte alla popolazione belga dall’esercito tedesco durante la sua avanzata. Dopo la guerra, il pacifista liberale Arthur Ponsonby fornì un celebre esempio (in realtà un falso) di come una corrispondenza della «Kölnische Zeitung» – «Quando si sono diffuse le notizie della caduta di Anversa le campane della chiesa hanno suonato a stormo» – venisse apparentemente travisata in vari giornali dell’Intesa, e precisamente in questo modo: «I barbari conquistatori di Anversa hanno punito gli sventurati preti belgi per il loro eroico rifiuto di suonare le campane della chiesa impiccandoli a testa in giù come battenti viventi all’interno delle campane». 140 Peraltro, per «illustrare» le storie delle atrocità tedesche in Belgio vennero utilizzate foto scattate prima della guerra di autentici pogrom russi. Il «Sunday Chronicle» fu uno dei tanti giornali britannici a sostenere che i tedeschi avessero tagliato le mani dei bambini belgi, mentre l’ex allarmista William Le Queux descrisse con malcelato piacere «le orge di sangue e di nefandezze» in cui si pensava che i tedeschi indulgessero, tra cui «la spietata violenza commessa su donne, fanciulle e bambine in tenera età». Altri scrittori si compiacevano a immaginare fanciulle sedicenni «costrette a bere» e poi «stuprate ripetutamente» sul prato prima che i soldati tedeschi «piantassero le baionette nei loro seni». Il bambino infilzato dalla baionetta era un’altra immagine favorita. J.H. Morgan accusò addirittura i tedeschi di «sodomizzare i piccoli bambini». Tra il 1914 e il 1918 furono pubblicati in Gran Bretagna almeno undici opuscoli su questo argomento, tra i quali l’ufficiale Report ... on Alleged German Atrocities, redatto da Lord Bryce nel 1915, 141 che la Wellington House, sotto la direzione di Masterman, fece tradurre quasi integralmente e distribuire all’estero. Le atrocità si esportavano bene. Numerosi manifesti commissionati dal Prestito americano della libertà raffiguravano immagini di ninfette belghe mezze svestite in balia di scimmieschi unni per sollecitare lascivi risparmiatori all’acquisto dei buoni di guerra. 142
Scrittori britannici più prudenti cercarono di distinguere fra «gli ideali di libertà e rispetto della legge dell’Europa occidentale», o della «razza di lingua inglese», e «il dominio di “ferro e sangue”» preferito dalla «casta militare» tedesca. 143 Anthony Hope, autore di The Prisoner of Zenda, prese in giro il militarismo tedesco in alcune parodie di Bernhardi, tra le quali spicca The German (New) Testament. Anche Thomas Hardy denunciò «gli scritti di Nietzsche, Treitschke, Bernhardi ecc.». 144 Questo tipo di argomentazione permise ai liberali con problemi di coscienza di tracciare sul «Daily Mail» una distinzione tra il popolo tedesco, con il quale sostenevano di non avere alcuna controversia, e «la tirannia che lo ha stretto nella sua morsa». In questo modo la guerra poteva essere presentata come «l’ultima lotta suprema del vecchio ordinamento contro il nuovo». 145
Un altro tema della propaganda britannica, elaborato a uso e consumo degli americani, e colto al volo da H.G. Wells, era l’idea che la Gran Bretagna combattesse una guerra contro il «Kruppismo ... questa gigantesca macchina da guerra ... questo immenso e sordido commercio di strumenti di morte». 146 Nei primi scritti bellici di H.G. Wells la guerra divenne in maniera piuttosto improbabile una guerra per «il disarmo e la pace in tutta la terra». 147 Ancora più accuratamente diretto ai sentimenti americani era il suo pionieristico opuscolo The War that Will End the War, scritto il 14 agosto, dal quale derivò gran parte della successiva retorica di Woodrow Wilson.
I propagandisti si compiacevano anche a denigrare le reciproche culture nazionali. In parte come risposta al manifesto tedesco «Al mondo della cultura!», gli scrittori britannici si scagliarono contro la «truculenza e l’ottusa erudizione» del «mondo accademico teutonico». 148 Gli accademici britannici, che per decenni avevano provato un complesso di inferiorità nei confronti del rigore delle università tedesche, si affezionarono a questo tema. Gilbert Murray non si fece scrupolo di deridere gli studiosi tedeschi che «passano la vita assorbiti nel perseguimento specifico di qualche obiettivo che ... non ha grande importanza e che non offre alcuna illuminazione o bellezza». A Cambridge Sir Arthur Quiller-Couch dichiarò guerra «alla sterile inutilità delle ricerche e della critica storica [tedesche]». 149 «L’epoca delle note a piè di pagina tedesche», sentenziò un ottimista di Oxford, «sta per tramontare». 150 La prolissa denuncia espressa da Thomas Mann contro la «civiltà» britannica, ritenuta inferiore alla Kultur tedesca (in particolare Wagner), era ricavata dallo stesso abito smesso e dimostrava che le note a piè di pagina erano l’ultima delle cose che non andavano nella vita intellettuale tedesca. 151 Si fatica a crederlo, pur essendo vero, ma in Gran Bretagna persone intelligenti pensavano di combattere le note a piè di pagina, e in Germania persone altrettanto intelligenti pensavano di difendere gli accordi in mi bemolle.
A controbattere tutto ciò si affermava che la guerra avrebbe avuto un effetto purificatore sulla cultura nazionale di ciascun paese; asserzione perfettamente illustrata dai commenti espressi nel 1914 dalla «Poetry Review», che aspirava a «una “catarsi” delle secrezioni malate così frequenti negli ultimi tempi». 152 Edmund Gosse era un esponente illustre di questa teoria in Gran Bretagna, e prevedeva che la guerra, proprio come un «disinfettante», avrebbe sanato «le pozze stagnanti e i canali intasati dell’intelletto»; confidava, in particolare, che lo avrebbe liberato dal Vorticismo. 153 Il poeta tedesco Richard Dehmel sperava, in modo del tutto simile, che la guerra avrebbe convinto il comune cittadino tedesco a pensare meno «alla libertà, all’uguaglianza e ad altre cose del genere» e più «alla crescita degli alberi».
Ciò che rendeva assolutamente ridicole le affermazioni più altisonanti di questi scrittori era proprio il degrado culturale che la guerra sembrava avere determinato. Ben lungi dal sollevare il morale della nazione, tutto questo non era altro che una sfilata di volgarità. Slogan grossolani come «Jeder Tritt ein Britt» («Per ogni passo, un britannico»), «Jeder Stoss ein Franzos» («Per ogni colpo, un francese») e «Jeder Schuss ein Russ» («Per ogni pallottola, un russo»), avevano equivalenti ovunque, come «Impicchiamo il Kaiser», per fare un solo esempio. Cartoline umoristiche banalizzavano la guerra: una cartolina tedesca provava a scherzare su un attacco con i gas, mentre gli italiani cercavano di trovare il lato divertente delle atrocità sui belgi. 154
Questa banalizzazione era parte di un più ampio sforzo per rendere appettibile, o almeno per purificare, il combattimento in se stesso. Nei resoconti che Northcliffe scriveva dal fronte, la guerra appariva come una specie di allegra vacanza estiva: «La vita all’aria aperta, il cibo regolare e abbondante, gli esercizi e l’assenza di preoccupazioni e responsabilità tengono il soldato in forma e di buon umore». Uno dei temi più sfruttati in Gran Bretagna era quello della guerra considerata una sorta di sport: «la grande caccia» o «una bella corsa con i segugi». 155 Persino la morte era vista attraverso questo prisma panglossiano. Il «Times» riportò le seguenti parole di Lloyd George: «I soldati britannici sono degli ottimi sportivi ... hanno combattuto come dei veri sportivi ... e a migliaia sono morti come buoni sportivi». Il cadavere del soldato britannico, scrisse William Beach Thomas in un articolo pubblicato sul «Daily Mirror», appariva «più tranquillamente fedele, più semplicemente risoluto degli altri ... come se, mentre moriva, si fosse preoccupato di non mostrare atteggiamenti eroici nella sua postura». 156 Queste stupidaggini venivano dispensate in modo ancora più abbondante proprio quando le perdite erano più elevate (in questo caso specifico in occasione della battaglia della Somme). La stampa francese dovette ricorrere alla stessa tattica nella disastrosa fase iniziale della guerra, rassicurando i lettori che i proiettili tedeschi erano inefficaci, e nuovamente nel 1915, quando si esaltò, del tutto falsamente, il buon umore dei poilus «che andavano in battaglia come se fosse una festa ... Aspettavano il momento dell’offensiva come si aspetta il momento della vacanza. Erano così felici! Ridevano! Scherzavano!». 157
Infine, i propagandisti cercarono di incoraggiare i loro concittadini facendo balenare la prospettiva che la vittoria avrebbe fruttato vantaggi politici interni. Innanzitutto, i governi strombazzavano l’unità nazionale richiamata dal conflitto: la Francia aveva la sua Union sacrée, la Germania la sua Burgfrieden e la Gran Bretagna si dimenticò allegramente dell’Irlanda e tornò «ai soliti affari» (parte del significato di questo slogan stava nel fatto che gli affari non erano stati per niente soliti nel 1913-1914). Lloyd George fu uno dei primi a conferire a questa linea di pensiero una sfumatura politica già nel settembre del 1914 dicendo al pubblico che lo ascoltava nella Queen’s Hall di avere osservato «in tutte le classi, alte e basse, libere da qualsiasi egoismo, il nuovo riconoscimento che l’onore del paese non dipende semplicemente dal perseguimento della gloria sul campo di battaglia, ma anche dalla protezione e dalla tranquillità dei suoi focolari». 158 Era, di fatto, una promessa in codice ai suoi sostenitori liberali: come nel caso delle corazzate, il costo della guerra non sarebbe stato incompatibile con una politica sociale e una tassazione progressiva. Più oltre nel corso del conflitto, naturalmente, la propaganda britannica fece promesse ancora più esplicite sul fatto che la guerra avrebbe migliorato la vita materiale del popolo britannico, da cui «case adatte a eroi».
Il pubblico
Ma la propaganda funzionava davvero? Non abbiamo molti elementi per rispondere a questa domanda, ma sono comunque sufficienti per azzardare un giudizio.
La censura riuscì probabilmente a ottenere qualche risultato: il semplice fatto che i giornalisti se ne lamentassero la dice lunga sui suoi effetti. Senza dubbio, riuscì a mantenere il segreto su molte cose in un modo che sarebbe risultato impossibile durante la seconda guerra mondiale, quando le radio private con frequenze internazionali misero in crisi persino la morsa di Goebbels sulla stampa. L’imbarazzante perdita della corazzata Audacious al largo delle coste dell’Irlanda nell’ottobre del 1914 non fu resa nota in Gran Bretagna, come non lo fu la battaglia dello Jutland fino a qualche tempo dopo la sua conclusione. I tedeschi non seppero mai quanto fossero gravi gli ammutinamenti francesi del 1917 e probabilmente non lo seppe neppure la maggior parte dei civili francesi.
Anche la propaganda vera e propria potrebbe avere ottenuto qualcosa. Quel che è certo è che si vendeva bene. Il Red Book di Oxford vendette 50.000 copie, delle quali solo 3300 vennero consegnate al Foreign Office per la diffusione all’estero. Nel settembre del 1915 erano stati pubblicati ottantasette diversi opuscoli oxoniani, per una tiratura complessiva di 500.000 copie. Con un prezzo oscillante tra uno e quattro pence, vendettero molto bene: nel gennaio del 1915 ne erano già state vendute poco meno di 300.000 copie. 159 The Old Front Line, lo spassionato resoconto della battaglia della Somme scritto da John Mansfield, vendette 20.000 copie in Gran Bretagna e circa 4000 in America. Statement of the British Case, di Arnold Bennett, vendette 4600 copie in Gran Bretagna; anche Foreign Policy of Sir Edward Grey ebbe ottime vendite. 160 Il film For the Empire fu un grande successo: alla fine di dicembre del 1916 lo avevano già vista circa 9 milioni di persone. 161
Si è calcolato che nell’ultimo anno di guerra la Commissione nazionale per gli scopi bellici avesse raggiunto con le sue pubblicazioni oltre un milione di lettori. 162
D’altra parte, sembra improbabile che il celebre manifesto su Kitchener di Alfred Leete possa essere stato così efficace come farebbe supporre la sua fama postbellica. 163 Il film You! (che aveva lo stesso scopo) fu un fallimento al botteghino. 164 Viceversa, alcune opere che criticavano la guerra ebbero un grande successo commerciale. Common Sense about the War di George Bernard Shaw vendette 25.000 copie. Il disilluso Mr. Britling Sees It Through di H.G. Wells giunse alla tredicesima edizione prima della fine del 1916 e gli fruttò 20.000 sterline di diritti nei soli Stati Uniti. 165 Il fuoco di Henri Barbusse fu un bestseller.
Ancora più ambigue sono le testimonianze sul modo in cui furono accolte pellicole come The Battle of the Somme. Fino a che punto possa essere considerato un film di propaganda è ancora da stabilire. Non meno del 13 per cento dei settantasette minuti di proiezione è dedicato a riprese di morti e feriti; nell’ultimo quarto del film la proporzione sale al 40 per cento. I sottotitoli ostentano una fredda impassibilità: «I Tommies britannici salvano un camerata sotto un bombardamento d’artiglieria. (Quest’uomo è morto venti minuti dopo avere raggiunto una trincea)». Ma il film ebbe un grande successo. «Kine Weekly» lo definì «il miglior film di guerra che sia mai stato girato». Nell’ottobre del 1916 era già stato proiettato in oltre duemila sale di tutto il paese, ossia in poco meno della metà di tutte le sale cinematografiche esistenti. Incassò circa 30.000 sterline. 166
D’altra parte, non tutti l’apprezzarono. Il «Times» e il «Guardian» ricevettero lettere in cui ci si lamentava «di un intrattenimeto che ferisce il cuore e viola l’intima santità del lutto» (per citare le parole del rettore di Durham). E molti di coloro che approvarono il film lo fecero proprio perché faveva piangere il pubblico di fronte agli orrori della guerra. 167 Inoltre, ci si può domandare quanto bene facessero questo genere di pellicole quando venivano mostrate a un pubblico straniero. I rapporti dei diplomatici rivelano che, per esempio, i nicaraguensi si annoiavano guardando lunghe sequenze di «incrociatori che avanzavano in mari nebbiosi, interrotte occasionalmente dall’immagine di una mascotte», mentre il pubblico di Khartoum voleva vedere più «tedeschi o turchi morti» e gli spettatori cinesi lamentavano la mancanza di veri combattimenti. 168 Quando The Battle of the Somme fu proiettato all’Aia, la Croce rossa vi riconobbe un’opportunità perfetta per raccogliere fondi a favore della sua lega contro la guerra. Negli Stati Uniti, come Buchan venne informato dal suo agente a New York, c’erano state «tali e tante lettere di lamentela per gli orrori dei film sulla Somme, con effetti disastrosi sul reclutamento e sull’atteggiamento della gente nei confronti della guerra, che fummo costretti a ritirare il film e a sottoporlo a una rigorosa censura». 169 Questo semplice fatto dovrebbe gettare un’ombra di dubbio sul mito della brillante propaganda di guerra britannica.
Ci sono invece buoni motivi per ritenere che i tedeschi usassero il cinema in modo più efficace. Oskar Messter sosteneva che in Germania e nei paesi alleati almeno diciotto milioni di persone avessero visto i suoi cinegiornali, e più di dodici milioni nei paesi neutrali. 170 Se sono vere, si tratta di cifre alquanto cospicue. Una grande differenza dei film di propaganda tedeschi rispetto a quelli britannici stava nella preponderanza dei drammi rispetto ai documentari: mentre i tedeschi produssero numerosi film del genere «grigio militare» d’avventura e romantici, in Gran Bretagna Hearts of the World (uscito nel 1916) rappresentò un’eccezione (significativamente il regista era americano). Ci sono quindi validi motivi per chiedersi se produttori britannici come Geoffrey Malins avessero ragione a credere che mostrare «la morte in tutta la sua lugubre nudità» avrebbe rafforzato la determinazione del pubblico. 171
Il segno più evidente del successo della propaganda dell’Intesa all’estero è probabilmente offerto dalle proteste che suscitò fra i tedeschi. L’Ufficio centrale dei servizi all’estero produsse un intero «Libro Bianco» dedicato alla confutazione delle accuse sulle presunte atrocità compiute dalle truppe tedesche. I resoconti su tali atrocità turbarono anche molti comuni cittadini tedeschi. Lo storico dell’arte di Amburgo Aby Warburg trascorse gran parte della guerra a raccogliere ossessivamente dati dai giornali per dimostrare la falsità di tali accuse. 172 Meno certo è fino a che punto la propaganda riuscisse realmente a influenzare l’opinione pubblica dei paesi neutrali. È chiaro, per esempio, che la decisione americana di intervenire nel conflitto non era dovuta quasi in alcun modo alla propaganda dell’Intesa. 173 Ed è alquanto facile concludere che entrambe le parti sprecarono un bel po’ di denaro cercando di ottenere l’appoggio della stampa in paesi quali l’Italia e la Grecia. 174 Per quanto riguarda l’effetto della propaganda alleata sull’opinione pubblica tedesca, non ci sono molti dati; ma se possiamo trarre qualche conclusione dal comportamento di alcuni soldati tedeschi (e, più specificamente, di marinai) nel novembre del 1918, allora furono i bolscevichi a ottenere i maggiori successi in questo campo. 175
Inoltre, per quanto il giornalismo nazionalista esaltasse il morale sul fronte interno, non è affatto certo che avesse qualche effetto concreto sugli uomini direttamente impegnati nei combattimenti. I soldati leggevano senza dubbio i giornali di Northcliffe: il «Daily Mail» era venduto da ragazzini francesi all’ingresso delle trincee di comunicazione, e persino nel momento più furioso della battaglia della Somme i quotidiani arrivavano da Londra a distanza di un solo giorno dalla pubblicazione. 176 Come vedremo in seguito, le storie di atrocità esercitarono una notevole influenza sui soldati. Ma i resoconti meno realistici sulla vita e la morte al fronte erano considerati ridicoli. «Testimone oculare», cioè il servizio stampa inglese, fu soprannominato «Polvere negli occhi», e lo stile sciovinista di Hilaire Belloc veniva deriso, come nella parodia del «Wipers Times» di «Belary Hilloc», nel febbraio del 1916:
In questo articolo intendo mostrare chiaramente che, nelle condizioni attuali, tutto converge verso un rapido annientamento del nemico. Consideriamo innanzitutto l’effetto della guerra sulla popolazione maschile tedesca. In primo luogo teniamo la nostra cifra di 12 milioni come il totale della popolazione tedesca combattente. Di questi, 8 milioni sono stati uccisi o stanno per esserlo; ne rimangono perciò 4 milioni, un milione dei quali non sono combattenti, essendo arruolati in marina. Dei restanti 3 milioni, possiamo escluderne 2,5 milioni, temporaneamente inadatti al combattimento a causa dell’obesità e di altri malanni provocati da un modo di vivere estremamente rozzo. Il che ci lascia con una forza complessiva di 500.000 uomini. Si sa che 497.240 di questi soffrono di malattie incurabili; dei rimanenti seicento, 584 sono generali o ufficiali di stato maggiore. Perciò risulta che sul fronte occidentale ci sono 16 uomini. Io ritengo che questo numero non sia sufficiente a garantirgli nemmeno una possibilità di resistere ad altri quattro grandi attacchi. 177
In Fight to the Finish Siegfried Sassoon esprime tutto il suo disprezzo nei confronti di quei «giornalisti vigliacchi», che si immagina presi a baionettate dai «ragazzi» dopo la parata della vittoria per le strade di Londra. 178 Anche i soldati francesi la pensavano più o meno nello stesso modo riguardo ai loro giornali più interventisti. 179 A Ypres, nel luglio del 1915, alcuni soldati sassoni lanciarono nelle linee britanniche una pietra sulla quale era avvolto il seguente messaggio: «Mandateci un giornale inglese in modo che possiamo sapere la verità». 180
I soldati britannici preferivano produrre e leggere i propri giornali di trincea (circa la metà dei quali erano scritti da altri militari di truppa). 181 Lo stesso valeva per i francesi, che produssero una serie di «giornali di trincea» – circa quattrocento 182 – con testate come «Le Rire aux Eclats» e, inevitabilmente, «Le Poilu». Una delle più importanti riviste satiriche francesi, «Le Crapouillot», vide la luce in trincea nell’agosto del 1915. 183 I soldati tedeschi erano altrettanto scettici nei confronti della propaganda del proprio governo. Senza dubbio, molti soldati istruiti (come Otto Dix) tenevano le opere di Nietzsche nel loro zaino e credevano sinceramente di «difendere il sentimento tedesco contro la barbarie asiatica e la mollezza latina». 184 Ma questo accadeva all’inizio. Quando un cinegiornale intitolato Dal fronte venne mostrato alle truppe nel 1916, fu accolto con fischi e risate. 185
Forse la triste verità sulla propaganda di guerra è che ebbe la massima influenza sul gruppo sociale che contava di meno per lo sforzo bellico: i bambini. In Gli ultimi giorni dell’umanità Karl Kraus descrive bambini viennesi che si scambiano slogan bellici; Hänschen saluta Trudchen con un «Gott strafe England» («Dio annienti l’Inghilterra»), mentre altri due bambini discutono sul loro «dovere» di sottoscrivere un prestito di guerra:
KLAUS: Eravamo accerchiati, oggi lo capirebbe anche un bambino.
DOLLY: Invidia britannica, revanscismo francese, cupidigia russa – sappiamo tutto ... La Germania voleva un posto al sole.
KLAUS: L’Europa era una polveriera.
DOLLY: Il trattato con il Belgio era un pezzo di carta straccia. 186
Diversi dati confermano che si trattava solo di una piccola esagerazione. Quando fu chiesto ai bambini di due scuole londinesi quali fossero i loro film preferiti, quelli di guerra furono citati per secondi. Alla richiesta di elencare i loro cinque film più amati, la maggior parte mise al primo posto The Battle of the Somme oppure The Battle of the Ancre. Lo stupefacente riassunto di quest’ultimo film scritto da un alunno dimostra come anche le scene più realistiche di battaglie potevano essere trasformate da una mente impressionabile esposta fin dalla più tenera età alle opere di Buchan e dei suoi compari:
Ora suona il fischietto e loro balzano sul parapetto, rap, tap, tap, crepitano le mitragliatrici tedesche, ma niente intimorisce i nostri soldati. Bang! E il loro valoroso capitano cade. Questo fa infuriare i nostri uomini. Alla fine raggiungono le linee tedesche. La maggior parte dei tedeschi scappa urlando «Kamerad! Kamerad!» ecc. Ora vengono portati i feriti britannici e tedeschi. Poco dopo seguono i prigionieri tedeschi, certe canaglie dall’aria cattiva che non mi piacerebbe proprio incontrare in una notte buia. 187
Alla cassa della storia
Una delle tesi più interessanti sul ruolo svolto dalla stampa durante la guerra è stata avanzata dallo scrittore satirico viennese Karl Kraus nella sua rivista «Die Fackel», di cui era il tuttofare, e nella sua commedia epica sulla guerra, Gli ultimi giorni dell’umanità.
Kraus rimase immediatamente affascinato e spaventato dal modo in cui i giornali parlavano della guerra: un misto di consapevole cinismo e di inconscia ironia, come se si trattasse di una «buona storia» da raccontare, se non addirittura la migliore. All’inizio di Gli ultimi giorni dell’umanità sono proprio i giornalisti a trasformare degli ubriachi xenofobi in folle di patrioti, ed è il direttore a creare l’«atmosfera», quasi del tutto assente dai funerali di Francesco Ferdinando. I fotografi si scambiano i dettagli di morti particolarmente fotogeniche («proprio al naturale») e di esecuzioni («peccato che tu non ci fossi»). Quando diciassette soldati austriaci vengono colpiti da uno shrapnel mentre sono presenti i giornalisti, si tratta subito del «più grosso riconoscimento fatto alla stampa nella guerra mondiale». Quando un soldato ferito chiede a un giornalista di spostarsi, quest’ultimo gli risponde rabbiosamente: «Ma che vuole, sa che lunedì scorso mi hanno tagliato ottanta righe». Nei cinema i filmati dell’affondamento del Lusitania sono preceduti dal seguente annuncio: «Durante questo programma è permesso fumare». Un film sulla battaglia della Somme diventa «il più grande evento di questa guerra».
La più viscida dei numerosi giornalisti viscidi descritti in Gli ultimi giorni dell’umanità è Alice Schalek, la corrispondente di guerra per la quale le sofferenze dei soldati sono solo un fantastico «pezzo di colore» per il suo giornale. Per lei la guerra non è diversa dalle commedie che recensiva in tempo di pace: lo «spettacolo» al fronte è «di prim’ordine» e nelle interviste gli ufficiali sono trattati come se fossero stelle del palcoscenico («Che sensazione prova?» è la sua domanda preferita). Anticipando Hemingway, la stessa Schalek prova a sparare con un fucile e trova «interessante» quando, come l’hanno avvertita, il nemico risponde al fuoco con tanto di interessi. In tutta la commedia Kraus dimostra come il linguaggio giornalistico distorca la visione della guerra: «il pubblico si ammassa» a «migliaia di migliaia» (alcuni zotici minacciano gli stranieri); «con autentico coraggio Vienna accetta la fatale decisione ... ben lungi da un’eccessiva fiducia o da debolezze» (altri zotici minacciano gli stranieri); un giornalista trasmette «una fondamentale dichiarazione di uno dei nostri vittoriosi generali» (un generale rimbambito blatera incomprensibilmente); «i soldati sono liberi» (gli uomini sono costretti a combattere dai loro stessi datori di lavoro). Inoltre, questo linguaggio infetta tutti: le autorità militari cominciano a usarlo e, come abbiamo visto, anche i bambini. Una ragazzina si rifiuta di giocare con le sue amiche perché lo sport è una sciocchezza tipicamente inglese, mentre i tedeschi non pensano che a lavorare. Deliziata, la madre suggerisce di mandare le sue «parole d’oro» alla «Berliner Abendzeitung».
Questa non era una semplice conseguenza della guerra. Al contrario: secondo Kraus, era la guerra a essere una conseguenza dell’impoverimento dell’immaginazione provocato dalla stampa di massa. «In decenni di pratica», sosteneva,
il giornalismo ci ha portati a un tale grado di impoverimento dell’immaginazione da renderci capaci di combattere una guerra di annientamento contro noi stessi. Poiché l’infinita efficienza del suo apparato ci ha privato di ogni capacità di sperimentare e di sviluppare mentalmente le nostre esperienze, ora si può iniettare in noi quel coraggio di fronte alla morte che ci serve per potersi lanciare in battaglia ... L’abuso del linguaggio abbellisce l’abuso della vita. 188
La chiave della guerra, quindi, era «l’automutilazione mentale dell’umanità attraverso la sua stampa». La tesi centrale del suo saggio In Dieser grossen Zeit (In questi grandi tempi) era che «gli atti non producono soltanto resoconti, ma i resoconti sono anche responsabili delle azioni», sicché «se i giornali pubblicano menzogne sulle atrocità, ne risulteranno delle atrocità». Kraus ribadì la stessa tesi in Gli ultimi giorni dell’umanità: «La carta brucia e ha dato il mondo alle fiamme. Le pagine dei giornali sono servite da miccia per la conflagrazione mondiale ... Sarebbe mai stata possibile la guerra senza la stampa – sarebbe stato possibile che cominciasse o che continuasse?».
Ma la stampa agiva soltanto per il proprio tornaconto, come dice uno dei giornalisti di Kraus: «Bisogna stimolare l’appetito del pubblico per la guerra e per i giornali. L’una è inseparabile dagli altri». Le folle acclamano «l’Austria, la Germania e la “Neue Freie Presse”». «Sono dei nostri?», domanda un giornalista a un collega sulla linea del fronte. «Vuoi dire del corpo corrispondenti?», risponde questi. L’unica «internazionale» che ha tratto vantaggio dalla guerra, sostiene «il criticone», vale a dire l’alter ego di Kraus, è «quella che mette le cose nero su bianco, la stampa». 189
Questa tesi dovrebbe suonare familiare al lettore moderno, visto che anticipa commentatori successivi come Walter Benjamin, Marshall McLuhan e Jean Baudrillard. Come minimo, ci fa opportunamente ricordare che il potere dei mass media non è un fatto recente, come non lo è l’entusiasmo dei giornali per la guerra. Ma Kraus aveva ragione? Conseguenza implicita della sua tesi era che la guerra aumentava la diffusione e quindi i profitti dei giornali. Com’è noto, Kraus stesso denunciò Moritz Benedikt, proprietario della «Neue Freie Presse», come «l’uomo che siede alla cassa della storia del mondo». 190 Sebbene si sia scritto moltissimo sulla propaganda di guerra, finora non è stato ancora compiuto alcun tentativo di valutare l’impatto del conflitto sulla stampa europea in termini di diffusione e profitto.
Tabella 19 – Diffusione dei principali giornali britannici, 1914-1918 (in migliaia di copie).
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1914 |
1915 |
1916 |
1917 |
1918 |
«The Times» |
183 |
|
184 |
137 |
131 |
«Daily Mail» |
946 |
1105 |
1172 |
938 |
973 |
«Daily Express» |
295 |
373 |
434 |
450 |
579 |
«Daily News» |
550 |
800 |
|
|
|
«Daily Chronicle» |
400 |
|
758 |
|
|
«Daily Mirror» |
1000 |
|
1307 |
|
|
«Daily Sketch» |
800 |
1500 |
|
820 |
|
«Sunday Times» |
35 |
|
|
|
50 |
«Observer» |
133 |
194 |
224 |
188 |
195 |
«News of the World» |
|
2000 |
|
2750 |
|
Fonte: McEwen, National Press, pp. 468-483.
A prima vista, Kraus aveva ragione: la guerra fece aumentare le vendite di giornali in modo vertiginoso. La diffusione del «Daily Mail» crebbe da 946.000 copie prima della guerra a poco meno di 1,5 milioni di copie durante le prime settimane di agosto del 1914 e restò attorno a 1,2 milioni di copie fino al giugno del 1916. Anche alla fine della guerra restò al di sopra dei livelli prebellici (cfr. fig. 11).
Un giornale serale registrò un aumento della sua diffusione del 144 per cento il 3 agosto 1914; ma questo record fu superato il 16 dicembre, quando giunse la notizia del primo raid navale tedesco sulla costa orientale. Il numero di copie vendute dal «Times» salì a 278.000 il 4 agosto e a 318.000 il mese seguente. Anche l’«Evening News» guadagnò circa 900.000 nuovi lettori nella seconda metà del 1914. Il «Daily Express» giunse quasi a raddoppiare la sua diffusione durante la guerra; mentre «John Bull» di Horatio Bottomley vendeva qualcosa come 2 milioni di copie alla fine del 1918, cifra superata solo dal nuovo «Sunday Pictorial» e da «News of the World».
In Francia «Le Matin» registrò un boom analogo. In Germania la diffusione del «Berliner Tageblatt» aumentò da 220.000 copie nel 1913 a 300.000 nel 1918. 191 Tra il 1913 e il 1918 la diffusione complessiva dei giornali tedeschi aumentò di quasi il 70 per cento. 192 Una selezione di sette testate per cui sono disponibili dati indica un sostanzioso aumento dei lettori (cfr. tab. 20).
Anche la stampa dei paesi neutrali ne trasse beneficio. La tiratura della «Neue Zürcher Zeitung» raddoppiò durante la guerra, mentre quella del «New York Times» aumentò del 48 per cento prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. 193 Non c’è quindi dubbio che il conflitto fece vendere più copie, proprio come aveva previsto Northcliffe. Lo stesso vale per il cinema. Prima della guerra c’era un solo cinegiornale tedesco; a settembre del 1914 ce n’erano già sette. Alla fine della guerra il numero di sale cinematografiche in Germania era aumentato del 27 per cento e il numero delle case di produzione era salito da trentatré a centotrenta. 194
Ma la tesi di Kraus dev’essere analizzata più accuratamente. Come mostrano le cifre relative alla stampa britannica, l’aumento delle vendite non fu un dato costante. Nel complesso il «Times» perse lettori nel corso della guerra. Altri quotidiani aumentarono la propria diffusione, ma in seguito registrarono una riduzione (per esempio il «Telegraph»). Alcuni dei giornali che aumentarono la propria tiratura avevano già ottenuto un risultato simile prima della guerra. Altri non incrementarono le vendite durante la guerra, mentre un numero consistente di giornali (soprattutto quelli socialisti) perse lettori. 195 Inoltre, diversi svantaggi economici impedivano che una maggiore diffusione si traducesse in maggiori profitti. Gli introiti derivanti dalla pubblicità calarono ovunque e, come in altre industrie del settore dei servizi senza un ruolo diretto nella produzione di armi, la stampa perse manodopera specializzata. Particolarmente dannose furono la carenza di carta e l’inflazione generale provocata dalla guerra. In Gran Bretagna il razionamento della carta fu introdotto nel 1918, con una riduzione delle assegnazioni del 50 per cento, anche se i giornali erano stati costretti a ridurre il numero delle pagine già molto prima a causa del calo degli introiti pubblicitari. 196 In Francia, a partire dall’agosto del 1914 i quotidiani furono ridotti ad appena due pagine e, benché in seguito questo limite fosse portato a sei pagine in certi giorni della settimana, nel 1917 la scarsità generale li ridusse nuovamente a quattro pagine per cinque giorni alla settimana. 197 In Germania la carta da giornale cominciò a essere razionata già nell’aprile del 1916 e le principali testate berlinesi vennero ridotte a circa la metà delle dimensioni che avevano prima del 1916. 198 La carta da giornale diventò più costosa ovunque: in Francia di un coefficiente di oltre cinque punti, e persino negli Stati Uniti aumentò del 75 per cento. 199 Anche il prezzo dell’inchiostro e di altre materie aumentò in modo brusco: in Germania arrivò quasi al quadruplo durante la guerra. 200 Tuttavia, considerando che i giornali avevano sempre meno pagine, era difficile aumentare il prezzo di copertina in accordo con quanto avrebbe richiesto il costo della carta e dell’inchiostro senza correre il rischio di perdere lettori. Il prezzo del «Times» aumentò da un penny nel marzo del 1914 a 1,5 pence nel novembre del 1916 e a 2 pence nel marzo del 1917, arrivando a 3 pence nel marzo del 1918. Inoltre, Northcliffe fu costretto a raddoppiare il prezzo del «Daily Mail». Conseguentemente, la tiratura diminuì. Accadde lo stesso in tutta Europa. La maggior parte dei giornali britannici raddoppiò il prezzo di copertina nel corso della guerra. 201 A tutti i giornali francesi fu imposto il raddoppio del prezzo nel settembre del 1917, 202 e in Germania l’88 per cento dei giornali lo dovette raddoppiare nel 1918. 203 La stessa cosa accadde nella neutrale Svizzera. 204 Così, persino giornali con un buon seguito e che attirarono nuovi lettori subirono perdite finanziarie. I profitti di «Le Matin» diminuirono bruscamente nel 1914-1915 e tornarono ai livelli prebellici soltanto nel 1918; tuttavia, se si opera una correzione per tenere conto dell’inflazione, la ripresa si rivela illusoria. 205
Figura 11 – Diffusione del «Daily Mail», 1914-1918.
Fonte: Grünbeck, Die Presse Grossbritannien, vol. I, p. 150.
Tabella 20 – Diffusione dei principali giornali tedeschi, 1913-1918 (in migliaia di copie).
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1913 |
1914 |
1915 |
1916 |
1917 |
1918 |
|
1913-1918 (aumento in %) |
«Berliner Tageblatt» |
228 |
230 |
238 |
245 |
|
300 |
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31,6 |
«Neue Augsburger Zeitung» |
38 |
40 |
38 |
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58 |
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52,6 |
«Berliner Morgenpost» |
360 |
400 |
430 |
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457 |
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26,9 |
«Cottbuser Anzeiger» |
16 |
17 |
17 |
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28 |
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71,9 |
«Darmstädter Tageblatt» |
15 |
15 |
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22 |
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51,7 |
«Jenauische Zeitung» |
6 |
7 |
7 |
8 |
8 |
8 |
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30,6 |
«Leipziger Neueste Nachrichten» |
142 |
182 |
205 |
196 |
207 |
215 |
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51,5 |
Tutti i giornali tedeschi |
16.320 |
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27.720 |
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69,9 |
Fonte: Heenemann, Auflagenhöhe, pp. 70-86
Questi problemi economici contribuiscono a spiegare perché, durante la guerra, in un certo numero di paesi belligeranti ci fu una significativa riduzione delle testate giornalistiche. Alcune si limitarono a chiudere. In Francia, per esempio, «Gil Blas», «l’Aurore», «l’Autorité» e «Paris-Journal» furono tra le più note a dover chiudere nel 1914. 206 In Germania circa trecento giornali cessarono le pubblicazioni nel primo anno di guerra e più di tremila testate non uscirono per alcuni mesi nel 1918. Anche se alcuni giornali riuscirono a tornare in edicola, la riduzione definitiva delle testate ammontò a poco più di cinquecento. 207 Il numero totale di giornali in Germania diminuì costantemente, passando da 4221 nel 1914 a 3719 durante la guerra, con una riduzione di circa il 12 per cento.
Come ci si può aspettare, furono soprattutto le testate più piccole a risentirne di più. Inoltre, molti dei giornali che riuscirono a sopravvivere persero la loro indipendenza commerciale in quanto gli editori dei quotidiani più importanti utilizzarono i profitti di guerra per espandere i loro imperi. L’esempio più illuminante è l’impero costruito dal direttore della Krupp Alfred Hugenberg, che nel 1916 si impadronì del gruppo di August Scherl (comprendente il «Berliner Lokal-Anzeiger» e «Der Tag»). Si stima che la cosiddetta Maternpresse contasse tra le sue varie testate novecentocinque giornali. 208 Questa contrazione ebbe tuttavia un’inaspettata conseguenza politica. Tra il 1914 e il 1917 la percentuale di giornali che appoggiavano i partiti liberali passò dal 28,2 al 32,4 per cento, mentre scese dal 22,6 al 16,8 per cento la percentuale dei giornali conservatori. 209 E quello di Hugenberg era solo uno dei tre imperi mediatici; gli altri due erano rimasti politicamente liberali ed erano associati ai nomi di Rudolf Mosse («Berliner Tageblatt», «Berliner Morgenzeitung») e di Leopold Ullstein («Berliner Zeitung», «Berliner Abendpost», «Berliner Morgenpost» più la «Vossische Zeitung»). Furono questi grandi gruppi d’interesse, piuttosto che la stampa nel suo insieme, i veri beneficiari della guerra.
Storie vere
Un’ultima osservazione: come aveva detto lo scrittore satirico francese Alain, c’erano due guerre, quella combattuta e quella parlata. Ma era la prima a contare di più. Con buona pace di Kraus, non ci sarebbe stata propaganda di guerra senza la guerra né resoconti di atrocità senza le atrocità. Anche se la stampa dell’Intesa aveva esagerato enormemente quanto era successo in Belgio, non ci sono dubbi che l’esercito tedesco commise realmente delle «atrocità» nel 1914. Secondo le prove fornite dai diari dei soldati tedeschi e da altre fonti affidabili, tutte le armate tedesche in avanzata giustiziarono civili, compresi donne e sacerdoti. Nel complesso circa 5500 civili belgi furono deliberatamente uccisi dall’esercito tedesco, la maggior parte dei quali nel periodo compreso tra il 18 e il 28 agosto 1914, e almeno altri 500 in Francia. 210 Inoltre, i tedeschi usarono i civili come scudi umani e rasero al suolo numerosi villaggi. Almeno in un caso, una ragazza di diciotto anni fu ammazzata a colpi di baionetta. Nella Francia occupata ci furono anche numerosi stupri. 211 In definitiva, Le Queux non si era abbandonato a fantasie eccessive.
Senza dubbio, i problemi di diritto internazionale sollevati da questi incidenti erano molto più complessi di quanto sostenesse la propaganda dell’Intesa. La convenzione dell’Aia del 1899 non era in effetti molto accurata nel precisare come dovessero essere trattati i civili dei territori occupati; di certo non escludeva la pena di morte per chi continuava a resistere dopo che un paese era stato sconfitto e occupato. 212 I tedeschi ricordavano le perdite subite dai loro predecessori nel 1870 a opera dei francs-tireurs, guerriglieri francesi che continuarono a sparare da postazioni nascoste anche dopo la sconfitta dell’esercito regolare. Nel pandemonio scatenato dall’invasione tedesca del 1914, coscritti stanchi e dal grilletto facile tendevano a considerare qualsiasi ostilità da parte dei belgi come una minaccia, specialmente quando le riserve della Guardia civile belga indossarono la più rudimentale delle uniformi (una camicia del Brabante e un nastro attorno al braccio). Anzi, persino colpi sparati accidentalmente dagli stessi tedeschi furono attribuiti a fantomatici francs-tireurs, e talvolta portavano a rappresaglie contro cittadini belgi del tutto innocenti. 213
Resta comunque il fatto che in Belgio i tedeschi si comportarono molto peggio di come si comportarono i russi all’inizio della guerra nella Prussia orientale o in Galizia, come gli stessi tedeschi dovettero ammettere. È opportuno notare che non meno di mille civili serbi furono uccisi dagli austriaci, in confronto ai ventidue sudditi degli Asburgo uccisi dai russi in Galizia fino al febbraio del 1915. 214 Allo stesso modo, non si può negare che 1198 passegeri (tra cui 80 bambini e 128 americani) persero la vita quando il Lusitania venne affondato nel maggio del 1915. I tedeschi sostennero, con piena ragione, che la nave trasportava munizioni per le potenze dell’Intesa e che anche la Gran Bretagna era colpevole per avere violato la libertà dei mari imponendo il blocco contro la Germania; ma nessuna nave fu affondata senza preavviso e nessun cittadino di paesi neutrali fu deliberatamente ucciso dalla Royal Navy.
Hitler pensava che la lezione da imparare dalla propaganda dell’Intesa nel corso della prima guerra mondiale consistesse nel mentire ripetutamente su vasta scala. In questo si sbagliava. La vera lezione era che la propaganda più efficace era quella che si fondava sulla verità. Purtroppo per le potenze dell’Intesa, la loro superiorità morale sugli Imperi centrali in rapporto ai paesi neutrali e non belligeranti fu uno dei pochi aspetti in cui si dimostrarono realmente superiori. Un altro è il fatto che erano molto più ricche. Ma quando si trattò di fare la guerra, come vedremo, si dimostrarono enormemente inferiori, una dura realtà che nessuna forma di propaganda poteva compensare.