XIV
Come (non) pagare per la guerra
Conseguenze economiche
Provate a immaginare un paese che, in seguito alla prima guerra mondiale, perda il 22 per cento del proprio territorio nazionale, accumuli debiti pari al 136 per cento del suo prodotto nazionale lordo, un quinto del quale destinato a potenze straniere, veda aumentare l’inflazione e la disoccupazione fino a livelli mai toccati da oltre un secolo, e subisca un’ondata altrettanto senza precedenti di agitazioni sindacali. Provate a immaginare un paese in cui una nuova concezione politica democratica produca un sistema di governo di coalizione nel quale non le elezioni bensì accordi a porte chiuse tra i partiti determinino chi deve guidare lo Stato. Provate a immaginare un paese in cui la povertà dei reduci e delle loro famiglie si contrapponga in modo addirittura grottesco al consumismo opulento di una élite edonista e decadente; un paese che un conservatore disgustato poteva liquidare definendolo
una nazione senza parametri, mantenuta in vita da ricordi che svaniscono anziché da esempi che incitano. Marciamo ancora al ritmo della moribonda musica delle grandi tradizioni, ma non c’è un condottiero di civiltà alla testa delle nostre file. Abbiamo infatti praticamente cessato di essere un esercito che marcia con fiducia incontro al nemico e siamo diventati una folla che cerca impazientemente di liberarsi dalla disciplina e dagli ideali del nostro passato ... Siamo una nazione di gente istruita a metà; ed è caratteristico di questo genere di persone essere scettici, apatici, privi di immaginazione e sospettosi. 1
Gli effetti dell’inflazione furono sentiti soprattutto dalle classi medie, come lamentava con vivide parole un altro scrittore del dopoguerra:
Un intero gruppo di cittadini perbene sta precipitando nell’Abisso spinto da inesorabili leggi create da Dio, dall’uomo o dal diavolo: come se una tavola si inclinasse improvvisamente e tutte le bamboline e le marionette cadessero sul pavimento ... L’intera massa, nonostante la resistenza, sta cadendo nel fondo del mondo.
Qui ... siamo di fronte a una trasformazione dei valori completa e stupefacente; che non cambiano lentamente dall’uno all’altro, ma sono imposti improvvisamente e brutalmente sulla vita di milioni di persone da cause completamente al di fuori dal loro controllo. 2
I portavoce delle classi medie deploravano la nuova alleanza «corporativista» del capitale e del lavoro forgiata dalla guerra: un’analisi delle conseguenze del conflitto fin d’allora condivisa dagli storici. 3
Questo paese non era la Germania – come potrebbe avere comprensibilmente pensato il lettore – ma la Gran Bretagna, presunta vincitrice della prima guerra mondiale, negli anni immediatamente successivi al 1918. Il territorio perduto era costituito dalle ventisei contee dell’Irlanda meridionale, dove la scintilla della rivolta accesasi a Dublino nella Pasqua del 1916 si era trasformata nell’incendio della guerra civile negli anni Venti, e dove la divisione de facto del 1922 era diventata nel 1938 la secessione de jure con la costituzione della Repubblica d’Irlanda. 4 I debiti esteri erano stati contratti principalmente con gli alleati di un tempo, e gli Stati Uniti stavano al primo posto (poco più di un miliardo di sterline nel marzo del 1919). Nel novembre del 1920 il costo della vita risultava quasi triplicato rispetto ai livelli prebellici e l’inflazione aveva toccato il 22 per cento; l’anno successivo il tasso di disoccupazione aveva raggiunto l’11,3 per cento: un tasso persino più elevato di quello del 1930 e il peggiore fin da quando erano iniziate le registrazioni. Circa 2,4 milioni di operai britannici parteciparono a scioperi nel 1919, 300.000 in più che nella Germania rivoluzionaria. Nel 1921 furono perse 86 milioni di giornate lavorative in controversie industriali, in confronto a 22,6 milioni in Germania. 5 In virtù della riforma elettorale del 1918 (il Representation of the People Act) l’elettorato era aumentato da 7,7 a 21,4 milioni, dando alla Gran Bretagna sostanzialmente lo stesso numero di aventi diritto al voto che la Germania aveva avuto fin dal 1871 (con il suffragio universale maschile). 6 Lloyd George, giunto al potere nel 1916 grazie a un accordo di coalizione, indisse improvvisamente le elezioni appena tre giorni dopo la firma dell’armistizio. La sua coalizione vinse, ma lui stesso fu estromesso dalla carica nell’ottobre del 1922, quando i deputati conservatori, riuniti al Carlton Club, sciolsero la coalizione. Agli occhi di scrittori quali Harold Begbie e Charles Masterman – autori dei brani sopracitati – la Gran Bretagna appariva malata nonostante la vittoria.
Ma il grande paradosso era – e rimane – la convinzione che la Germania, ossia la perdente, stesse ancora peggio. Senza dubbio avrebbe dovuto stare peggio, visto che aveva perso la guerra. Anche così, la simpatia britannica per il nemico battuto sarebbe difficile da spiegare. Ma, per molti aspetti, la situazione della Germania uscita dalla guerra non era molto peggiore di quella della Gran Bretagna, anzi, sotto certi punti di vista, era addirittura migliore. L’unico aspetto realmente critico della Germania postbellica era l’inflazione, completamente sfuggita a ogni controllo, tanto che il Reichsmark non valeva praticamente nulla alla fine del 1923 (si veda la fig. 18). Il punto più basso fu toccato nel dicembre del 1923, quando l’indice del costo della vita era 1,25 trilioni di volte maggiore del livello prebellico (1.247.000.000.000). Una pagnotta costava 428 miliardi di marchi; un dollaro valeva 11,7 trilioni di marchi. Sebbene la maggior parte dei paesi belligeranti avesse conosciuto un certo livello di inflazione e pochi fossero riusciti a tornare ai propri livelli prebellici di parità aurea, la Germania rappresentava il caso più grave. La Polonia si trovava in acque migliori nonostante fosse impegnata in una guerra: il suo indice dei prezzi aumentò di un fattore di 1,8 milioni; persino i prezzi russi non superavano i 50 miliardi di volte rispetto al livello prebellico prima della riforma monetaria. 7 Come vedremo, i tedeschi attribuivano le loro difficoltà monetarie alle severe condizioni di pace imposte alla Germania; stranamente, la maggior parte dei britannici colti di quel tempo sembra averci creduto. Nel marzo del 1920 l’Oxford Union discusse la possibilità che «il trattato di pace fosse un disastro economico per l’Europa»: la mozione fu approvata con una maggioranza del 20 per cento. Tre mesi dopo fu approvato, con ottanta voti a favore e settanta contrari, «l’immediato ristabilimento di relazioni cordiali» con la Germania. Le mozioni sugli affari esteri approvate dall’Oxford Union in quel periodo suonano come una cronaca della genesi dell’appeasement. Nel febbraio del 1923 affermò, con centonovantadue voti favorevoli e settantadue contrari, di «deplorare l’attuale politica della Francia», che aveva occupato la Ruhr dopo che la Germania non era riuscita a pagare le riparazioni di guerra. A marzo fu approvata una mozione che definiva «una disgrazia per l’Europa e per questo paese la schiacciante sconfitta della Germania». Due mesi dopo una maggioranza del 25 per cento dei presenti convenne che «l’egoismo della politica francese a partire dal 1918 ha condannato l’umanità a un’altra guerra». 8
In realtà, le condizioni di pace, nella loro durezza non erano senza precedenti e l’iperinflazione tedesca era dovuta principalmente alle irresponsabili politiche fiscali e monetarie attuate dagli stessi tedeschi. Pensavano di poter vincere la pace con mezzi economici; e ci riuscirono, almeno a giudizio dei britannici. Inoltre, la Germania riuscì meglio di qualsiasi altro paese a non adempiere al pagamento dei propri debiti, comprese le riparazioni richieste dagli Alleati. Comunque, questa fu una vittoria di Pirro, conseguita dai politici moderati a spese della democrazia e del loro stesso potere.
Pagare è impossibile
L’idea che il trattato di Versailles imposto ai tedeschi nel 1919 fosse eccessivamente severo era una verità accolta universalmente nella stessa Germania. Ma non avrebbe ottenuto molto seguito al di fuori della Germania, e soprattutto in Gran Bretagna, se non fosse stato per John Maynard Keynes, il cui saggio Le conseguenze economiche della pace fu (insieme a Eminenti vittoriani di Lytton Strachey) uno dei bestseller del 1919.
Figura 18 – Tasso annuo tedesco di inflazione (costo della vita su scala logaritmica), 1918-1923.
Fonte: Statistisches Reichsamt (a cura di), Zalhen zur Geldentwertung.
Come abbiamo visto, Keynes era diventato una figura influente al Tesoro grazie alle sue pessimistiche dichiarazioni sulla finanza di guerra britannica. Era quindi logico che venisse coinvolto nei preparativi per la pace quando apparve chiaro che i tedeschi volevano un armistizio. La questione delle riparazioni era stata oggetto di discussione già prima della fine della guerra. 9 Ben presto Keynes si distinse come il principale sostenitore di un’indennità relativamente bassa, affermando, già nell’ottobre del 1918, che venti miliardi di marchi oro fosse una cifra realistica per le riparazioni. 10 Sebbene l’avesse poi raddoppiata due mesi dopo in un memorandum «sull’indennità pagabile dalle potenze nemiche per le riparazioni e altre rivendicazioni», non mancò di sottolineare i problemi che avrebbe comportato imporre un simile onere. Il memorandum del Tesoro riconosceva che persino «se ogni casa, officina, campo coltivato, ogni strada, ferrovia e canale, ogni miniera e foresta dell’Impero tedesco potessero essere sottratti e venduti pronta cassa a un buon prezzo, non basterebbero a pagare la metà dei costi della guerra e delle riparazioni sommati insieme». 11 Cosa ancora più importante, il memorandum di Keynes anticipava una tesi che sarebbe diventata centrale nel successivo dibattito, distinguendo tra «due eventualità» che avrebbero potuto scaturire dal trasferimento delle riparazioni:
La prima, in cui il normale corso degli scambi non è seriamente turbato dal pagamento, in quanto il suo ammontare è approssimativamente uguale alla somma che si accumulerebbe in ogni caso all’estero per il paese pagante e che, se non fosse per l’indennità, sarebbe stata investita all’estero; la seconda, in cui l’ammontare è talmente elevato che non potrebbe essere pagato senza una stimolazione di vasta portata delle esportazioni del paese pagante ... che deve necessariamente interferire con il commercio d’esportazione di altri paesi ... Fintanto che questo paese riceve l’indennità, c’è una massiccia compensazione a tale inconveniente. Ma, nel momento stesso in cui l’indennità finisce in altre mani, questa compensazione svanisce.
Per questo motivo Keynes sosteneva una politica tesa a «ottenere tutti i beni che si possono trasferire immediatamente o in un periodo di tre anni, esigendo questi contributi con la massima determinazione e completezza, in modo da distruggere interamente e per molto tempo lo sviluppo d’oltremare della Germania e il suo credito internazionale; ma, una volta fatto ciò ... esigere soltanto piccoli tributi su un periodo di anni». 12 Tuttavia, Keynes avvertiva che una crisi fiscale tedesca poteva condurre a un aperto rifiuto di onorare il debito o a una dissoluzione del Reich. 13 In breve, le sue riserve intellettuali sulle riparazioni eccessive erano in gran parte già ben chiare prima che egli arrivasse in Francia per l’armistizio e i negoziati di pace.
Non c’è dubbio, però, che una serie di incontri con uno dei rappresentanti tedeschi a Versailles aggiunse una dimensione emotiva alla posizione di Keynes. Carl Melchior era il braccio destro di Max Warburg presso la banca di Amburgo M.M. Warburg & Co. Era un avvocato ebreo, con un illustre ruolino di guerra sia sul campo di battaglia sia nella politica economica. È possibile che la successiva dichiarazione di Keynes, nella quale affermava di «avere finito per amare» Melchior durante i negoziati per l’armistizio a Treviri e Spa, contenesse un’allusione a un’attrazione sessuale. Come abbiamo visto, Keynes era all’epoca un omosessuale attivo. Comunque, sembra più probabile che Keynes fosse semplicemente affascinato dal sentire il suo medesimo pessimismo – frutto di antichi dubbi sulla moralità della guerra – espresso da una voce altrui. 14 Melchior (come ricordò in seguito Keynes) dipinse un quadro alquanto fosco di una Germania sull’orlo di una rivoluzione di tipo russo:
In Germania, l’onore, l’organizzazione e la moralità stavano frantumandosi; non vedeva alcuna via d’uscita e si aspettava che la Germania crollasse e la civiltà svanisse: dovevamo fare tutto il possibile, ma forze oscure incombevano su di noi ... La guerra per lui era stata una guerra contro la Russia, ed era proprio il pensiero delle forze oscure che potevano sciamare da Oriente ciò che più lo ossessionava. 15
L’implicazione era chiara: gli Alleati rischiavano di scatenare il bolscevismo nell’Europa centrale se avessero trattato con troppa durezza il nemico sconfitto. Queste argomentazioni toccarono la corda giusta nell’animo di Keynes. Come osservò Kurt von Lersner, funzionario del ministero degli Esteri tedesco, dopo che Lloyd George sembrava avere cambiato opinione sul problema del finanziamento delle importazioni di derrate alimentari in Germania: «Grazie alla chiara spiegazione del dottor Melchior, il signor Keynes ha compreso che per gli Alleati è pericoloso ritardare le cose e sta cercando un terreno comune di incontro». 16 Significativamente, subito dopo la conferenza, Keynes avvertì che «un immediato riavvicinamento tra Germania e Russia» avrebbe potuto essere «l’unica opportunità che ha l’Europa centrale di nutrire se stessa». 17
La più dettagliata – e per Keynes più influente – dichiarazione del punto di vista tedesco era contenuta nelle controproposte redatte in maggio su esortazione di Warburg in risposta alle condizioni poste dagli Alleati. 18 Il tema centrale (sviluppato in un «Supplemento sulle questioni finanziarie») era che le condizioni poste dagli Alleati comportavano «la distruzione completa della vita economica tedesca», condannando politicamente il paese al «destino della Russia». 19 Considerati gli oneri economici imposti dalla pace – in particolare, la perdita della capacità industriale, delle colonie, dei beni d’oltremare e della marina mercantile – la Germania non sarebbe stata in grado di pagare i danni di guerra come erano stati definiti dalle potenze vincitrici: cercare di costringerla a farlo avrebbe avuto conseguenze fatali. Da un lato, pagare le riparazioni attraverso gli introiti attuali del governo avrebbe richiesto che «le spese per il pagamento dell’interesse sui prestiti di guerra, per il mantenimento dei soldati tedeschi invalidi e per le pensioni destinate alle persone a carico dei soldati caduti cessassero o fossero decurtate, come anche le spese destinate a scopi culturali, alle scuole, all’educazione superiore ecc.». Questo avrebbe semplicemente «distrutto» la democrazia tedesca: «sarebbe scomparsa qualsiasi capacità o disponibilità a pagare le tasse e la Germania sarebbe stata per decenni teatro di ininterrotte e cruente lotte di classe». Dall’altro lato, finanziare le riparazioni con un prestito avrebbe posto problemi altrettanto gravi:
Nell’immediato futuro sarà impossibile collocare prestiti di Stato tedeschi di grandi dimensioni sia all’interno sia all’estero, con la conseguenza che si potrebbero garantire i compensi [ai proprietari di beni espropriati per pagare le riparazioni] soltanto con gigantesche emissioni di banconote. L’inflazione, già eccessiva, aumenterebbe costantemente, se il trattato di pace, nei termini in cui è stato proposto, fosse messo in pratica. Perdipiù, grandi distribuzioni di prodotti naturali potrebbero attuarsi solo se lo Stato rimborsasse i produttori per il loro valore; il che significa ulteriori emissioni di banconote. Finché dureranno queste distribuzioni non sarà possibile stabilizzare la circolazione monetaria tedesca nemmeno al livello attuale. La svalutazione del marco proseguirebbe. L’instabilità monetaria, però, inciderebbe non soltanto sulla Germania ma su tutti i paesi impegnati nelle esportazioni, perché la Germania, con la sua moneta in costante svalutazione, rappresenterebbe un elemento di disturbo e sarebbe costretta a inondare il mercato mondiale di beni a prezzi ridicolmente bassi. 20
Le riparazioni avrebbero potuto essere pagate soltanto se gli Alleati avessero lasciato alla Germania i suoi territori, le sue colonie e la sua flotta mercantile. 21 A queste condizioni, i tedeschi promettevano di pagare gli interessi più l’ammortamento delle obbligazioni per un valore pari a 20 miliardi di marchi oro tra il 1919 e il 1926, nonché l’ammortamento esclusivamente delle obbligazioni fino a un massimo di 80 miliardi di marchi oro (le annualità «non dovevano superare una percentuale fissa degli introiti imperiali e statali tedeschi»). 22
Quale che fosse il suo significato per la storia della politica estera tedesca, 23 la cosa più sorprendente di questo documento è il modo in cui preannuncia le successive critiche di Keynes al trattato. Ma forse questo non ci dovrebbe stupire. Sappiamo che Keynes era rimasto profondamente colpito dal fatto che la delegazione tedesca si fosse rifiutata di firmare un trattato di pace non emendato. 24 In effetti, Keynes non fece che ripetere le infauste profezie dei tedeschi:
L’industria della Germania sarà condannata alla stagnazione ... La Germania subirà un crollo economico e milioni di tedeschi moriranno in conflitti civili o saranno costretti a emigrare ... Il risultato saranno dei «Balcani economici» nel cuore dell’Europa, che creeranno interminabili agitazioni e un costante pericolo di un ulteriore diffusione nel resto del mondo. 25
Questa era la versione tedesca. E questa era quella di Keynes:
La pace è oltraggiosa e impossibile e non può portare altro che disgrazie ... Non possono rispettarne le condizioni, e ne risulteranno disordini e sommosse dappertutto ... Anarchia e rivoluzione sono il meglio che potrà accadere ... Questo accordo rovinerà l’Europa economicamente e la depopolerà di milioni di persone. 26
Keynes non perse i contatti con i tedeschi durante il periodo in cui preparava per la pubblicazione le sue profezie. Nell’ottobre del 1919 partecipò a una piccola riunione di banchieri ed economisti ad Amsterdam su invito di Paul Warburg, il fratello americano di Max. 27 Poi, insieme allo stesso Warburg, scrisse un appello alla Società delle nazioni nel quale chiedeva una riduzione delle riparazioni, la cancellazione dei debiti di guerra e un prestito per la Germania. 28 Tuttavia, quando fu pubblicata la versione finale del memorandum, nel gennaio del 1920, aveva ormai perduto ogni importanza. Era stato infatti totalmente scavalcato dalla pubblicazione del saggio Le conseguenze economiche, una bozza del quale lo stesso Keynes aveva sottoposto a Melchior e Warburg ad Amsterdam. 29
Sarebbe esagerato dire che la tesi esposta da Keynes in questo saggio fosse identica a quella proposta dagli esperti finanziari tedeschi alla riunione di Amsterdam. Ma le somiglianze sono molto strette e Keynes non negò l’influenza che avevano esercitato su di lui. 30 Come loro, infatti, rimproverava ai francesi le clausole economiche «cartaginesi» del trattato e definiva la Commissione per le riparazioni «uno strumento di oppressione e rapina». 31 Come loro, ribadiva che la Germania «non si era arresa incondizionatamente, ma sulla base di termini concordati circa il carattere generale della pace» (i Quattordici punti e le successive postille americane). 32 E come loro, sottolineava che la perdita della marina mercantile, dei beni d’oltremare, dei territori carboniferi e della sovranità nella politica commerciale limitava gravemente la capacità della Germania di pagare le riparazioni. Gli Alleati pretendevano compensazioni per danni e sussidi ammontanti a circa 160 miliardi di marchi oro, che una Germania privata di risorse poteva soltanto sperare di pagare con gli introiti delle sue esportazioni. Ma trasformare il tradizionale deficit commerciale tedesco in un surplus avrebbe messo sotto pressione il mondo imprenditoriale alleato e nel contempo avrebbe richiesto intollerabili riduzioni dei consumi tedeschi. Anche lasciando alla Germania i suoi beni essenziali (compresi i giacimenti di carbone della Slesia), il massimo che ci si poteva aspettare che pagasse erano 41 miliardi di marchi oro, tre quarti dei quali sotto forma di annualità senza interessi per un periodo di trent’anni. 33 E Keynes non rinunciò agli apocalittici avvertimenti che aveva udito da Melchior a Versailles, predicendo una crisi malthusiana in Germania e la distruzione del capitalismo nell’Europa centrale:
La politica di ridurre la Germania in schiavitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di essere umani, e di privare della felicità un’intera nazione seminerà la rovina di tutta la vita civile dell’Europa ... «Coloro che firmeranno questo trattato firmeranno la condanna a morte di molti milioni di uomini, donne e bambini tedeschi.» Non conosco una risposta adeguata a queste parole ... Se il nostro scopo prioritario è l’impoverimento dell’Europa centrale e la vendetta, oso prevedere che non tarderà ad arrivare. Niente può quindi ritardare molto a lungo la definitiva guerra civile tra le forze della Reazione e le disperate convulsioni della Rivoluzione; e in confronto gli orrori dell’ultima guerra tedesca svaniranno nel nulla, e questa nuova guerra, chiunque ne sarà il vincitore, distruggerà la civiltà e il progresso della nostra generazione. 34
A giudizio di Keynes, solo un «falò generale» dei debiti internazionali e un programma a guida tedesca di ricostruzione economica dell’Europa orientale avrebbero evitato questa catastrofe. 35
L’accordo finale sull’entità del conto delle riparazioni – posposto a Versailles a causa del dissenso degli Alleati – suscitò una nuova bordata di critiche da parte di Keynes. Nell’aprile del 1921, dopo molti mercanteggiamenti e tergiversazioni, il totale del conto definitivo fu stabilito a 132 miliardi di marchi oro, rafforzato dalla minaccia dell’occupazione della Ruhr se la Germania non avesse accettato. Questo «ultimatum di Londra» esigeva che, a partire dalla fine del maggio 1921, la Germania pagasse interessi e ammortamenti sulle cosiddette «obbligazioni A e B» per un totale di 50 miliardi di marchi oro nella forma di un’annualità di 2 miliardi di marchi oro. Specificava inoltre che, a partire dal novembre 1921, doveva essere effettuato un pagamento pari al 26 per cento del valore delle esportazioni tedesche: ciò comportava un pagamento annuo complessivo di circa 3 miliardi di marchi oro. Quando le esportazioni tedesche avessero raggiunto un livello sufficiente a liquidare le obbligazioni A e B, sarebbero state emesse obbligazioni C senza interessi per un valore nominale di 82 miliardi di marchi oro. 36
La risposta di Keynes al programma di Londra conteneva alcuni calcoli di massima. Keynes valutò l’onere delle riparazioni a una somma oscillante tra un quarto e la metà del reddito nazionale, cosa che, in termini puramente fiscali, riteneva intollerabilmente pesante. «Le fruste e gli staffili di qualsiasi governo noto dalla storia sono mai stati sufficientemente potenti per estrarre quasi la metà del reddito da un popolo ridotto in simili condizioni?», domandò ai lettori del «Sunday Times». 37 Nel dicembre del 1921 sostenne che 21 miliardi di marchi oro era il massimo che si poteva pagare. 38 Comunque, rimase scettico sulla possibilità di qualsiasi pagamento in moneta corrente finché la Germania non fosse stata in grado di produrre un surplus nella bilancia dei pagamenti: era ciò che in seguito sarebbe stato definito il «problema del trasferimento». Keynes dubitava che la Germania sarebbe riuscita a ottenere dall’estero un prestito che le facilitasse le cose: nell’aprile del 1922, alla conferenza di Genova (che seguì per il «Manchester Guardian»), liquidò la proposta tedesca per un prestito internazionale come «un’illusione [altrettanto] grande delle riparazioni su una scala gigantesca». 39 Né pensava che pagamenti sotto forma di materie prime (come aveva proposto Walther Rathenau) avrebbero potuto migliorare la situazione. 40 Inoltre, non credeva che la Germania potesse ottenere un surplus nelle esportazioni, dato che il paese, dopo la guerra, sarebbe stato costretto a importare in larga misura. In ogni caso, già nel 1919 aveva sostenuto che
[anche] se riuscisse a realizzare l’enorme commercio d’esportazione contemplato dalle proposte di Parigi, la Germania potrebbe farlo soltanto estromettendo dai mercati mondiali alcuni dei principali prodotti di scambio della Gran Bretagna ... Non mi aspetto di vedere il signor Lloyd George affrontare un’elezione generale facendo perno sulla questione di mantenere un esercito in armi per costringere con la punta della baionetta la Germania a vendere a un prezzo inferiore rispetto a quello delle nostre manifatture. 41
In altre parole, il programma di pagamenti era inattuabile. Nel breve termine, la Germania sarebbe riuscita a racimolare la somma dei pagamenti mensili soltanto vendendo marchi cartacei sui mercati valutari esteri; ma questo avrebbe fatto inesorabilmente abbassare il tasso di cambio fino a rendere insostenibile la procedura stessa.
L’influenza esercitata da Keynes sulla questione delle riparazioni toccò l’apice nell’agosto del 1922, quando fu invitato a parlare a una riunione di politici e uomini d’affari alla «Settimana d’oltremare» di Amburgo – di fatto, una conferenza non ufficiale sulla politica estera tedesca – subito dopo il discorso pronunciato il 21 agosto a Bar-le-Duc dal presidente francese Raymond Poincaré, nel quale aveva chiesto «impegni produttivi». 42 La reazione di Keynes arrivò cinque giorni più tardi, e fu davvero straordinaria. Presentato come «l’uomo al quale più si deve il mutamento di atteggiamento del mondo di lingua inglese nei confronti della Germania», fu applaudito calorosamente; e viene da domandarsi quanto gli applausi influenzarono il contenuto del suo discorso. Nel quale Keynes fece una fatidica predizione:
Non credo che la Francia possa realmente attuare la sua minaccia di riprendere la guerra ... Uno o due anni fa la Francia avrebbe potuto agire in questo modo con la necessaria convinzione interiore. Ma non ora. La fiducia dei francesi nella politica ufficiale delle riparazioni è irrimediabilmente incrinata ... Nel loro cuore sanno che non è realistica. Per molte ragioni sono restii ad ammetterlo. Ma stanno bleffando. Sanno perfettamente che compiere atti illegali di violenza li isolerebbe moralmente, alienerebbe loro ogni simpatia e ne rovinerebbe le finanze senza apportare alcun vantaggio. Il signor Poincaré può pronunciare duri discorsi e infliggere piccole e inutili offese ... ma non agirà su grande scala. Anzi, i suoi discorsi sono un’alternativa e non un preludio all’azione. Quanto più le sue parole sono roboanti tanto meno lo saranno le sue azioni.
Come ciliegina sulla torta, escluse l’idea che l’inflazione stesse causando la «disintegrazione della vita tedesca»:
Non si deve perdere di vista l’altro aspetto dell’equazione ... L’onere del debito interno è stato cancellato. Finora il complesso dei pagamenti della Germania agli Alleati ... è stato interamente scaricato sulle perdite degli speculatori stranieri. Non credo che la Germania abbia pagato di tasca propria un solo penny per queste cose. Gli speculatori stranieri hanno pagato il complesso di questi impegni e anche di più. 43
La sua conclusione non era altro che una ripetizione delle ormai note richieste tedesche per una moratoria, un prestito e un ridotto onere di riparazioni. 44
È vero che, in privato, Keynes era meno avventato. Ma erano le dichiarazioni pubbliche ad avere l’impatto maggiore, anche perché diceva ai tedeschi proprio ciò che essi volevano sentire. Bisognava smascherare il bluff di Poincaré: era questo il messaggio comunicato al governo di Berlino. 45 E questo non era l’unico significato del discorso. La sua previsione che «l’epoca delle capacità scientifiche, amministrative e direzionali è vicina ... non quest’anno, certamente, ma il prossimo» riecheggiava precedenti appelli di Warburg e dei suoi soci al fatto che si dovesse dare la precedenza «agli uomini d’affari rispetto ai diplomatici e ai politici in tutte le questioni di economia mondiale». 46 A questi appelli si rispose all’inizio di novembre con la nomina a cancelliere di Wilhelm Cuno, successore di Albert Ballin alla direzione della compagnia di navigazione Hamburg-Amerika. 47 In Inghilterra Keynes era entusiasta. Impaziente, esortò il nuovo cancelliere a «parlare con voce chiara» e confessò di «invidiare a Cuno il suo compito». 48
Sarebbe naturalmente assurdo attribuire la colpa dell’occupazione francese della Ruhr e del collasso definitivo e irreversibile della moneta tedesca esclusivamente a Keynes. Ma non c’è dubbio che ebbe un ruolo decisivo nell’incoraggiare entrambe le cose. Né rimase sconcertato dalla rivelazione che, dopotutto, Poincaré non aveva bleffato. Per tutte le prime settimane di occupazione francese della Ruhr, incoraggiò i tedeschi a «tenere duro fino ai limiti della loro capacità di sopportazione» e il governo a «mantenere i nervi saldi». 49 Solo nel maggio del 1923, quando apparve chiaro che la Francia non avrebbe allentato la propria stretta sulla Ruhr e che l’economia tedesca stava affondando sempre di più nell’abisso dell’iperinflazione, Keynes ammise che la sua strategia era fallita. 50
Non è questo il luogo per discutere gli eventi che portarono alla caduta di Cuno, né tantomeno il prolungato processo tramite il quale la resistenza passiva fu neutralizzata. 51 È sufficiente dire che il resoconto dello stesso Keynes nel suo saggio La riforma monetaria (pubblicato nel dicembre del 1923) fu estremamente severo, considerato il suo intimo coinvolgimento nella decisione di sfidare Poincaré e di attuare la resistenza passiva:
È necessario ammettere che il fallimento di Cuno nel tenere sotto controllo l’incompetenza del Tesoro e della Reichsbank era destinato a provocarne la caduta. In tutto questo disastroso periodo, i responsabili della politica finanziaria tedesca non hanno fatto una sola cosa giusta né hanno mostrato di avere minimamente compreso ciò che stava accadendo. 52
È difficile sfuggire alla conclusione che in questo caso Keynes mostrava una saggezza a posteriori, mentre non ne aveva mostrata alcuna durante lo svolgimento degli eventi. Infatti i rimedi anti-inflazionistici che ora raccomandava – restrizione alla circolazione monetaria e imposta sul capitale – erano stati vistosamente assenti nei consigli che aveva dato ai tedeschi anteriormente al dicembre del 1923. Anzi, in più di un’occasione, Keynes si era congratulato con i tedeschi per le espropriazioni su larga scala di beni stranieri causate dall’inflazione. E in definitiva, a quanto pare, non seppe resistere alla tentazione di giudicare l’inflazione un successo in termini di diplomazia economica; nel giugno del 1929 scrisse:
La notevole esperienza della Germania durante questo periodo può essere stata necessaria a convincere gli Alleati della futilità dei loro precedenti metodi di esazione delle riparazioni ed è stata forse un preludio inevitabile al piano Dawes. 53
Come disse nel 1932 in un discorso pronunciato ad Amburgo (esattamente dieci anni dopo la sua partecipazione alla «Settimana d’oltremare»): «Negli anni passati ho sempre nutrito molti dubbi sulla validità di quella che definite “politica dell’adempimento”. Se fossi stato uno statista o un economista tedesco, penso che l’avrei probabilmente osteggiata». 54
Non pagheranno
L’uomo che Keynes «finì per amare» a Versailles definì Le conseguenze economiche della pace un’opera «magnetizzante» e «una pietra miliare per un nuovo sviluppo ... nella storia del dopoguerra». 55 Sotto questo punto di vista Melchior aveva certamente ragione. Non c’è dubbio che l’attacco di Keynes contro il trattato di Versailles contribuì in modo decisivo alla sensazione colpevole di avere trattato ingiustamente la Germania, che inibì fortemente la diplomazia britannica nel periodo tra le due guerre. Ancora oggi l’idea che furono le riparazioni a precipitare la Germania nell’abisso dell’iperinflazione continua a godere di un ampio consenso nel mondo accademico. Il bilancio tedesco era già in condizioni critiche, ha sostenuto Heinz Haller, ma la richiesta alleata di riparazioni aggravò ulteriormente la situazione. 56 A causa di un deficit strutturale della bilancia dei pagamenti, la Germania non aveva altra scelta che quella di comprare valuta pregiata vendendo marchi cartacei, abbassando così il tasso di cambio e facendo aumentare i prezzi delle importazioni e quindi il livello dei prezzi interni. 57 Barry Eichengreen l’ha sostenuto senza mezzi termini: le riparazioni furono «in ultima analisi le responsabili dell’inflazione», perché senza di esse non ci sarebbe stato un deficit di bilancio. 58 Una conclusione più volte espressa è che i governi tedeschi – dai quali gli Alleati si aspettavano che alzassero le tasse per pagare riparazioni quasi universalmente detestate – non avevano altra scelta che quella di cercare di evitare il pagamento. Il modo più ovvio per farlo era permettere che l’inflazione continuasse, in quanto, per citare le parole di Frank D. Graham, «non era affatto ingiustificata l’opinione secondo la quale un miglioramento delle finanze pubbliche avrebbe portato a esazioni ancora più severe». 59 Sul piano politico sembrava inoltre logico permettere alla svalutazione della moneta di continuare senza controllo, dal momento che aveva l’effetto di aumentare le esportazioni tedesche. 60 Questo avrebbe dovuto mettere sotto pressione le economie alleate, costringendole ad accettare il fatto che le riparazioni potevano essere pagate soltanto a spese dell’industria alleata. Perciò, secondo Carl-Ludwig Holtfrerich, la svalutazione era «nell’interesse nazionale», e il modo migliore per «persuadere il resto del mondo della necessità di una riduzione dell’onere delle riparazioni». 61 In effetti, questa strategia offriva un doppio vantaggio: poiché gran parte del denaro prestato alla Germania in quel periodo non fu mai ripagata, uno storico si è spinto fino a parlare di «“riparazioni” americane alla Germania». 62 Nel suo studio fondamentale sull’inflazione tedesca, Gerald D. Feldman non lascia spazio a equivoci: le condizioni di pace degli Alleati «ponevano richieste impossibili e spingevano a scelte intollerabili»; le riparazioni erano «un disincentivo alla stabilità». 63 Questi sono gli argomenti di Keynes, ancora attuali a un secolo di distanza. Ma gli storici non sono riusciti a riconoscere fino a che punto Keynes fu manipolato dai suoi amici tedeschi e fino a che puntò sbagliò nella sua analisi delle conseguenze della pace.
I membri della delegazione di pace del governo tedesco nel 1919 erano ben consapevoli di dover affrontare una pace molto dura. Dopotutto, se avessero vinto la guerra, avrebbero anch’essi imposto una pace altrettanto dura ai propri avversari. Il diplomatico americano che, durante la guerra, scrisse le seguenti parole non si sbagliava di molto:
I tedeschi vogliono qualcosa da depredare – per pagare i loro giganteschi conti militari. Hanno derubato il Belgio e lo stanno ancora derubando di ogni centesimo su cui riescono a mettere le mani. Hanno derubato la Polonia e la Serbia ... Si apprestavano a derubare la Francia e ... se fossero riusciti ad arrivare a Parigi nel giro di una settimana non si sarebbe più trovato un bene mobile nemmeno del valore di 30 centesimi e avrebbero riscosso indennità di un milione di franchi al giorno. 64
Osservando, nell’agosto del 1915, la vertiginosa crescita del debito di guerra del suo paese, il ministro delle Finanze tedesco Karl Helfferich aveva dichiarato: «Gli istigatori di questa guerra si sono guadagnati questo peso morto di miliardi ... Come estinguere questo debito sarà il più grande problema sin dall’inizio del mondo». 65 Persino Warburg, di orientamento relativamente liberale, aveva accolto questa tesi: nel novembre del 1914 aveva proposto 50 miliardi di marchi come cifra appropriata per le riparazioni che la Germania avrebbe dovuto imporre se la guerra fosse durata appena quattro mesi; ancora nel maggio del 1918 prevedeva di imporre agli Alleati un’indennità di 100 miliardi di marchi. 66 Un accordo finanziario supplementare firmato il 27 agosto 1918 aveva imposto alla Russia un’indennità di 6 miliardi di marchi, sebbene l’originario trattato di Brest-Litovsk, del marzo 1918, stabilisse che non vi sarebbero state riparazioni. 67 Questo si aggiunse a enormi cessioni di territorio: la Finlandia e l’Ucraina divennero indipendenti, mentre la Polonia e gli Stati baltici di Lituania, Estonia, Curlandia e Lettonia divennero satelliti della Germania. (Nella surreale atmosfera del 1918, i principi tedeschi litigarono su chi dovesse governarli: il duca di Urach voleva diventare re di Lituania; l’arciduca austriaco Eugenio pretendeva l’Ucraina; Friedrich Karl di Hesse puntava alla Finlandia; mentre lo stesso Kaiser ambiva alla Curlandia.) 68 Il territorio in questione rappresentava circa il 90 per cento della capacità carbonifera dell’Impero russo e il 50 per cento della sua industria. 69 Al confronto, i termini territoriali del trattato di Versailles apparivano relativamente leggeri. Oltre alle colonie, la Germania perse circa nove tratti periferici di territorio dello stesso Reich, 70 ma ammontavano ad appena il 13 per cento della sua superficie prebellica, e il 46 per cento della popolazione di queste zone non era di origine tedesca. I tedeschi lamentarono la perdita dell’80 per cento dei loro giacimenti di ferro, il 44 per cento della loro capacità di produzione della ghisa, del 38 per cento della loro capacità di produzione dell’acciaio e il 30 per cento della loro produzione carbonifera; ma i russi avevano perso ben di più nel 1918, mentre gli austriaci, gli ungheresi e i turchi, in base ai propri rispettivi trattati di pace, subirono un trattamento ancora peggiore in termini di territorio (gli ungheresi persero il 70 per cento della loro superficie prebellica) e probabilmente anche in termini di risorse economiche. Per la Germania la perdita delle colonie fu un brutto colpo al suo prestigio; per quanto estese (poco meno di 3 milioni di metri quadrati) e popolose (12,3 milioni di abitanti), esse però non contavano molto sul piano economico.
Nonostante le loro angosciate proteste di fronte alle condizioni poste dagli Alleati, i tedeschi sapevano perfettamente ciò che dovevano aspettarsi. «Le condizioni dell’Intesa», osservò Warburg quando fu invitato a unirsi alla delegazione tedesca, «saranno indubbiamente durissime.» 71 Eugen Schiffer, il nuovo ministro delle Finanze, e Carl Bergmann, l’esperto di riparazioni del ministero degli Esteri, parlavano di cifre attorno rispettivamente ai 20 e ai 30 miliardi di marchi; ma Warburg li avvertì di prepararsi a cifre «assurdamente alte». Come disse lui stesso al ministro degli Esteri conte Ulrich von Brockdorff-Rantzau all’inizio di aprile: «Dobbiamo prepararci a condizioni maledettamente dure». 72 In effetti, Warburg riteneva che la Germania sarebbe stata oberata dalle riparazioni per almeno venticinque o addirittura quarant’anni. 73 A suo giudizio, l’unico modo per sostenere un simile onere era ricorrere a un prestito internazionale, che avrebbe permesso alla Germania di pagare un massimale fisso in annualità per un periodo che andava dai venticinque ai quarant’anni. 74 Ad aprile prevedeva un prestito di 100 miliardi di marchi oro. 75
La migliore argomentazione per giustificare questo trattamento relativamente generoso, pensavano i tedeschi, era che senza di esso la Germania sarebbe caduta preda del bolscevismo, attuando così lo stadio successivo del piano di Trockij per la rivoluzione mondiale. Come osservò Franz Witthoefft, amico di Warburg, poco dopo la sua accettazione di unirsi alla delegazione tedesca a Versailles:
Pane e pace sono i presupposti indispensabili all’ordine e al lavoro; altrimenti siamo destinati a cadere nel bolscevismo, e questa sarebbe la fine per la Germania. Eppure, proprio nel pericolo del bolscevismo io scorgo una specie di valvola di sicurezza rispetto ai tentativi messi in atto dall’Intesa per darci uno scacco matto definitivo. Se questo male si diffonde dall’Ungheria alla Germania, né la Francia né l’Inghilterra ne saranno immuni; e questo significa la fine per tutta l’Europa.
A fine aprile, durante un incontro con i ministri a Berlino, Melchior sostenne che«una certa propensione per la Russia» doveva essere presa in considerazione come futura strategia diplomatica della Germania; opinione che fu appoggiata dal presidente del Reich Friedrich Ebert. 76 Era un tono molto diverso da quello apocalittico che aveva usato con Keynes. Senza dubbio Melchior era sinceramente preoccupato per la situazione politica della Germania quando aveva incontrato Keynes per la prima volta; dopotutto, la sua città natale era sotto il controllo di un Consiglio di operai e soldati, e non era affatto certo che la rivoluzione del novembre 1918 si sarebbe conclusa con un compromesso tra i socialdemocratici moderati, i partiti «borghesi» più liberali e le vecchie élite politiche, militari ed economiche. Ciononostante, sembra chiaro che fece del suo meglio per ingigantire la minaccia bolscevica a vantaggio di Keynes. I successi dell’Armata rossa alla fine del 1919 e all’inizio del 1920, e l’incessante agitazione sociale in Germania, spinsero Melchior a rinnovare le proprie profezie su «una Lega dei Vinti tra la Russia e la Germania». 77 Melchior stesso non intendeva veramente quel che diceva; infatti, lui e Warburg rimasero sbalorditi quando, nel 1922, Rathenau concluse un accordo con i russi sulle riparazioni durante la conferenza di Genova (trattato di Rapallo). 78
Nello stesso tempo, la Germania non fece alcuno sforzo concreto per pareggiare il proprio bilancio, il solo modo in cui si potevano pagare le riparazioni in mancanza di un prestito internazionale. Senza dubbio, il ministro delle Finanze Mathias Erzberger attuò sostanziali cambiamenti nel sistema impositivo tedesco, aumentando il potere fiscale del governo centrale. Cercò anche di realizzare un drastico incremento della tassazione diretta prima di lasciare l’incarico nel marzo del 1920: il «prelievo d’emergenza del Reich» (Reichsnotopfer) tassava la proprietà con aliquote che arrivavano fino al 65 per cento, mentre l’imposta sul reddito del Reich aveva un’aliquota massima del 60 per cento. Ma questo non bastò a ridurre il deficit (che, tra il 1919 e il 1923, fluttuò in media attorno al 15 per cento del prodotto nazionale). Innanzitutto, c’era una notevole evasione, buona parte della quale entro i termini di legge. Per esempio, il «prelievo d’emergenza» era pagabile a rate spalmate su un periodo che poteva arrivare fino a quarantasette anni, con un carico d’interessi fissato ad appena il 5 per cento dopo il dicembre del 1920. 79 Finché l’inflazione rimase sotto il 5 per cento, pagare in ritardo era chiaramente vantaggioso. Allo stesso modo, coloro il cui reddito non era pagato sotto forma di salari (dai quali l’imposta era dedotta alla fonte) potevano facilmente differire il pagamento della nuova imposta sui redditi. 80
Non era certo un caso: la riforma delle tasse era stata deliberatamente elaborata per evitare di pagare le riparazioni. Come disse il cancelliere Joseph Wirth argomentando contro l’imposta sulla proprietà (o «pignoramento di valori reali», per citare lo slogan di allora): «L’obiettivo di tutta la nostra politica deve essere lo smantellamento dell’ultimatum di Londra. Sarebbe quindi un errore se, avviando in questo momento un pignoramento di valori reali, dichiarassimo in sostanza l’ultimatum possibile all’80 per cento». 81 Il dibattito interno sulla riforma finanziaria, tra il maggio del 1921 e il novembre del 1922, fu perciò un dibattito fasullo, in quanto lo stesso cancelliere non era in buona fede. Programmi come l’imposta sulla proprietà dovevano essere discussi al fine di tenere calma la Commissione per le riparazioni, ma non furono mai concepiti allo scopo di «chiudere la voragine del bilancio». 82 Allo stesso modo, l’idea di un prestito forzoso di un miliardo di marchi oro era stata escogitata innanzitutto come risposta alla richiesta avanzata dagli Alleati a Cannes per un piano di riforma finanziaria; il ministero delle Finanze fissò il moltiplicatore per convertire in oro i marchi cartacei a un livello talmente basso che l’imposta fruttò solo il 5 per cento della cifra stabilita. 83 Il segretario di Stato David Fischer colse perfettamente l’umore prevalente quando descrisse «il desiderio [della Commissione per le riparazioni] di un aumento delle tasse» come un implicito «desiderio di distruggere economicamente la Germania». 84 In realtà, nella seconda metà del 1921 il reddito reale proveniente dalle imposte diminuì, e aumentò solo leggermente nella prima metà del 1922. 85
Keynes era troppo fiducioso. Nel novembre del 1921, replicando all’affermazione che la Germania stava deliberatamente aggravando l’inflazione per evitare di pagare le riparazioni, scrisse: «Non credo a una sola parola di queste sciocche storie sul fatto che il governo tedesco sarebbe così audace o così folle da escogitare appositamente quella che alla fine sarà un’immane catastrofe per il suo popolo». 86 Purtroppo, quelle «sciocche storie» erano vere. I tedeschi credevano che attraverso il protrarsi del deficit e della svalutazione del marco sarebbero riusciti ad aumentare le loro esportazioni; e ciò, per citare le parole di Melchior, avrebbe «rovinato il commercio con l’Inghilterra e l’America, in modo tale che gli stessi creditori sarebbero venuti da noi per richiedere delle modifiche». 87
Quando il marco crollò nuovamente portando il cambio col dollaro da 14 a 99 marchi, tra il giugno 1919 e il febbraio 1920, dopo che la Germania aveva cessato di mantenere il controllo sul cambio, 88 il ministro dell’Economia Robert Schmidt dichiarò esplicitamente che cosa sperava di ottenere in questo modo: «Il flusso di beni tedeschi all’estero a prezzi stracciati costringerà l’Intesa a permetterci di riportare in ordine il nostro cambio». 89 Come disse Felix Deutsch, del colosso dell’elettrotecnica AEG: «La nostra buona fortuna, in mezzo a tanta disgrazia, è la nostra debole valuta, che ci permette di esportare su vasta scala». 90 Per conservare questa buona fortuna, il ministro dell’Economia decise di intervenire contro il marco tra marzo e giugno del 1920, acquistando sostanziose quantità di valuta estera per limitare la rivalutazione del marco. 91 Warburg spiegò chiaramente le ragioni di questa strategia in un discorso redatto nell’ottobre del 1920: «Anche a rischio di vendere talvolta i nostri prodotti all’estero a prezzi troppo bassi bisogna far capire al mondo che è impossibile oberare un paese di debiti e allo stesso tempo privarlo dei mezzi per pagarli ... Non si potrà evitare il crollo totale della nostra valuta se il trattato di pace verrà mantenuto nella sua forma attuale». 92
Avrebbero potuto pagare?
In realtà le conseguenze economiche del trattato di Versailles furono per la Germania molto meno dure di quanto affermassero Keynes e i tedeschi. A parte gli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti erano usciti dalla guerra con pesanti perdite sulle loro bilance dei capitali. Le somme dovute agli Stati Uniti dai paesi che avrebbero dovuto ricevere le riparazioni ammontavano già a circa 40 miliardi di marchi oro. 93 Analogamente, non era soltanto la Germania ad avere perso la marina mercantile: le perdite totali delle marine mercantili mondiali (la maggior parte inflitte dalla Germania) ammontavano a più di 15 milioni di tonnellate. Comunque, non si deve esagerare il peso di queste perdite: in particolare, il naviglio mercantile fu rapidamente sostituito. Nel breve termine, l’economia mondiale ebbe un boom non appena gli imprenditori si precipitarono a sostituire scorte e impianti danneggiati durante la guerra, e furono riallacciati i legami commerciali interrotti dalle linee dei fronti, dalle corazzate e dai sottomarini. Nel 1920 il commercio internazionale aveva recuperato l’80 per cento del livello prebellico. L’espansione monetaria prodotta dalla finanza di guerra alimentò questa ripresa. Il prodotto nazionale netto della Germania crebbe del 10 per cento nel 1920 e del 7 per cento nel 1921. 94 Sebbene l’agricoltura continuasse a languire, gli indicatori della produzione industriale mostravano una netta tendenza all’aumento: fino al 46 per cento nel 1920 e al 20 per cento nel 1921, con alcune industrie (in particolare quelle dei cantieri navali e del carbone) caratterizzate da una crescita estremamente rapida. 95
All’estero questa combinazione di crescita rapida e di tasso di cambio debole appariva contraddittoria, e invitava alla speculazione. E il risultato fu che nel 1919-1920 il deficit commerciale della Germania venne finanziato non da prestiti stranieri su vasta scala ma da numerosi acquisti su piccola scala di marchi cartacei da parte degli stranieri. I depositi stranieri nelle sette grandi banche di Berlino aumentarono da 13,7 miliardi di marchi nel 1917 a 41,6 miliardi di marchi nel 1921, cifra equivalente a quasi un terzo dei depositi totali. 96 A New York gli acquisti di marchi raggiunsero i 60 milioni di marchi oro tra il luglio del 1919 e il dicembre del 1921. 97 Keynes ne era vagamente consapevole. «La speculazione», osservava già all’inizio del 1920, era «di scala eccezionale; anzi, era la più grande che si fosse mai vista.» 98 Ma non seppe riconoscere il probabile impatto che avrebbe avuto sul tasso di cambio. Nel marzo del 1920 il marco cessò improvvisamente di calare rispetto al dollaro e si riprese, risalendo da un cambio di 99 marchi per dollaro fino a un picco di 30 marchi per dollaro a giugno. Nei mesi successivi tutte le tendenze degli otto mesi precedenti furono ribaltate. In Germania i prezzi interni diminuirono di circa il 20 per cento a partire dal picco massimo del marzo 1920 e fino a luglio, poi fluttuarono attorno a circa tredici volte il loro livello prebellico fino all’estate del 1921. Nel maggio del 1921 il tasso di inflazione annua scese al minimo postbellico del 2 per cento. Nello stesso tempo, il divario tra i prezzi tedeschi e i prezzi del mercato mondiale si ridusse drasticamente. 99 Questo non solo arrestò l’impulso tedesco all’esportazione, 100 ma costò anche a Keynes più di 20.000 sterline (quasi tutte scucite di tasca propria), che aveva investito in base al presupposto che le conseguenze economiche della pace sarebbero state precisamente quelle da lui stesso previste. 101 Solo in seguito Keynes comprese veramente ciò che era accaduto:
[Dall’] ebreo errante nelle strade delle capitali ... al garzone del barbiere nelle più remote cittadine della Spagna e del Sudamerica il discorso è sempre stato lo stesso ... La Germania è un paese grande e forte; un giorno si riprenderà; quando ciò accadrà, anche il marco si riprenderà, il che frutterà un profitto assai grande. Così poco capiscono di storia ed economia i banchieri e le cameriere. 102
In realtà, il rallentamento dell’inflazione era il riflesso di ben più che una semplice speculazione male informata. Si era aperta una fase di deflazione internazionale perché le autorità fiscali e monetarie britanniche e americane avevano compiuto i primi passi per la stabilizzazione dei conti accresciutisi durante la guerra e per interrompere l’inflazione con l’aumento delle imposte e la restrizione del credito. Nel 1921 si ebbero brusche cadute dei prezzi in entrambi i paesi, e la deflazione tendeva a diffondersi anche tra i loro partner commerciali. 103
Non si può nemmeno sostenere in modo credibile che il totale delle riparazioni fissato nel 1921 costituisse un onere insopportabile. Dei complessivi 132 miliardi di marchi oro, 82 erano in qualche misura «teorici», in quanto le obbligazioni C destinate a coprire quella cifra sarebbero state emesse in una data futura non specificata, quando la ripresa dell’economia tedesca si fosse sufficientemente consolidata. 104 Questo gettava un ombra sul futuro e limitava indubbiamente la capacità del Reich di ottenere prestiti sul mercato internazionale; ma significava anche che nel 1921 le obbligazioni immediate della Germania ammontavano a meno di 50 miliardi di marchi oro: precisamente, a 41 miliardi (tenendo conto di quanto era già stato pagato dopo il 1919). Questa era stata la somma che lo stesso Keynes aveva considerato pagabile nelle Conseguenze economiche della pace. Per di più, alla metà del 1921, l’inflazione aveva già sostanzialmente ridotto il valore reale del debito interno del Reich a circa 24 miliardi di marchi oro; pertanto, come percentuale del reddito nazionale, le passività complessive del Reich, incluse le obbligazioni A e B, ammontavano a circa il 160 per cento. Si trattava di un onere debitorio certamente più alto di quello che la Francia aveva dovuto affrontare dopo la guerra franco-prussiana: se si somma l’indennità chiesta da Bismarck (5000 milioni di franchi) al debito nazionale francese dell’epoca (11.179 milioni di franchi), il passivo totale risulta equivalente a circa l’84 per cento del prodotto nazionale netto del 1871. Invece, l’onere debitorio della Germania nel 1921 era solo leggermente inferiore alla proporzione del totale del debito nazionale britannico (interno ed esterno) rispetto al prodotto nazionale lordo nello stesso anno (165 per cento). Nel 1815 per la Gran Bretagna la proporzione tra il debito e il reddito nazionale era stata ancora maggiore: vicina al 200 per cento. Ma la Gran Bretagna, malgrado questo fardello, era riuscita a diventare l’economia di maggior successo del XIX secolo.
Anche il pagamento annuo richiesto alla Germania non era eccessivo. Come abbiamo visto, le riparazioni annuali previste dall’Ultimatum di Londra comportavano un’annualità totale di circa 3 miliardi di marchi oro. Almeno 8 miliardi di marchi oro, e forse addirittura 13 miliardi, furono effettivamente consegnati nel periodo 1920-1923, vale a dire tra il 4 e il 7 per cento del reddito nazionale complessivo. Nell’anno più difficile, il 1921, la cifra fu appena dell’8,3 per cento (si veda la fig. 19). Era una cifra nettamente inferiore a quella ipotizzata da Keynes, che oscillava tra il 25 e il 50 per cento del reddito nazionale. 105 Senza dubbio, era una percentuale del reddito nazionale notevolmente più alta di quella poi pagata in base al piano Dawes (con un massimo di circa il 3 per cento); e superava di gran lunga gli oneri imposti ai paesi in via di sviluppo dal debito internazionale negli anni Ottanta del XX secolo, per non parlare delle somme attualmente pagate dai paesi occidentali sotto forma di aiuti al Terzo mondo. 106 Ma tra il giugno del 1871 e il settembre del 1873 la Francia pagò alla Germania 4993 milioni di franchi: circa il 9 per cento del prodotto nazionale netto nel primo anno e il 16 per cento nel secondo anno.
Infine, non era totalmente assurdo aspettarsi che la Germania pagasse un onere annuo inferiore per un periodo più esteso di quanto era avvenuto negli anni Settanta dell’Ottocento. Il rapporto redatto nel 1929 dalla Commissione Young viene spesso deriso per avere proposto che la Germania continuasse a pagare riparazioni fino al 1988. Ma, a cominciare dal 1958, la Germania ha pagato più di 163 miliardi di marchi al resto dell’Europa sotto forma di contributi netti ai bilanci della Comunità economica europea e dell’Unione europea. Naturalmente, le somme versate annualmente hanno rappresentato una percentuale molto piccola del reddito nazionale; ma in termini nominali il totale finale risulta molto maggiore di quanto fu chiesto per le riparazioni post-Versailles: si trattava precisamente del trasferimento a lungo termine e appena percettibile al quale mirava il Piano Young.
Keynes aveva ragione su un punto: le riparazioni comportavano un acuto conflitto internazionale di interessi. 107 Se la Germania doveva realizzare un surplus della bilancia commerciale di 3 miliardi di marchi oro, ci sarebbe stata necessariamente una drastica contrazione delle importazioni e un’espansione delle esportazioni tedesche. Ma quale dei partner commerciali della Germania ne avrebbe pagato il prezzo? I rappresentanti dell’industria britannica e francese sostennero ripetutamente che dopo la guerra si sarebbero dovuti prendere provvedimenti «per impedire alla Germania, che resterà in ogni caso un pericolosissimo nemico economico, di inondare i nostri mercati». 108 Nel gennaio del 1916 un rapporto del ministero del Commercio sugli scambi postbellici individuava
Figura 19 – L’onere delle riparazioni di guerra, 1920-1932.
Fonte: Ferguson, Paper and Iron, p. 477.
il timore generale che, subito dopo la guerra, questo paese sia inondato da prodotti tedeschi e austro-ungarici, venduti a qualsiasi prezzo, e che la concorrenza dei prezzi già presente prima della guerra sia ulteriormente accentuata, con il risultato di mettere in seria difficoltà tutti i produttori di beni esposti a una tale concorrenza e di provocare un sicuro disastro per quei produttori che sono stati incoraggiati a estendere il raggio delle loro attività o a impegnarsi in nuovi rami industriali, con lo scopo di impadronirsi del commercio finora gestito da paesi nemici. 109
Nel giugno seguente, alla conferenza anglo-francese di Parigi, fu discussa la questione della discriminazione postbellica nei confronti del commercio tedesco e furono adottate alcune risoluzioni limitate. 110 Nel dicembre del 1917 una commissione d’inchiesta sulla politica economica postbellica concluse che «ai paesi attualmente nemici non si dovrebbe permettere, almeno per un certo periodo, di avere rapporti commerciali con l’Impero britannico nelle stesse modalità senza restrizioni di prima della guerra, o in termini pari a quelli accordati ai paesi alleati o neutrali». 111 Dopo la guerra queste risoluzioni si espressero sotto forma di dazi speciali sulle importazioni tedesche: i tedeschi li definirono «abbuoni dell’odio». 112
D’altra parte, se le riparazioni dovevano essere finanziate da prestiti alla Germania, quali rivendicazioni avrebbero avuto la precedenza? Quelle dei beneficiari delle riparazioni o quelle dei nuovi prestatori? Come ha sostenuto Stephen A. Schuker, i tedeschi ricevettero sottoforma di prestiti esteri mai estinti tanto quanto pagarono in riparazioni. 113 Tra il 1919 e il 1932 la Germania pagò complessivamente 19,1 miliardi di marchi oro in riparazioni; nello stesso periodo ricevette 27 miliardi di marchi oro in afflussi netti di capitale, principalmente da investitori privati, che non furono mai restituiti a causa dei default del 1923 e del 1932.
Ma da questo non discende necessariamente che il governo tedesco avesse ragione nel non provare a pagare le riparazioni. La questione non è se il trasferimento fosse sostenibile, ma se la strategia adottata dai tedeschi e approvata da Keynes fosse il modo migliore per convincere gli Alleati che non lo era. Si riteneva che il «revisionismo economico» mettesse sotto pressione le economie alleate favorendo un’inondazione delle esportazioni tedesche. Cosa che si verificò indubbiamente nel 1919, ma non durò a lungo. Nemmeno la brusca svalutazione del marco sul dollaro avvenuta tra maggio e novembre del 1921 provocò una ripetizione della «svendita» (Ausverkauf) dell’immediato dopoguerra. In effetti le statistiche disponibili sulle esportazioni indicano un aumento del 35 per cento del valore in marchi oro delle esportazioni mensili nell’anno successivo al maggio 1921, mentre le cifre annue suggeriscono un aumento di due terzi nel volume delle esportazioni. 114 Anche i calcoli di Graham su quarantatré categorie di beni indicano aumenti nelle esportazioni. 115 Ma, allo stesso tempo, le importazioni crescevano ancora più rapidamente. Questo era di fondamentale importanza, in quanto soltanto un surplus commerciale avrebbe avuto l’effetto desiderato di esercitare pressione sugli Alleati. Le cifre annue sembrano indicare un disavanzo della bilancia commerciale di circa 690 milioni di marchi oro nel 1921 e di oltre 2200 milioni di marchi oro nel 1922, in confronto a un modesto surplus nel 1920. 116 Le cifre mensili forniscono un quadro più preciso: il disavanzo commerciale si ampliò tra maggio e settembre del 1921, si restrinse fino a registrare un esiguo surplus nel dicembre del 1921, e poi si ampliò nuovamente fino a toccare il picco nel luglio del 1922. I dati dei volumi di scambio dicono sostanzialmente la stessa cosa, ma indicano altresì un ampliamento ancora più drammatico del disavanzo dopo il febbraio 1922, sebbene a quell’epoca la percentuale di prodotti finiti o semifiniti fosse salita a un terzo di tutte le importazioni. 117 E queste cifre potrebbero in realtà indurre a sottovalutare l’ampiezza del divario commerciale. Mentre i funzionari del ministero dell’Economia continuavano a sostenere che le esportazioni erano sottovalutate e che il deficit nel 1922 era trascurabile (affermazioni che hanno ingannato storici successivi), nell’Ufficio statistico del Reich c’era un «consenso completo» sul fatto che «il deficit della bilancia commerciale fosse stato notevolmente sottovalutato». 118
In altre parole, contrariamente alle previsioni dei sostenitori del revisionismo economico, il disavanzo commerciale si approfondì nei periodi di più brusca svalutazione del tasso di cambio nominale e si ridusse quando il marco si stabilizzò. 119 Proprio quando si credeva che stesse mettendo sotto pressione i paesi beneficiari delle riparazioni inondando i loro mercati con le sue esportazioni a basso prezzo, in realtà la Germania allentava la pressione fornendo un mercato fiorente per le loro esportazioni. 120 Questo avrebbe potuto essere un bene per l’economia mondiale, contribuendo a liberarla da un ribasso che altrimenti poteva trasformarsi in una depressione, 121 ma fu del tutto controproducente dal punto di vista della diplomazia tedesca.
I motivi di questo disavanzo commerciale tedesco inaspettatamente grande sono chiari. L’ostilità estera nei confronti delle esportazioni tedesche potrebbe essere stato un fattore, ma il vero problema era che, sebbene in termini nominali il marco si stesse chiaramente svalutando rispetto ad altre importanti valute, in termini reali – consentendo mutamenti nei prezzi relativi – non si assisteva a un significativo miglioramento della competitività tedesca. 122 Questo rifletteva il basso livello dei prezzi britannici e americani, il protrarsi della speculazione straniera sul marco e un più rapido adattamento dei prezzi interni e dei salari tedeschi.
L’idea che una svalutazione prolungata avrebbe aiutato la Germania a evitare di pagare le riparazioni era quindi fondamentalmente errata. Semmai, ebbe l’effetto opposto. Inevitabilmente, questo ci spinge a porre la seguente domanda: una politica di stabilizzazione non sarebbe stata più efficace per esercitare pressione sugli Alleati riducendo la richiesta tedesca di importazioni? L’esperienza del periodo successivo al 1930, quando una rigida politica deflazionistica ridusse drasticamente le importazioni tedesche, fa supporre che avrebbe potuto essere così. Dopotutto, le riparazioni sopravvissero alla crisi del 1923 e furono ripristinate – con un altro schema, ma senza riduzioni – nel 1924; ma finirono morte e sepolte dopo la moratoria di Hoover nel 1931. Fu la vittoria di Pirro della politica estera di Weimar: il debito estero di guerra della Germania – teoricamente attorno ai 77 miliardi di dollari nel 1931 – venne effettivamente cancellato a spese dei suoi ex nemici (si veda la tab. 44). Considerando che il valore totale delle riparazioni concretamente pagate dalla Germania non può avere superato i 4 o 5 miliardi di dollari, la conclusione appare chiara. Ciò che l’iperinflazione fece per il debito interno di guerra, la depressione lo fece per l’onere esterno imposto in forma di riparazioni. Avendo già combattuto la prima guerra mondiale spendendo relativamente poco, il Reich tedesco riuscì in definitiva a pagare solo una piccola frazione del costo finanziario della guerra.
Tabella 44 – Debiti di guerra e obblighi di riparazioni insoluti nel 1931 (in migliaia di sterline).
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Entrate sospese |
Pagamenti sospesi |
Perdita netta (–) o guadagno |
Stati Uniti |
53.600 |
|
– 53.600 |
Gran Bretagna |
42.500 |
32.800 |
– 9700 |
Canada |
900 |
|
– 900 |
Australia |
800 |
3900 |
3100 |
Nuova Zelanda |
330 |
1750 |
1420 |
Sudafrica |
110 |
|
– 110 |
Francia |
39.700 |
23.600 |
– 16.100 |
Italia |
9200 |
7400 |
– 1800 |
Belgio |
5100 |
2700 |
– 2400 |
Germania |
|
77.000 |
77.000 |
Ungheria |
|
350 |
350 |
Austria |
|
300 |
300 |
Bulgaria |
150 |
400 |
250 |
Fonte: Eichengreen, Golden Fetters, p. 278.
Non possiamo incassare
Il vero problema della pace non era che fosse troppo dura, ma che gli Alleati non fossero in grado di imporla; insomma, il problema non era tanto «non vogliono pagare» quanto piuttosto «non siamo in grado di incassare». Negli anni 1870-1873 i tedeschi avevano occupato ampie zone della Francia settentrionale e vincolato il loro ritiro al pagamento dell’indennità: quanto più rapidamente i francesi pagavano tanto più presto i tedeschi se ne sarebbero andati. Gli Alleati, invece, avevano imposto il complesso delle riparazioni non nel 1919 ma soltanto nel 1921, dopo avere tolto il blocco navale e con in campo solo una forza minima, per la precisione in Renania. Anziché sfruttare l’occupazione come stimolo al pagamento delle riparazioni, gli Alleati – o meglio, i francesi – cercarono di usare la minaccia di un’occupazione più vasta come spada di Damocle per scoraggiare l’inadempienza. Sul piano psicologico era un passo falso, in quanto incoraggiava i tedeschi a scommettere sul fatto che (come Keynes aveva sconsideratamente suggerito nel 1922) i francesi stessero bleffando. L’alternativa era, in effetti, pagare volontariamente le riparazioni; non sorprende che i politici democraticamente eletti fossero estremamente riluttanti ad approvare tasse imposte a questo fine. La difficoltà che dovevano affrontare i politici di Weimar – persino quelli che credevano sinceramente che la Germania dovesse rispettare le condizioni di pace – era semplice: dovevano conciliare le rivendicazioni concorrenti avanzate nei confronti del bilancio del Reich tanto dai loro stessi elettori quanto dagli ex nemici della Germania. In poche parole: gli Alleati pretendevano il pagamento delle riparazioni per i danni subiti a causa della guerra; ma anche gli elettori tedeschi pensavano di avere diritto a delle «riparazioni» per le privazioni sopportate fin dal 1914.
Secondo le cifre del bilancio tedesco, il totale delle spese reali in base alle condizioni del trattato di Versailles negli anni che vanno dal 1920 al 1923 ammontava a una cifra oscillante tra i 6,54 e i 7,63 miliardi di marchi oro. Cifra equivalente a circa il 20 per cento della spesa globale del Reich e al 10 per cento della spesa pubblica complessiva. In altri termini: le riparazioni equivalevano a un quinto del deficit del Reich nel 1920, e a più di due terzi nel 1921. 123 Ma anche se si sottraggono i pagamenti delle riparazioni, la spesa pubblica totale rimane ancora a circa il 33 per cento del prodotto nazionale netto, in confronto a circa il 18 per cento del periodo prebellico. 124 Inoltre, anche se senza le riparazioni l’inflazione avrebbe potuto essere più bassa e di conseguenza i redditi più alti, si può tuttavia suppore che vi sarebbe ancora stato un disavanzo. Non si può sostenere che la spesa interna non sarebbe aumentata se le riparazioni fossero magicamente svanite.
Oltre ai costi reali decrescenti del mantenimento del debito consolidato, le riparazioni tedesche ai tedeschi – come possono essere definite queste spese interne – includevano spese maggiori per le retribuzioni del settore pubblico, sovvenzioni per i disoccupati, metà delle quali pagate dal Reich, sussidi per l’edilizia e per calmierare i prezzi delle derrate alimentari. 125 C’erano poi i costi del pagamento delle pensioni a più di 800.000 feriti di guerra, 533.000 vedove di guerra e 1.200.000 orfani di guerra. 126 Il «buco» più tristemente famoso del bilancio, però, era il disavanzo prodotto dal sistema ferroviario e da quello postale: il deficit della Reichsbahn ammontava a circa un quarto del disavanzo complessivo del Reich tra il 1920 e il 1923. In parte ciò era la conseguenza dell’acquisto di nuovo materiale rotabile e dell’incapacità di sostenere il vero valore delle tariffe e dei costi del trasporto merci. 127 Ma era dovuto anche alla preoccupazione del governo di mantenere certi livelli di occupazione, cosa che portò a un cronico eccesso di personale. 128 Una situazione analoga caratterizzava anche i sistemi delle poste, dei telegrafi e dei telefoni. 129 Inoltre, il costo della ricostruzione della marina mercantile tedesca (che aveva lo scopo di mantenere alta l’occupazione nei cantieri navali) ammontava al 6 per cento delle spese complessive del Reich nel 1919 e nel 1920. 130 Queste «riparazioni interne» erano più importanti delle riparazioni vere e proprie nella generazione del deficit fiscale della Germania.
Naturalmente, tutti i paesi che avevano partecipato alla guerra dovettero affrontare il medesimo problema: un onere debitorio talmente elevato che il semplice pagamento degli interessi impediva di fare le grandi spese assistenziali che erano state promesse agli elettori durante la guerra. La «lista della spesa» stilata dal ministro della Ricostruzione britannico Christopher Addison nel febbraio del 1918 è al proposito illuminante:
Un adeguato programma di ristrutturazione edilizia comprendente acquisto di materiali e acquisizione di terreni su vasta scala ... un considerevole trasferimento di terreno agricolo alle autorità pubbliche allo scopo di creare piccole proprietà, insediamenti per i soldati, imboschimenti e bonifiche ... la ricostruzione delle strade e la riparazione delle ferrovie ... il finanziamento per un determinato periodo, parzialmente o interamente, di certe industrie essenziali ... un prolungamento dell’assicurazione sulla disoccupazione per affrontare le difficoltà che l’industria deve aspettarsi durante il periodo di transizione ... un rafforzamento del servizio sanitario a livello sia centrale sia locale. 131
Addison si opponeva «all’idea che tutto dovesse essere subordinato al pagamento del debito», sostenendo invece che la Gran Bretagna dovesse essere «pronta ad affrontare spese essenziali per ristabilire il prima possibile la piena capacità operativa della produttività nazionale». Ciò non era molto diverso dalle argomentazioni che circolavano nella Germania postbellica. La differenza era che in Gran Bretagna i sostenitori della copertura del debito e dell’ammortamento ebbero partita vinta, mentre in Germania vinsero i sostenitori delle spese assistenziali. È per questo motivo che nel 1921 in Gran Bretagna l’inflazione lasciò il posto alla deflazione, mentre in Germania le zecche continuarono a stampare fino al collasso finale della valuta.
Già nel 1922 il debito nazionale tedesco era stato talmente eroso dall’inflazione che, in dollari, era quasi esattamente uguale a com’era stato nel 1914 (1,3 miliardi di dollari, in confronto a 1,2 miliardi alla vigilia della guerra). Viceversa, quello della Gran Bretagna era quasi dieci volte maggiore di quello prebellico e quello degli Stati Uniti più di un centinaio di volte (si veda la tab. 45). Sei anni dopo, la differenza era ancora più pronunciata. Nel 1913 i debiti combinati del Reich e degli Stati erano ammontati a circa il 40 per cento del prodotto nazionale lordo. Nel 1928 la cifra era scesa ad appena l’8,4 per cento. Al contrario, il debito nazionale britannico era aumentato dal 30,5 per cento del prodotto nazionale lordo nel 1913 fino a un devastante 178 per cento nel 1928. 132 Malgrado le proteste dei sostenitori della piena «rivalutazione» in Germania, il ministro delle Finanze Hans Luther era riuscito a cancellare effettivamente il debito di guerra tedesco. Quando, nel febbraio del 1924, redasse il terzo decreto sull’imposta di emergenza, che prometteva una modesta (dal 10 al 15 per cento) rivalutazione delle ipoteche private e dei titoli obbligazionari, Luther escluse esplicitamente un trattamento analogo per i 60 milioni di marchi di buoni di guerra ancora in circolazione (finché non fossero state pagate le riparazioni). La previsione fatta in tempo di guerra da Georg Reimann, secondo il quale la seisáchtheia di Solone avrebbe rivisto la luce in Germania, si era avverata. 133
Tabella 45 – Debiti nazionali in termini di dollari, 1914 e 1922.
|
1914 |
1922 |
1922 in percentuale del 1914 |
Stati Uniti |
1338 |
23.407 |
1749 |
Gran Bretagna |
3440 |
34.251 |
996 |
Francia |
6492 |
27.758 |
428 |
Italia |
3034 |
8689 |
286 |
Germania (Reich) |
1228 |
1303 |
106 |
Fonte: Bankers Trust Company, French Public Finance, p. 137.
La scelta tra inflazione e deflazione aveva importanti implicazioni macroeconomiche e di conseguenza sociali. In La riforma monetaria Keynes le presentò in modo sostanzialmente esplicito: un governo che pareggiasse il bilancio e riportasse la sua moneta alla parità prebellica correva il rischio di ridurre il rendimento economico complessivo e l’occupazione; d’altra parte, un governo che continuasse a mantenere il deficit e quindi l’inflazione avrebbe aumentato i livelli di produzione e di occupazione, ma a spese dei possessori di obbligazioni e di altri risparmiatori titolari di beni cartacei. Perciò in Gran Bretagna la guerra fu pagata – e persino a un prezzo maggiorato perché il valore reale del debito di guerra effettivamente aumentò – imponendo la deflazione e di conseguenza la disoccupazione della classe operaia; mentre in Germania (e, naturalmente, in Russia) furono i possessori di obbligazioni a pagare.
Ma qual era la scelta migliore? Nel suo saggio Keynes sosteneva che, sebbene l’inflazione fosse «peggiore» della deflazione «nell’alterare la distribuzione della ricchezza», la deflazione era «più dannosa» nel «ritardare la produzione della ricchezza». Benché esprimesse comprensione per la classe media, «dalla quale sono nate molte buone cose», preferiva la prima soluzione, «perché in un mondo impoverito è peggio provocare disoccupazione che irritare i rentiers». 134 In effetti Keynes considerava chiaramente un’eccezione a questa regola «inflazioni esagerate tipo quella della Germania»; tuttavia, c’è stata la tendenza a dimenticare questa importante precisazione. Per citare le parole di Frank Graham, per esempio, «la bilancia dei guadagni e delle perdite materiali» dell’inflazione tedesca pendeva «dalla parte dei guadagni». 135 Questa stessa tesi fu sviluppata negli anni Sessanta fra gli altri da Karsten Laursen e Jørgen Pedersen, secondo i quali non soltanto la produzione aumentò nel 1920, 1921 e 1922, ma lo stesso fecero anche gli investimenti, creando l’opportunità di una crescita sostenuta che soltanto la situazione di depressione del periodo successivo al 1924 impedì di realizzare. 136 Nel caso specifico un dato di fondamentale importanza è che i livelli di occupazione tedesca furono inconsuetamente alti per gli standard internazionali negli anni 1920-1922: 137 era questo che aveva in mente Graham quando scrisse che «la Germania compì il vero processo di transizione dalla guerra a una stabile struttura monetaria postbellica con un costo reale più basso» di quello sostenuto dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. 138 Più di recente, alcuni manuali di storia economica si sono sforzati di sottolineare questi vantaggi relativi dell’inflazione, almeno per il periodo precedente l’iperinflazione. 139 Di conseguenza, una politica alternativa avrebbe condotto a una crescita minore, a investimenti più scarsi e a una più elevata disoccupazione.
Per spiegare le differenti scelte politiche adottate in ciascun paese gli storici hanno fatto ricorso a una combinazione di sociologia e cultura politica. È stato così suggerito che in Gran Bretagna alcuni gruppi sociali i cui interessi materiali erano stati effettivamente danneggiati dalla deflazione sostennero tuttavia la «saggezza convenzionale» della moneta forte per ragioni economicamente irrazionali, mettendo sullo stesso piano l’ortodossia gladstoniana e la rettitudine morale. 140 In Francia si seguì una via di mezzo, con una moderata svalutazione del debito nazionale, a riconoscimento del consistente ma non assoluto potere del rentier nella società francese. In Italia risultò impossibile risolvere il conflitto distributivo all’interno di un sistema parlamentare, e quindi la stabilizzazione della moneta dovette essere intrapresa sotto la dittatura di Mussolini. In Germania, al contrario, un settore importantissimo della borghesia – gli imprenditori e l’élite manageriale dell’industria – defezionò a favore della classe operaia, appoggiando le politiche inflazionistiche con l’obiettivo di una rapida espansione fisica dell’industria tedesca, ma a scapito degli azionisti, dei possessori di obbligazioni e delle banche. Mentre i primi resoconti avevano raffigurato la grande imprenditoria come la sola beneficiaria dell’inflazione, che poteva sfruttare i vantaggi di bassi tassi reali d’interesse, esigua imposizione e debole tasso di cambio, ora si sosteneva che anche i lavoratori ottennero buoni risultati. 141 L’inflazione era quindi il risultato inaspettato di un tacito «consenso inflazionario» tra l’industria, i sindacati e altri gruppi sociali contrari alla deflazione. 142 Il perdente era il rentier; ma l’effetto complessivo era quello di migliorare il tenore di vita della società nel suo insieme e di renderla più equa di quanto sarebbe stata se si fosse tentata la via della deflazione. 143 Questa tesi aveva anche implicazioni politiche. In un importante articolo Heinz Haller ha calcolato che i livelli della tassazione avrebbero dovuto superare il 35 per cento del reddito nazionale per pareggiare il bilancio senza ulteriori prestiti governativi: un livello di tassazione che oggi considereremmo modesto ma che, secondo Haller, sarebbe stato politicamente intollerabile nei primi anni Venti. Si è così potuto affermare che l’inflazione avesse «garantito la forma parlamentare di governo per il periodo della repubblica di Weimar», in quanto qualsiasi tentativo di stabilizzazione della politica fiscale e valutaria avrebbe provocato una crisi politica. 144
In realtà, queste giustificazioni per l’inflazione hanno origine nel dibattito politico di allora. In una riunione con l’ambasciatore americano a Berlino tenutasi nel giugno del 1922 Rathenau (ora ministro degli Esteri della Germania) e l’industriale Hugo Stinnes presentarono due giustificazioni diverse ma complementari della politica tedesca:
[Rathenau] affermò che l’inflazione non era economicamente peggiore del controllo dei redditi e sostenne che si limitava a prendere da chi già aveva e a dare a chi non aveva, il che, in un paese povero come la Germania, era perfettamente giusto. Stinnes ... dichiarò che la scelta era tra inflazione e rivoluzione e che tra le due lui stesso preferiva l’inflazione. 145
Per Stinnes l’inflazione era «il solo modo di dare alla popolazione un impiego regolare, cosa necessaria per assicurare la vita della nazione». 146 «Era», disse in seguito a Houghton, «politicamente necessario mettere al lavoro tre milioni di uomini di ritorno dalla guerra. Erano in gioco i soldi o la vita.» 147 Melchior si espresse sostanzialmente nello stesso modo:
All’epoca [l’inflazione] era politicamente e socialmente necessaria e ... se avessimo potuto controllarla non vi sarebbero stati danni permanenti. Non era pianificata ... Si trovò coinvolta nella creazione di nuovi capitali per permettere all’industria di assumere i soldati che rientravano dal fronte. 148
Sostenne inoltre che l’enorme disavanzo delle ferrovie di proprietà pubblica era necessario «per evitare di mettere in cassa integrazione 100.000 impiegati ... consegnandoli così nelle braccia del radicalismo politico». 149 Nel novembre del 1923 Warburg ribadì questo punto: «La questione era sempre se si desiderava fermare l’inflazione e scatenare la rivoluzione». 150 Queste tesi non erano abbracciate esclusivamente dagli uomini d’affari. Il sindacalista Paul Umbreit aveva di fatto sostenuto la stessa cosa quando si era schierato contro i tagli alle spese sociali. «Se gli effetti economici e sociali vengono contrapposti gli uni agli altri, gli interessi sociali devono avere la precedenza». 151
Ci sono tuttavia buoni motivi per dubitare della validità di queste argomentazioni. L’inflazione aveva costi ben più alti di quelli calcolati da Graham o da Laursen e Pedersen. L’economista italiano Costantino Bresciani-Turroni, che nel 1921 scrisse uno dei primi studi autorevoli su questo tema, li elencò come segue: calo della produttività; ripartizione sbagliata delle risorse; «profondo squilibrio nell’organismo economico»; «la più vasta espropriazione di alcune classi sociali mai attuata in tempo di pace»; e declino della moralità e della sanità pubblica:
Annientò il risparmio ... distrusse i valori morali e intellettuali ... avvelenò il popolo tedesco insinuando in tutte le classi lo spirito della speculazione e distraendole dal lavoro regolare, e fu la causa di incessanti disordini politici e morali ... [Per di più], rafforzando la posizione economica di quelle classi che formavano la spina dorsale dei partiti di «destra», vale a dire i grandi industriali e i finanzieri, incoraggiò la reazione politica contro la democrazia. 152
Pur essendosi schierato a favore dell’inflazione, lo stesso Keynes in altri casi aveva espresso analoghe opinioni. Nel suo saggio sulle conseguenze economiche della pace accolse l’idea (da lui attribuita a Lenin) che «il modo migliore di distruggere il sistema capitalista era quello di rovinarne la moneta»:
Attraverso un prolungato processo inflazionistico i governi possono confiscare, segretamente e inosservati, una sostanziosa parte della ricchezza dei loro cittadini. Con questo metodo non solo confiscano, ma confiscano arbitrariamente; e, mentre questo processo impoverisce molti, di fatto arricchisce pochi. Lo spettacolo di questo arbitrario riassetto di ricchezze colpisce non soltanto la sicurezza ma anche la fiducia nell’equità dell’attuale distribuzione della ricchezza. Coloro ai quali il sistema procura colpi di fortuna diventano «profittatori», oggetto dell’odio della borghesia, che l’inflazionismo ha impoverito non meno del proletariato. Mentre l’inflazione prosegue tutti i rapporti permanenti tra debitori e creditori, che costituiscono il fondamento ultimo del capitalismo, precipitano in un disordine talmente assoluto da renderli praticamente insignificanti ... Non c’è mezzo più sottile o più sicuro di sconvolgere le basi essenziali della società ... In Russia e Austria-Ungheria questo processo ha raggiunto un punto tale che, per i fini del commercio estero, la valuta risulta praticamente senza valore ... Là le miserie della vita e la disintegrazione della società sono troppo tristemente famose per richiedere un’analisi: e questi paesi stanno già vivendo concretamente ciò che per il resto dell’Europa rimane ancora nella sfera delle predizioni. 153
Le ricerche più recenti hanno fornito ampio sostegno a queste tesi. In particolare, l’ipotesi che l’inflazione stimoli gli investimenti è stata messa in dubbio dall’opera di Dieter Lindenlaub, il cui dettagliato studio sulle industrie meccaniche indica che la crescita dei prezzi (o meglio, l’incertezza sui prezzi futuri) in realtà scoraggiava gli investimenti. Fu soltanto nel 1920 – l’anno dei prezzi stabili – che le industrie avviarono nuovi importanti progetti, molti dei quali dovettero essere abbandonati quando l’inflazione riprese il suo corso nel 1921. 154 Più in generale, sembra difficile negare che, malgrado i benefici assicurati dall’inflazione nel 1921 e 1922, si ebbero brusche cadute della produzione e dell’occupazione non appena entrò in scena l’iperinflazione. Inoltre, Theo Balderston ha dimostrato in modo persuasivo che, a causa degli effetti dannosi sul sistema bancario e sul mercato dei capitali, l’inflazione fu indirettamente responsabile della particolare gravità della grande recessione tedesca negli anni 1929-1932. 155 Quindi, sul piano economico, i costi dell’inflazione sembrano avere superato di gran lunga i benefici.
Le spiegazioni sociologiche dei diversi esiti nazionali sono troppo semplicistiche. Tendono a trascurare il fatto che, in termini fiscali, il conflitto che contava davvero era quello tra i possessori del debito governativo e i contribuenti, e che questi erano tutt’altro che gruppi ben distinti. Ovunque la guerra aveva fatto aumentare notevolmente il numero dei possessori di obbligazioni. Se si somma il numero totale delle sottoscrizioni ai nove prestiti di guerra tedeschi, ne risulta che poco meno della metà arrivava ad appena 200 marchi o anche meno; per gli ultimi quattro prestiti di guerra la proporzione di queste modeste sottoscrizioni era mediamente del 59 per cento. 156 Nel 1924 i piccoli risparmiatori possedevano circa il 12 per cento del debito nazionale interno britannico. 157 Talvolta si dimentica anche che molti dei principali detentori di buoni di guerra erano investitori istituzionali anziché individuali – compagnie di assicurazione, casse di risparmio ecc. – i cui grandi acquisti in tempo di guerra erano concretamente eseguiti per conto dei piccoli risparmiatori. Per esempio, nel 1924 il 5,5 per cento del debito britannico era detenuto da compagnie di assicurazioni, mentre le banche ne possedevano l’8,9 per cento.
Nello stesso tempo, ci fu un aumento nel numero di persone che pagavano imposte dirette. In Gran Bretagna coloro che pagavano l’imposta sul reddito erano più che raddoppiati, passando da 1.130.000 nel 1913/1914 a 3.547.000 nel 1918/1919, mentre la proporzione dei salariati passò dallo 0 al 58 per cento. Senza dubbio, i salariati fornivano solo circa il 2,5 per cento degli introiti netti provenienti dall’imposta sul reddito; ma è difficile pensare che siano rimasti indifferenti alle 3,72 sterline che ognuno di essi dovette mediamente pagare nel 1918/1919. 158 In Germania le trattenute alla fonte sui salari fornivano una quota in continuo aumento degli introiti provenienti dalla tassazione diretta, mentre i contribuenti della classe media ritardavano il pagamento delle loro cartelle impositive aspettando che l’inflazione le riducesse in termini reali. Perciò i contribuenti tedeschi appartenenti alla classe operaia erano ancora più colpiti dall’imposta diretta. È inoltre essenziale ricordare i mutamenti postbellici del corpo elettorale, che precedentemente nella maggior parte dei paesi era stato limitato da requisiti di ricchezza o di reddito: ci si poteva aspettare che la democratizzazione facesse aumentare la rappresentatività politica degli elettori che non fossero né possessori di obbligazioni né contribuenti diretti. In Gran Bretagna, invece, il rapporto fra elettori e contribuenti diretti diminuì da 6,8 a 1 nel periodo prebellico a 6 a 1 nel 1918: in altre parole, il numero dei contribuenti era aumentato più del numero degli elettori (del 214 per cento in confronto al 177 per cento).
Perciò le analisi di classe di tipo sociologico non possono funzionare perché i gruppi cruciali – possessori di obbligazioni, contribuenti ed elettori – si erano profondamente trasformati durante la guerra e si sovrapponevano in modi che rendevano inutilizzabili i vecchi modelli basati sulle classi. Chi per un certo aspetto aveva vinto, poteva contemporaneamente perdere per un altro aspetto: sotto questo profilo i contadini tedeschi non erano un’eccezione. 159 Quindi i sacrifici compiuti dall’élite dei ricchi in Gran Bretagna prima del 1914 (sotto forma di una superimposta e di tasse di successione) e durante la guerra furono in qualche modo ricompensati dopo la fine del conflitto con un aumento reale del valore dei loro beni finanziari e del reddito che producevano. Per contro, i tedeschi ricchi, bravissimi a rifiutare o a evadere le imposte dirette prima, durante e dopo la guerra, furono penalizzati nel dopoguerra dal pagamento di una pesante imposta inflazionistica sui titoli il cui valore era determinato dal marco. In un certo senso, per la classe media dell’Europa la «scelta» era tra ricevere redditi sotto forma di interessi sui buoni di guerra, perdendoli tuttavia a causa di una tassazione più pesante, o evitare l’imposta ma perdendo i buoni di guerra a causa dell’inflazione.
Non si pone il minimo dubbio su quale fosse la scelta politicamente più rischiosa. In Gran Bretagna gli elettori della classe media potevano anche lamentarsi del «problema della servitù» e di altri segnali del loro relativo impoverimento a partire dal 1914, ma restavano saldamente fedeli al conservatorismo parlamentare. In Germania, invece, il rispetto della classe media per la politica parlamentare aveva ricevuto un colpo fatale dall’esperienza dell’espropriazione inflazionistica: come aveva correttamente previsto il ministro prussiano della Giustizia Hugo am Zenhoff nel novembre del 1923, «un simile insuccesso dell’ordine legale può condurre a una grave frantumazione della sensibilità legale e della fiducia nello Stato». 160 La disintegrazione dei «partiti borghesi» in Germania può essere fatta risalire alle elezioni del 1924: sei anni dopo, buona parte degli elettori che se ne erano staccati per formare gruppi scissionisti come il Partito dell’economia si rivolse al nazionalsocialismo. 161
Sull’inflazione Hitler ebbe sempre un’opinione estremamente dura. Già nel 1922 denunciava «questa debole repubblica [che] sperpera follemente i suoi pezzi di carta allo scopo di permettere ai suoi funzionari di partito ... di nutrirsi alla mangiatoia». Il manifesto del Partito nazista del 1930 – l’anno del suo maggiore successo elettorale – proclamava: «Gli altri partiti possono essere scesi a patti con il ladrocinio dell’inflazione e avere riconosciuto questa repubblica fraudolenta, [ma] il nazionalsocialismo porterà davanti alla giustizia i ladri e i traditori». «Farò in modo che i prezzi rimangano stabili», promise Hitler agli elettori, aggiungendo: «È proprio a questo che servono le mie truppe d’assalto». 162 Sebbene la propaganda nazista facesse grande uso del servizio militare prestato dal «milite ignoto» Hitler (e dall’asso dell’aria Hermann Göring) – arrivando persino a far sfilare veterani mutilati o invalidi durante la campagna elettorale 163 – il movimento nazista era in realtà solo indirettamente un prodotto dell’«esperienza del fronte». Dopotutto, circa il 38 per cento di quanti votarono per i nazisti nel 1933 aveva sedici anni, o anche meno, quando terminò la guerra, mentre la principale associazione postbellica di veterani era stata fondata dalla SPD. 164 Fu la crisi economica del dopoguerra, e non la guerra, a produrre il nazismo, e, con esso, la guerra successiva.
Alternative all’iperinflazione
Rimane da stabilire se si sarebbe potuta evitare la catastrofe dell’iperinflazione.
Chiaramente, qualsiasi tentativo di riportare il marco alla parità prebellica seguendo il modello britannico era fuori discussione; un calo della produzione di quasi il 5 per cento e un tasso di disoccupazione superiore al 10 per cento (effetto della politica deflazionistica attuata dalla Gran Bretagna nel 1920-1921) sarebbero stati politicamente insostenibili. Ma il marco non avrebbe potuto stabilizzarsi per esempio a 50 marchi per dollaro o all’8 per cento del suo valore prebellico? Una stabilizzazione di questo tipo (non dissimile da quella avvenuta in Jugoslavia, Finlandia, Cecoslovacchia e Francia) non avrebbe comportato una recessione analoga a quella britannica. 165
Nel 1920 il primo passo verso una stabilizzazione duratura della Germania avrebbe dovuto essere una maggiore (anche se non totale, bisogna sottolinearlo) riduzione del deficit di bilancio. 166 Come percentuale del prodotto nazionale netto stimato il deficit era sceso da circa il 18 per cento nel 1919 al 16 per cento nel 1920 e al 12 per cento nel 1921. Si sarebbe potuto fare di più. Imposte meglio progettate avrebbero potuto fruttare maggiori introiti: Steven B. Webb ha calcolato che, se gli introiti dell’imposta sul reddito non fossero stati erosi da una recrudescenza dell’inflazione dopo la metà del 1921, il deficit reale (al netto del pagamento del debito) per il periodo tra il luglio 1920 e il giugno 1921 sarebbe stato solo del 4 per cento del prodotto nazionale netto. 167 Più praticamente, se Erzberger avesse aumentato anche le imposte sui consumi, tutto il suo pacchetto impositivo non sarebbe sembrato alle classi medie una «socializzazione fiscale» così smaccata. Con le riforme di Erzberger, la quota di introiti del Reich provenienti dall’imposta diretta salì a circa il 60 per cento nel 1920/1921 e al 75 per cento nel 1921/1922, in confronto ad appena il 14,5 per cento (comprese le imposte di bollo) del periodo prebellico. 168 Era una percentuale troppo alta. Per di più, maggiori imposte sui consumi – sebbene considerate politicamente retrograde dalla sinistra – sarebbero state più facili da riscuotere. Si sarebbero potuti operare anche alcuni tagli corrispondenti nella spesa pubblica. Per dimezzare il deficit del 1920 ci sarebbero voluti aumenti impositivi di circa 1,5 miliardi di marchi oro e tagli alla spesa della stessa portata.
La politica fiscale da sola non può certamente spiegare perché la stabilizzazione non sia riuscita a durare. Sebbene la politica monetaria fosse largamente influenzata dalla monetizzazione del debito governativo, non si trattava affatto di una variabile interamente dipendente. Il problema può essere formulato in modo semplice. In termini di valuta in circolazione, il tasso di crescita valutaria fu in effetti maggiore nel 1920 che nel 1919 o nel 1921. 169 Questa espansione era solo in parte dovuta al protrarsi dei deficit governativi, dato che nello stesso periodo una quota crescente di buoni del Tesoro non era più detenuta dalla Reichsbank. 170 Rifletteva soprattutto l’elevata liquidità dei mercati valutari e la staticità del tasso di sconto imposto dalla Reichsbank, che mantenne i tassi di interesse del mercato a circa il 3,5 per cento e il tasso di sconto al 5 per cento fino al 1922. 171 Anche se nel 1919 minacciò concretamente di smettere di scontare i buoni del Tesoro, 172 la Reichsbank non fece alcun tentativo di inasprire le condizioni di credito per il settore privato. Anzi, al primo segnale di un tale inasprimento, intervenne per mantenere la liquidità delle imprese scontando le cambiali commerciali. 173
Ma c’era una politica monetaria alternativa. I tradizionali requisiti per la riserva della Reichsbank rimasero formalmente in vigore fino al maggio 1921. Senza dubbio, queste norme erano state sostanzialmente ammorbidite dalla decisione di considerare le Darlehnskassenscheine (banconote supplementari di guerra) equivalenti all’oro della riserva. Ma alla fine del 1920 il volume totale di queste banconote era sceso del 12,5 per cento in confronto all’anno precedente, mentre la riserva aurea della Reichsbank era rimasta grossomodo agli stessi livelli del 1913, vale a dire a 1092 milioni di marchi oro (il 19 per cento del valore reale della valuta in circolazione, in confronto al 18 per cento nel 1913). 174 Quindi, nel 1920 si sarebbe potuta avviare una stabilizzazione de facto della politica monetaria senza provocare necessariamente una significativa contrazione della valuta in circolazione. Per evitare il pantano legale di una riforma interna della valuta (con tutte le proteste che avrebbe suscitato da parte dei creditori già nel 1920), il modo più facile per ottenere questo risultato sarebbe stato quello di fissare il tasso di cambio del marco cartaceo rispetto al dollaro a 5 o 10 pfennig oro.
Perché non lo si fece? Alcuni storici hanno avuto la tendenza a sottolineare la mediocrità della dottrina economica tedesca in questo periodo; e senza dubbio ci furono molti economisti che si opposero apertamente alle politiche di stabilizzazione con motivazioni totalmente artificiose. 175 Tuttavia i politici non erano inconsapevoli dei rischi che avrebbero corso se avessero permesso che l’inflazione andasse fuori controllo. Il 28 giugno 1920 il cancelliere Konstantin Fehrenbach esortò i deputati del Reichstag «a promuovere la riforma delle finanze del Reich con la massima urgenza»:
L’inesorabile aumento del nostro debito fluttuante riduce il potere d’acquisto del nostro denaro, limita il nostro credito e spinge i prezzi a livelli da ladrocinio. Il volume di moneta cartacea non è un segno di prosperità (giustissimo!), ma un indice di impoverimento (ancora perfettamente d’accordo). Quanto più il valore della moneta cala tanto più violenta diventa la lotta per le paghe e i salari che, malgrado tutto, raramente riescono a stare al passo con l’aumento dei prezzi. Una trappola infinita! Rappresenta la minaccia più mortale per il commercio e i trasporti, per ogni ramo dell’industria e del lavoro. Questo pericolo deve essere affrontato con ogni mezzo disponibile, se vogliamo proteggere il nostro popolo dalla terribile disgrazia di un collasso non soltanto delle finanze statali ma anche dell’economia nazionale. Dio non voglia che il nostro popolo non giunga a rendersi conto di tutta la gravità della nostra attuale situazione in conseguenza di [tale] collasso! 176
Le espressioni di consenso con cui furono accolte le sue osservazioni dimostrano chiaramente che i politici tedeschi comprendevano i rischi di un deficit finanziario e sapevano che cosa avrebbero dovuto fare per stabilizzare la valuta.
Quali erano all’epoca gli argomenti contro questa stabilizzazione? Alcuni di essi erano stati messi in campo specificamente contro la svalutazione. Per esempio, si sosteneva che aziende e singoli individui con debiti di guerra in valuta estera sarebbero stati privati della possibilità teorica di una ripresa a più lungo termine del marco. Ancora più importante, però, era il timore di una crisi interna di liquidità o di una «scarsità di credito». Anche senza una politica di stabilizzazione, nella prima metà del 1921 ci furono più del doppio di bancarotte che nella prima metà del 1920. 177 Naturalmente, non era la bancarotta in se stessa a essere temuta, ma l’aumento della disoccupazione che ne era diretta conseguenza. Ma l’idea che una politica di restrizioni economiche avrebbe scatenato una «seconda rivoluzione» deve essere riesaminata.
Non c’è dubbio che la stabilizzazione nel breve termine avrebbe fatto aumentare la disoccupazione. Ponendo fine alla speculazione straniera sul marco e scoraggiando futuri investimenti in beni valutati in marchi, la svalutazione avrebbe inoltre evitato quell’aumento del disavanzo commerciale tedesco che si verificò nel 1921 e nel 1922, mettendo così un tetto ai consumi interni. D’altra parte, ci sono buone ragioni per pensare che la stabilità dei prezzi e una moneta svalutata avrebbero incoraggiato le imprese a proseguire i programmi di investimenti che avevano avviato nel 1920, ma in seguito interrotto. Né ci sono motivi per credere che i prestiti stranieri sarebbero cessati per sempre. Tutto sommato, ripresero molto rapidamente nel 1924, nonostante perdite ben più pesanti di quelle che avrebbe comportato una svalutazione nel 1920. Sembra ragionevole supporre che qualsiasi crisi di stabilizzazione nel 1920-1921 sarebbe stata meno grave della contrazione subita nel 1923-1924, quando, in una situazione di crollo valutario totale, il prodotto nazionale netto diminuì di circa il 10 per cento e il tasso di disoccupazione toccò il picco del 25 per cento degli iscritti ai sindacati, non includendo il 40 per cento dei lavoratori a orario ridotto. Simili livelli di disoccupazione non si sarebbero mai più ripetuti in Germania fino al 1931. Al contrario, nel 1920 la disoccupazione aveva superato il 5 per cento soltanto in due mesi (luglio e agosto); nell’intero anno la media non oltrepassò il 4,1 per cento. L’esperienza della Francia, dove era stata adottata una strategia analoga a quella qui proposta, indica che, in caso di stabilizzazione, la disoccupazione sarebbe al massimo raddoppiata. Un tasso di disoccupazione attorno al 10 per cento degli iscritti ai sindacati avrebbe rappresentato un «atterraggio nettamente più morbido» di quello del 1923-1924.
I timori che nutrivano i politici di Weimar per le conseguenze sociali di una simile disoccupazione erano esagerati. Senza dubbio, ci furono parecchie dimostrazioni di piccola scala da parte dei disoccupati all’epoca della relativa stabilizzazione del marco nel 1920. Facendo seguito allo sciopero generale contro Kapp e coincidendo con sporadiche proteste dei consumatori contro i prezzi troppo alti, non sorprende che questi scioperi suscitassero ansia. Tuttavia, era piuttosto illogico condensare queste varie manifestazioni di scontento popolare in un’unica minaccia potenzialmente rivoluzionaria. Infatti, una politica di stabilizzazione avrebbe determinato una riduzione del radicalismo sindacale e dell’insoddisfazione dei consumatori proprio attraverso la stabilizzazione dei prezzi, diminuendo così gli stimoli a scioperare per salari più alti e fornendo un ulteriore disincentivo con l’aumento dell’occupazione. Invece la politica del governo, fondata sulla concessione di sussidi a lavoratori impiegati in settori cruciali come quello dei trasporti, garantiva soltanto il tipo più illusorio di pace sociale, perché aumentare il numero e la busta paga di questi lavoratori serviva unicamente a rafforzare la posizione degli elementi più radicali dei sindacati e dei consigli dei lavoratori, nonché a inimicarsi i datori di lavoro e quindi a esacerbare i dissensi industriali.
In pratica, naturalmente, troppi interessi economici erano troppo ben rappresentati nella schiera di istituzioni concorrenti perché nella Germania di Weimar una politica che avesse mirato anche solo a un leggero intervento deflazionistico potesse avere qualche possibilità di successo. Persino nel 1923-1924, quando i peggiori timori di Fehrenbach si erano realizzati sotto gli occhi di tutti, si poté riformare la moneta soltanto usando i poteri eccezionali del presidente di governare tramite decreti. Questo fu, naturalmente, proprio il mezzo usato dopo il 1930 per indebolire il sistema di Weimar. Ma forse sarebbe stato meglio se la Germania avesse avuto un governo più autoritario dieci anni prima. Se si fosse riusciti a stabilizzare il marco nel 1920, anziché lasciarlo cadere nell’abisso dell’iperinflazione, la storia della Germania negli anni Trenta avrebbe potuto seguire un corso meno disastroso. Di fatto, Keynes dovette rimettersi subito all’opera per trovare un modo di pagare la prossima guerra. 178