VI
Gli ultimi giorni dell’umanità. 28 giugno - 4 agosto 1914
Perché la Bosnia?
Per lo storico della diplomazia il 1914 offriva la più esplosiva di tutte le risposte alla domanda preferita degli statisti e degli osservatori: la «Questione orientale», 1 vale a dire la lunga lotta, in cui furono coinvolte sia le rivalità fra le grandi potenze sia il nazionalismo balcanico, per cacciare l’Impero ottomano dall’Europa. Il punto cruciale era: chi, dopo i turchi? Era stata una lotta in cui, per la gran parte del XIX secolo, la Russia aveva rappresentato la potenza più aggressiva e l’Austria la sua perenne ma spesso distratta rivale, mentre la Gran Bretagna e la Francia si erano generalmente schierate contro la Russia. Il Vicino Oriente (a differenza di Medio ed Estremo Oriente, l’espressione è caduta in disuso) era anche un luogo perfetto per una guerra navale – niente di più facile per la flotta britannica di spostarsi a tutta velocità da Gibilterra ai Dardanelli – ma alquanto insalubre per una guerra sulla terraferma, come si accorsero tutti coloro che si trovarono a Sebastopoli nel 1854-1855 e a Gallipoli sessant’anni dopo. Anche i russi avevano conosciuto questo problema nel 1877, quando la loro avanzata verso Costantinopoli fu bloccata a Plevna, riducendo così il rischio di una seconda guerra di Crimea.
Per tutto il XIX secolo la Prussia e la Germania non presero praticamente parte a questo dramma. Saggiamente Bismarck risparmiò le ossa dei suoi granatieri della Pomerania per usarle in climi più nordici. Al volgere del secolo, però, si ebbe un riallineamento. In mancanza di una seria presenza navale russa nel mar Nero, la Gran Bretagna iniziava a perdere interesse per l’antica questione del controllo degli Stretti. D’altra parte, la Germania aveva iniziato a coltivare un interesse economico e politico per la Turchia, simboleggiato dal progetto della ferrovia Berlino-Baghdad. Cosa probabilmente ancora più importante, gli Stati balcanici che nel XIX secolo avevano ottenuto (o avevano ricevuto) l’indipendenza dal dominio ottomano cominciarono a perseguire politiche più aggressive e autonomiste. Nel 1886 la Russia aveva potuto sequestrare il re bulgaro, che aveva mostrato l’intenzione di perseguire una propria politica (anche se tale politica non era molto diversa da quella russa di una «grande Bulgaria»). Il governo serbo, però, non era mai stato così sottomesso a San Pietroburgo, e aveva una politica aggressivamente nazionalista ed espansionista. Quel che avevano fatto la Grecia nel Peloponneso negli anni Venti dell’Ottocento, il Belgio nelle Fiandre negli anni Trenta, il Piemonte in Italia negli anni Cinquanta e la Prussia in Germania negli anni Sessanta, era esattamente ciò che volevano fare i serbi nei Balcani all’inizio del Novecento: estendere il proprio territorio nel nome del nazionalismo degli «slavi del Sud».
Tuttavia, il successo o il fallimento dei piccoli Stati nella loro lotta per ottenere l’indipendenza o l’ampliamento territoriale dipendeva inevitabilmente dalla costellazione della politica delle grandi potenze. Era l’equilibrio, o la mancanza di equilibrio, ciò che contava nella «pentarchia» delle grandi potenze di Leopold von Ranke. Così i greci e i serbi riportarono successi (parziali) contro i turchi negli anni Venti dell’Ottocento solo nella misura in cui le grandi potenze glielo permisero. Esempio tipico del modo in cui si creavano nuovi Stati fu l’accordo internazionale del 1830 che trasformò la Grecia in una docile monarchia con un re tedesco. La stessa cosa accadde negli anni Trenta quando i belgi si separarono dagli olandesi: fu soltanto nel 1839 che gli interessi conflittuali delle grandi potenze si armonizzarono nel fatale accordo che obbligava il nuovo Stato alla neutralità. Nel 1865 la creazione della Romania dalle province di Moldavia e Valacchia – l’unica conseguenza permanente del pasticcio della guerra di Crimea – fu un altro caso di questo tipo.
Al contrario, il Piemonte e la Prussia beneficiarono del disinteresse e del disaccordo internazionali. Cavour ottenne la sua confederazione dell’Italia settentrionale con l’aiuto di Napoleone III; la successiva acquisizione degli Stati pontifici, di Napoli e della Sicilia fu una delle rare occasioni in cui pochi autentici nazionalisti – i Mille di Garibaldi – ebbero partita vinta. La Prussia creò il Reich tedesco in parte sconfiggendo la Danimarca, l’Austria e la Francia, ma principalmente perché la Gran Bretagna e la Russia non posero obiezioni. L’indipendenza della Bulgaria era un progetto russo, progressivamente ridotto dalle minacce d’intervento britannico: si spiegano così la breve vita della Rumelia orientale e il proseguimento del dominio ottomano in Macedonia. Successivamente, la Norvegia ottenne l’indipendenza dalla Svezia senza che nessuno se ne curasse. A dimostrare che il potenziale rivoluzionario del nazionalismo si era sostanzialmente esaurito, tutti questi nuovi Stati erano monarchie e la maggior parte dei nuovi troni era occupata da discendenti delle vecchie case regnanti. In Europa si stabilirono solo due nuove repubbliche: quella francese nel 1871 e quella portoghese nel 1910, due paesi che erano già da molto tempo degli Stati-nazione.
Inoltre, i nuovi Stati non assomigliavano in alcun modo agli Stati-nazione etnicamente omogenei e compatti sognati da Mazzini. Il Belgio era un guazzabuglio linguistico; buona parte dei rumeni viveva fuori dalla Romania; ben pochi italiani parlavano l’italiano o si sentivano italiani (soprattutto nel Sud, che era diventato una colonia del Piemonte); quasi dieci milioni di tedeschi non vivevano entro i confini del Reich (come invece vi vivevano parecchi polacchi e danesi), che, in ogni caso, non era uno Stato-nazione unitario bensì una federazione. Senza poi dimenticare che per ogni progetto riuscito di Stato-nazione ce n’era un altro che invece era fallito. Gli irlandesi non riuscirono nemmeno a riprendersi il loro parlamento (la Home Rule), sebbene fossero in procinto di ottenerlo quando scoppiò la guerra. Le eroiche aspirazioni dei polacchi continuarono a essere frantumate dalla Russia e dalla Prussia: spartita quattro volte (1772, 1793, 1795 e 1815), la Polonia tentò due volte di ottenere l’indipendenza (nel 1830 e nel 1863), ma senza successo, perché venne sconfitta dall’esercito dello zar. L’autogoverno era un sogno lontano per i croati e i rumeni e per quei tedeschi che dovettero sopportare il rigido sciovinismo della dominazione magiara in Ungheria. Altre minoranze erano ancora più saldamente sottoposte al controllo dei russi: finlandesi, estoni, lettoni, lituani, ucraini e altri ancora. Sull’altra sponda dell’Atlantico fu creato un nuovo Stato solo per essere quasi immediatamente smantellato: la Confederazione sudista non riuscì a conquistare la propria indipendenza dagli Stati Uniti. Se Bismarck vinse la «guerra civile» tedesca, Jefferson Davis perse la «guerra di unificazione» del Sud.
C’erano anche minoranze etniche che non aspiravano all’indipendenza nazionale prima del 1914, anche se in seguito alcune di esse l’avrebbero richiesta. I cechi e gli slovacchi residenti nell’Austria-Ungheria, per fare un esempio; ma anche gli ebrei, con l’eccezione dei pochi sionisti. E altresì (in un altro regno plurinazionale) gli scozzesi, la maggior parte dei quali traeva chiaramente benefici materiali dall’Unione e dall’impero, e che stupirono persino i cechi per la loro assoluta mancanza di sentimento nazionale. Al ricevimento organizzato dopo una partita di calcio tra Slavkov e Aberdeen (memorabilmente descritta da Jaroslav Hašek), gli ospiti cechi cercarono di avere uno scambio culturale, offrendo agli scozzesi «il risveglio del popolo ceco», presentando i loro eroi nazionali (come Hus, Havlícek e san Giovanni Nepomuceno) e intonando l’inno ceco. Ma gli scozzesi accettarono di suonare non per amore del proprio paese bensì per denaro (2 sterline al giorno), credendo che Havlícek fosse un ex giocatore dello Slavkov e cantando a squarciagola «una canzonetta spinta su una graziosa vivandiera». 2
Infine, dovremmo anche ricordare l’esistenza di Stati e staterelli anomali che sfidavano i principi fondamentali del nazionalismo: la Svizzera, una confederazione plurilinguistica, o il Lussemburgo, minuscolo ducato indipendente che aveva lo stesso status internazionale del Belgio. Non c’era nessuna forza irresistibile chiamata nazionalismo a pretendere che la Bosnia-Erzegovina non potesse rimanere com’era: una provincia eterogenea dal punto di vista religioso, già appartenente all’Impero ottomano e poi, dopo le decisioni del Congresso di Berlino del 1878, occupata e amministrata dall’Austria-Ungheria e infine, nel 1908, ufficialmente inglobata (come terra della corona sotto il controllo del «comune» ministero delle Finanze austro-ungarico) nella monarchia asburgica.
Gli austriaci ammucchiarono soldati e burocrati in Bosnia, eliminarono il banditismo, costruirono duecento scuole elementari, mille chilometri di ferrovie e duemila di strade e cercarono invano di migliorare l’agricoltura (come quando inviarono in un villaggio un cinghiale di ottima qualità a scopo di riproduzione e i paesani se lo mangiarono arrosto a Natale). Nel 1910 crearono un parlamento bosniaco. Cercarono addirittura, ma invano, di convincere le diverse comunità religiose a sentirsi collettivamente bošnjaci. Ma non cavarono un ragno dal buco. L’unica cosa su cui concordavano ortodossi, cattolici e musulmani era che non gliene importava nulla del dominio austriaco; anzi, c’erano membri di ogni comunità religiosa nella Mlada Bosna (Giovane Bosnia), un gruppo terroristico studentesco. Quanto più gli austriaci stringevano la morsa, tanto più determinati si facevano i giovani terroristi. Quando l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia, duchessa di Hohenberg, andarono in visita a Sarajevo il 28 giugno (non solo per la festa nazionale di San Vito ma anche per l’anniversario della battaglia di Kosovo Polje del 1389), alcuni membri della Mlada Bosna decisero di ucciderli. Al secondo tentativo, e grazie alla svolta sbagliata più famosa della storia, ci riuscì Gavrilo Princip, uno studente tubercolotico serbo. 3 Il governo di Belgrado non aveva pianificato l’attentato, anche se Princip e i suoi compagni avevano indubbiamente ricevuto aiuto dalla Mano Nera, una società segreta panserba che aveva legami con il capo dei servizi segreti militari serbi, colonnello Dragutin Apis. I superiori di Apis sapevano perfettamente che le opportunità di annettere la Bosnia-Erzegovina al loro regno non sarebbero aumentate con una guerra contro l’Austria-Ungheria, militarmente superiore. D’altra parte, sapevano altrettanto bene che una guerra generale europea avrebbe senz’altro giovato alla loro causa. Come disse un giornalista serbo al ministro britannico a Belgrado già nel 1898 (alla vigilia della prima conferenza di pace dell’Aia):
L’idea di un disarmo non piace affatto al nostro popolo. La razza serba è spaccata tra sette o otto diversi governi stranieri, e non possiamo essere soddisfatti da tale stato di cose. Viviamo nella speranza di ottenere qualcosa per noi dalla conflagrazione generale, in qualsiasi momento accada. 4
Era questa la politica estera serba: una sorta di versione nazionalista del motto di Lenin «Tanto peggio, tanto meglio». «Ah sì», disse il ministro degli Esteri serbo, «se la disintegrazione dell’Austria-Ungheria potesse avvenire nello stesso momento della liquidazione della Turchia, la soluzione sarebbe molto più semplice.» 5 Ma perché questo accadesse, un’azione austriaca avrebbe dovuto come minimo scatenare una reazione russa.
Tuttavia, prima del 1908, l’instabilità dei Balcani non aveva ancora avuto serie ripercussioni a livello delle grandi potenze. Fin dal 1897 Austria e Russia avevano accettato di non litigare su questa regione. In effetti, il ministro degli Esteri austriaco, barone Alois Lexa von Aehrenthal, aveva consultato il suo omologo russo, Aleksandr Izvol’skij, prima di procedere all’annessione della Bosnia. Senza dubbio, c’era stata puzza di bruciato nel 1908-1909, quando Izvol’skij, scoprendo troppo tardi che la concessione sugli Stretti che si era aspettato in cambio non era nelle possibilità dell’Austria, chiese che l’annessione fosse approvata da una conferenza internazionale. La Germania, che era rimasta a lungo a osservare dalla finestra la questione balcanica, ora iniziò ad appoggiare con decisione Vienna (per la prima volta dai tempi del breve esperimento del «nuovo corso» di Caprivi nei primi anni del regno di Guglielmo II). 6 Moltke assicurò Conrad: «Nel momento stesso in cui la Russia si mobiliterà, anche la Germania si mobiliterà, e mobiliterà senza dubbio il suo intero esercito». 7 Ciononostante, l’effetto immediato dell’intervento tedesco fu di ridurre il rischio di un conflitto anziché aumentarlo: i russi non erano affatto pronti per un’altra guerra dopo la recente umiliazione subita a opera dei giapponesi e fecero marcia indietro quando apparve chiaro che né la Francia né la Gran Bretagna li avrebbero appoggiati. Qualcosa di simile accadde nell’autunno del 1912, a seguito della prima guerra balcanica in cui la Serbia e la Bulgaria, aiutate dal Montenegro e dalla Grecia, cacciarono i turchi dal Kosovo, dalla Macedonia e dal sangiaccato di Novi Pazar (lasciato all’Impero ottomano dal Congresso di Berlino). Sebbene Poincaré avesse dichiarato che «se la Russia entra in guerra, la Francia farà altrettanto», e Kiderlen-Wächter avesse promesso «l’appoggio incondizionato» degli austriaci, la verità era che né San Pietroburgo né Vienna volevano la guerra. Quando il successore di Aehrenthal, conte Leopold Berchtold, dettò le proprie condizioni – un’Albania indipendente (una sorpresa per gli stessi albanesi) e la proibizione per i serbi di stabilire un porto sull’Adriatico – il ministro degli Esteri russo Sergej Sazonov confermò ai serbi che non avrebbero ottenuto alcun appoggio dalla Russia se avessero insistito su quest’ultimo punto. (Bisogna osservare che i russi non erano vincolati da alcun trattato di assistenza alla Serbia in caso di guerra.) 8 Certo, i russi avevano alzato la posta in gioco nella corsa agli armamenti tenendo sotto le armi i coscritti che avrebbero terminato il servizio militare alla fine dell’anno; ma si trattava in sostanza di un’azione riflessa. La loro vera preoccupazione era che i bulgari – sui quali avevano ormai da tempo perso il controllo – potessero gabbarli puntando dritti su Costantinopoli. «Credo», disse Bethmann Hollweg a Berchtold nel febbraio del 1913, «che sarebbe un errore madornale se cercassimo una soluzione di forza in un momento in cui c’è anche solo la minima possibilità di entrare in questo conflitto in condizioni per noi più favorevoli.» 9 Quando la Bulgaria cercò di sottrarre la Macedonia ai serbi (e Salonicco alla Grecia) entrando in guerra nel giugno del 1913 – solo per uscirne duramente sconfitta – il cancelliere tedesco espresse la speranza che «Vienna non permetterà che la pace venga turbata dal cauchemar di una Grande Serbia». 10 Il massimo che Berchtold era disposto a fare era cacciare i serbi dal territorio albanese.
Che cosa accadde di diverso nel 1914? In parte, l’interesse diretto della Germania per la Turchia, evidenziato dall’invio di una missione militare tedesca a Costantinopoli sotto il comando del generale Otto Liman von Sanders: la cosa preoccupò i russi, le cui finanze dipendevano dalle esportazioni di grano attraverso gli Stretti e la cui flotta del mar Nero era molto debole, e ai quali la Turchia appariva estremamente fragile dopo le guerre balcaniche. Anzi, questo fu uno dei motivi principali per stabilire un accordo su una ferrovia franco-russa nel gennaio del 1914 e un programma di armamenti approvato dalla Duma sei mesi più tardi. In parte, le cose erano cambiate dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando, che aveva esercitato una funzione di contenimento sull’ultrabellicoso Conrad. Ma fu soprattutto la decisione della Germania di appoggiare, anzi di incitare, un attacco austriaco contro la Serbia per neutralizzare la minaccia rappresentata dal «Piemonte degli slavi del Sud» o, come disse Francesco Giuseppe, «per eliminare la Serbia come fattore politico nei Balcani». Tanto il Kaiser quanto Bethmann Hollweg avevano dato una chiara assicurazione al conte Ladislaus Szögyéni-Marich, l’ambasciatore degli Asburgo, e al conte Hoyos, inviato speciale di Berchtold: «Anche se si dovesse arrivare a una guerra tra Austria e Russia ... la Germania starebbe dalla vostra parte». 11 Per gli storici l’enigma è sempre stato spiegare come mai il governo di Berlino si sia gettato in questa avventura pur sapendo che avrebbe portato a una guerra europea.
I giocatori
È vero che nel corso del mese di luglio i leader tedeschi avevano ripetutamente espresso la speranza che il conflitto sarebbe stato localizzato: in altre parole, che l’Austria sarebbe riuscita a sconfiggere la Serbia senza un intervento dei russi. 12 Tuttavia, è difficile conciliare queste speranze con le frequenti allusioni alla possibilità di una più vasta conflagrazione. Nel febbraio del 1913, per esempio, Bethmann Hollweg aveva respinto l’idea di una guerra preventiva contro la Serbia, perché «l’intervento russo provocherebbe un conflitto armato della Triplice alleanza contro la Triplice intesa, e la Germania sarebbe costretta a sobbarcarsi quasi tutto il peso dell’attacco francese e britannico». 13 Colpisce che, quando il Kaiser gli parlò di una guerra preventiva, Max Warburg abbia ritenuto che intendesse una guerra contro la Russia, la Francia e la Gran Bretagna, pur essendo impegnato nel tentativo di ottenere un riavvicinamento con la Gran Bretagna sulle questioni coloniali. I tedeschi avevano buone ragioni per temere che una iniziativa austriaca contro la Serbia, se appoggiata dalla Germania, avrebbe portato a una grande guerra europea. Non appena si ebbe notizia dell’ultimatum austriaco, Sazonov disse molto chiaramente che la Russia avrebbe reagito; mentre il 25 e il 29 luglio Grey aveva ribadito la posizione assunta dalla Gran Bretagna nel dicembre del 1912: se «la posizione della Francia fosse stata minacciata, l’Inghilterra non sarebbe rimasta in disparte». 14 Visto che tutto sembrava indicare che non si sarebbe trattato di una guerra localizzata, Berlino aveva ancora ampie opportunità di fare marcia indietro. 15 Ma alle prime iniziative di pace della Gran Bretagna i tedeschi diedero un appoggio del tutto insincero. 16 La Germania strinse i tempi, esortando gli austriaci a fare in fretta, e dopo il 26 luglio rifiutò esplicitamente qualsiasi alternativa diplomatica. 17 Solo all’ultimo momento i tedeschi iniziarono a perdere i nervi: prima il Kaiser, il 28 luglio, 18 poi Bethmann Hollweg, il quale, dopo essere stato informato dell’avvertimento dato da Grey al principe Lichnowsky, l’ambasciatore tedesco, il 29 luglio, tentò disperatamente di convincere gli austriaci a tirare il freno. 19 Berchtold cercò di reagire; ma, in definitiva, furono i militari tedeschi a determinare, con una combinazione di persuasione e di sfida, gli ordini di mobilitazione, gli ultimatum e le dichiarazioni di guerra che scatenarono il conflitto. 20
Naturalmente, si è affermato che la decisione russa di mobilitarsi, in modo parziale o completo, ebbe un ruolo importante nello scatenamento del conflitto. 21 Tuttavia, la tesi russa, ossia che la mobilitazione del suo esercito non era uguale a quella tedesca e non implicava la guerra, fu accolta in privato da Moltke e Bethmann Hollweg. Il 27 luglio era ormai chiaro che la principale preoccupazione dei tedeschi era, come disse Georg von Müller, «prima di mettere la Russia dalla parte del torto e poi di non tirarsi indietro di fronte a una guerra»: in altre parole, di far passare la mobilitazione russa come la prova di un attacco contro la Germania. 22 I servizi d’informazione dell’esercito tedesco ottennero il loro primo successo mostrando le prove della mobilitazione russa. La prima notizia del fatto che la notte del 25 luglio era stata proclamata «la fase di preparazione alla guerra» giunse a Berlino la mattina di lunedì 27, sebbene Bethmann Hollweg, nel dispaccio che aveva inviato a Lichnowsky il pomeriggio precedente, avesse già parlato di «notizie non confermate» a questo proposito provenienti «da una fonte attendibile». 23 I primi rapporti sulla mobilitazione ordinata dallo stesso zar arrivarono a Berlino la sera del 30 luglio, anche se Moltke non si lasciò persuadere fino alla mattina successiva e pretese addirittura che ci si procurasse uno dei rossi manifesti russi di mobilitazione e glielo si leggesse per telefono. 24 Un’ora dopo, la Germania annunciò «l’imminente pericolo di una guerra».
Perché i tedeschi agirono in questo modo? La risposta migliore che può dare uno storico della diplomazia tiene conto della struttura delle alleanze europee, che fin dall’inizio del secolo si erano chiaramente indirizzate contro Berlino. Russia, Francia e Gran Bretagna erano sempre riuscite a trovare un accordo; la Germania, invece, aveva ripetutamente mancato di stabilire delle intese, o aveva scelto di non farlo. I tedeschi nutrivano dubbi persino sui propri alleati: l’Austria in declino, l’Italia inaffidabile. Perciò si può sostenere che i tedeschi considerassero uno scontro sui Balcani un mezzo per conservare la loro fragile alleanza, possibilmente creando anche un’alleanza balcanica in funzione antirussa e magari frantumando persino la Triplice intesa. 25 Questi calcoli non erano affatto irrealistici. Come dimostrarono gli stessi eventi, c’erano buoni motivi per dubitare dell’affidabilità della Triplice alleanza; mentre la Triplice intesa era indubbiamente fragile, soprattutto per quanto riguardava l’Inghilterra. 26 Già prima che si aprisse la crisi di luglio, il colonnello House, l’inviato di Woodrow Wilson in Europa, aveva compreso che «ciò che vuole in realtà la Germania è che l’Inghilterra si separi dalla Triplice intesa». 27 Persino l’appoggio francese alla Russia, benché entusiasticamente proclamato dall’ambasciatore Maurice Paléologue e da Joffre, sembrò vacillare il 30 luglio e il 1º agosto. 28 È dunque possibile che, malgrado fossero ben consapevoli delle conseguenze di una guerra per il Belgio, Bethmann Hollweg e Gottlieb von Jagow avessero colto indizi di un dissenso all’interno della Triplice intesa, tanto da giustificare la speranza della Germania nella neutralità della Gran Bretagna. Sapevano perfettamente quali rischi correvano sulla questione del Belgio: il 28 aprile 1913 lo stesso Jagow si era rifiutato di fornire alla Commissione bilancio del Reichstag una garanzia sulla neutralità belga, perché avrebbe offerto alla Francia «un’indicazione sul luogo in cui attenderci» (uno di quei dinieghi rivelatori che erano il suo forte). 29 Ma Jagow e Bethmann Hollweg decisero di rischiare pur di ottenere il premio di una vittoria diplomatica. 30
Nulla di tutto questo, però, basta a spiegare perché i generali tedeschi fossero così decisi a entrare in guerra e continuare a combattere anche se la Triplice intesa avesse tenuto. È un punto essenziale, in quanto furono proprio loro a insistere per la mobilitazione dopo che il gioco diplomatico era fallito. In questo caso, lo storico militare può offrire una spiegazione basata sui calcoli pessimistici dello stato maggiore generale tedesco sulle forze relative presenti e future degli eserciti europei, da cui dipendevano le loro argomentazioni a favore di una guerra preventiva. Questa tesi era stata più volte respinta in passato. Ma nell’estate del 1914, come abbiamo visto, tornò nuovamente all’ordine del giorno, allorché Moltke si attivò per convincere il Kaiser, le autorità civili e gli austriaci che, a causa dei nuovi programmi d’armamento della Francia e soprattutto della Russia, nel giro di pochi anni la Germania si sarebbe trovata alla loro mercé. «Forse non avremo mai più un’opportunità come questa», dichiarò il vicecapo di stato maggiore conte Georg Waldersee il 3 luglio, in riferimento all’impreparazione dei russi; tesi ripresa dall’imperatore Guglielmo appena tre giorni più tardi: «Al momento attuale la Russia è totalmente impreparata per la guerra, sia sul piano militare sia su quello finanziario». 31 Il 6-7 luglio Kurt Riezler annotò che i servizi d’informazione militari avevano presentato un «quadro disastroso»: «Non appena i russi avranno completato la costruzione delle proprie ferrovie strategiche in Polonia, la nostra posizione si farà insostenibile ... L’Intesa sa che siamo completamente paralizzati». 32 Il 12 luglio Szögyéni-Marich espose la tesi tedesca a Berchtold: «Se l’impero zarista dovesse decidere per la guerra, non sarebbe così pronto da un punto di vista militare e men che mai forte come sarà tra pochi anni». 33 Jagow trasmise scrupolosamente questa tesi a Lichnowsky a Londra il 18 luglio: «Al momento la Russia non è ancora pronta ad attaccare ... [ma], secondo ogni valutazione competente, lo sarà tra pochi anni. A quel punto avrà una schiacciante superiorità su di noi per numero di soldati, avrà allestito una flotta nel mar Baltico e completato le sue ferrovie strategiche». 34 Il 25 luglio Jagow disse al giornalista Theodor Wolff che sebbene «né la Russia né la Francia desiderino la guerra ... i russi non sono pronti sul piano degli armamenti e non avrebbero attaccato; tra un paio d’anni, se ci lasciamo sfuggire di mano le cose, il pericolo sarà molto maggiore di adesso». 35 «Presto scoppierà comunque la guerra», ribadì Jagow a Wolff, e la situazione era in quel momento «assai favorevole». 36 Perciò, quando Moltke tornò a Berlino il giorno seguente, il terreno per la sua tesi era già ben preparato: «Non riusciremo mai ad attaccare con altrettanto successo di quanto potremmo ottenerne adesso che il rafforzamento degli eserciti francese e russo non è ancora completato». 37 Alla fine Bethmann Hollweg si lasciò persuadere: «Se deve scoppiare la guerra, meglio ora che fra uno o due anni, quando l’Intesa sarà più forte». 38 Nei giorni successivi, ogni volta che il cancelliere mostrava qualche segno di perplessità, Moltke ne rinnovava la determinazione con questo ammonimento: «La situazione militare diventa di giorno in giorno più sfavorevole a noi e, se i nostri futuri avversari continuano a prepararsi senza essere disturbati, potrebbe portare a conseguenze fatali per la Germania». 39 Così, quello che era iniziato come argomento a favore della guerra quell’anno anziché entro due anni divenne un argomento a favore della mobilitazione oggi anziché domani.
Che i tedeschi la pensassero in questo modo non era certo un segreto. Lo stesso Grey, nel luglio del 1914, parlò, per ben due volte, della logicità, da un punto di vista tedesco, di un attacco preventivo contro la Francia e la Russia, prima che l’equilibrio militare si deteriorasse ulteriormente:
La verità è che, mentre un tempo il governo tedesco aveva intenzioni aggressive ... adesso è veramente allarmato per i preparativi militari della Russia, per il futuro aumento delle sue forze militari e, in particolare, per la prevista costruzione, su proposta dei francesi e con il denaro francese, di linee ferroviarie strategiche convergenti sulla frontiera tedesca ... La Germania non aveva paura, perché credeva che il suo esercito fosse invulnerabile; ma temeva che nel giro di pochi anni avrebbe potuto aver paura ... La Germania aveva paura del futuro.
Il solo errore di Grey fu pensare che questo avrebbe contribuito a mantenere il governo tedesco in una «disposizione pacifica». 40 Il 30 luglio il diplomatico tedesco Gerhard von Kanitz disse all’ambasciatore americano che «la Germania avrebbe dovuto entrare in guerra quando era preparata, e non aspettare che la Russia portasse a termine il suo piano per costituire un esercito di pace di 2.400.000 uomini». Il 1º agosto il colonnello House riferì al presidente Wilson che la Germania «sapeva che la sua unica possibilità era attaccare rapidamente e con determinazione» e che avrebbe potuto «affrettare l’azione per garantire la propria sicurezza». 41
Il 30 luglio il verdetto del Kaiser fu, naturalmente, del tutto avulso dalla realtà: «Inghilterra, Russia e Francia si sono accordate fra loro per prendere il conflitto austro-serbo come pretesto per scatenare una guerra di sterminio contro di noi ... Il famoso accerchiamento della Germania è diventato infine un fatto compiuto ... Ci dibattiamo isolati nella rete». 42 Ma non era il solo a ritenere vulnerabile la posizione della Germania. La celebre osservazione sullo «sciovinismo impazzito» fatta dal colonnello House nella sua lettera del 29 maggio al presidente Wilson deve essere collocata in questo contesto:
La situazione è straordinaria. Si tratta di uno sciovinismo completamente impazzito. Se qualcuno che agisca in vostro nome non riuscirà a realizzare un diverso atteggiamento di accordo, prima o poi ci sarà un terribile cataclisma. Nessuno può farlo in Europa. Ci sono troppo odio e troppe gelosie. Ogni volta che l’Inghilterra lo consentirà, la Francia e la Russia si schiereranno contro la Germania e l’Austria.
In seguito House non diede credito alla pretesa britannica di «combattere per il Belgio». La Gran Bretagna si era schierata con la Francia e la Russia «innanzitutto perché la Germania era determinata ad avere un esercito e una marina predominanti, cosa che la Gran Bretagna non poteva tollerare ai fini della propria stessa sicurezza». E non era un germanofilo: dopo avere visitato Berlino disse di «non avere mai visto nessun luogo in cui lo spirito bellico era alimentato e glorificato così appassionatamente come qui ... Il loro unico pensiero è lo sviluppo dell’industria e la glorificazione della guerra». House fu anche tra i primi a sostenere che la Germania era entrata in guerra in parte perché «il gruppo di militaristi e finanzieri» che la governavano potessero «salvaguardare i loro avidi interessi». Ma la sua analisi lasciava spazio alla possibilità che la sicurezza della Germania fosse stata realmente minacciata. 43
Non è quindi necessario supporre, come fa Fritz Fischer, che esistessero già da tempo piani di guerra tedeschi per creare sfere d’influenza in Europa centrale e in Africa, per distruggere la potenza francese e intaccare l’impero occidentale della Russia. 44 Il materiale documentario fa piuttosto pensare a un «attacco preventivo» al fine di prevenire un deterioramento della posizione militare tedesca, benché questa ipotesi non sia affatto incompatibile con l’idea che l’esito di un tale attacco, se vittorioso, sarebbe stato l’egemonia della Germania in Europa. L’unica vera domanda è se questa strategia possa essere definita con il nome apologetico di «guerra preventiva». 45 È segno di condiscendenza nei confronti dei leader tedeschi dipingerli in modo caricaturale come irrazionali duellanti che vanno in guerra spinti da «un accesso d’ira» e in nome di un antiquato senso dell’onore. Ai tedeschi non importava «perdere la faccia»; gli importava invece non perdere la corsa agli armamenti. 46
Detto questo, non si deve esagerare la subdola premeditazione tedesca. Se erano davvero impegnati a pianificare la guerra, gli alti ufficiali dello stato maggiore generale apparivano sorprendentemente rilassati nel luglio del 1914. Quando il Kaiser rilasciò il suo celebre «assegno in bianco» a favore degli austriaci, Moltke, Waldersee, Groener (capo della Sezione ferrovie) e il maggiore Nicolai (capo della «Sektion IIIb», una delle più importanti dei servizi d’informazione) erano tutti in vacanza (e per di più in luoghi diversi). Anche Tirpitz e l’ammiraglio von Pohl erano partiti per le vacanze. Soltanto il 16 luglio il sostituto di Nicolai, capitano Kurt Neuhof, fu esortato a rafforzare la sorveglianza sulle attività militari russe. Anche questo, però, non sembrò sufficiente a Waldersee quando, il 23 luglio, rientrò dal Meclemburgo, mentre Nicolai tornò alla sua scrivania solo due giorni più tardi. E persino allora gli ordini che impartì ai cosiddetti «commessi viaggiatori della tensione» (Spannungsreisende), ossia le spie tedesche in Russia e in Francia, furono semplicemente di scoprire «se in Francia e in Russia si stessero facendo preparativi di guerra». 47
Telefoni staccati
A conti fatti, il grande interrogativo del 1914 – quello che avrebbe deciso la guerra – riguardava ciò che avrebbe fatto la Gran Bretagna. All’epoca, però, sembrava poco importante a molti dei principali leader del continente. Anche se Bethmann Hollweg talvolta sognava di poter contare sulla neutralità britannica, i generali tedeschi non se ne curavano: dubitavano che il piccolo esercito della Gran Bretagna potesse influire sull’esito di una guerra. Non se ne preoccupavano granché nemmeno i generali francesi. Joffre era abbastanza superbo da credere di poter vincere la guerra in Occidente senza bisogno di aiuto.
Quando, all’indomani dell’attentato di Sarajevo, a Londra apparve chiaro che il governo austriaco intendeva richiedere «qualche compenso in direzione di un’umiliazione per la Serbia», la prima reazione di Grey fu di preoccuparsi per come avrebbe reagito la Russia. Vedendovi la possibilità di un conflitto tra Austria e Russia, cercò di esercitare pressioni indirette attraverso Berlino per placare la brama di rappresaglia degli austriaci, sperando di ripetere il successo riportato l’anno precedente con la sua diplomazia balcanica. Fin dall’8 luglio l’ambasciatore russo a Vienna aveva detto chiaramente che, se l’Austria «si fosse gettata in una guerra», «la Russia sarebbe stata obbligata a prendere le armi in difesa della Serbia». L’idea di Grey, il quale era convinto che si potesse tracciare una distinzione fra cessioni territoriali da parte della Serbia e alcune forme meno aspre di rappresaglia, non fu mai realmente condivisa a San Pietroburgo. (Fatto rivelatore, Grey avvertì Lichnowsky che, «data l’attuale impopolarità dell’Inghilterra in Russia», lui stesso avrebbe dovuto «stare attento alla suscettibilità dei russi».) 48 Inizialmente Grey invitò l’Austria e la Russia a «discutere insieme la questione», nella speranza che si potessero trovare nei confronti dei serbi provvedimenti accettabili per entrambe le parti; ma Poincaré, che si trovava casualmente in visita a San Pietroburgo, rifiutò la proposta. Dubitando della propria capacità di esercitare un’influenza moderatrice sulla Russia, e sospettando che il governo tedesco potesse effettivamente «sobillare» gli austriaci (sospetto confermato dai termini del loro ultimatum alla Serbia), Grey decise di cambiare rotta avvertendo Lichnowsky che la Russia si sarebbe schierata con la Serbia e proponendo di ricorrere a una mediazione tra Austria e Serbia da parte della altre quattro potenze. 49
Fin dall’inizio Grey si mostrò particolarmente riluttante a fornire indicazioni su come avrebbe potuto rispondere la Gran Bretagna a un’escalation del conflitto. Sapeva che se l’Austria avesse fatto richieste eccessive a Belgrado con l’appoggio tedesco, e se la Russia si fosse mobilitata in difesa della Serbia, la Francia avrebbe potuto facilmente essere trascinata nel conflitto: era questa la natura dell’intesa franco-russa e della strategia militare tedesca, almeno come la interpretavano a Londra. La strategia di Grey, che voleva trasformare le intese con la Francia e la Russia in alleanze quasi ufficiali, era stata proprio quella di dissuadere la Germania dal rischio di scatenare una guerra. Temeva tuttavia che un segnale troppo forte di sostegno alla Francia e alla Russia – come, piuttosto prevedibilmente, auspicavano Crowe e Nicolson – avrebbe potuto incoraggiare i russi a fare proprio questo. Si dibatteva in un difficile dilemma: come dissuadere l’Austria e la Germania senza incoraggiare la Francia e la Russia? Si spiega così la comunicazione, caratteristicamente criptica, che fece a Lichnowsky il 24 luglio a proposito del fatto che
non esisteva un’alleanza che ci impegnasse nei confronti di Francia e Russia ... D’altra parte il governo britannico, pur appartenendo a un gruppo di potenze, non aveva alcuna intenzione di creare difficoltà tra i due gruppi europei; al contrario, desiderava impedire che sorgesse qualsiasi tipo di ostilità tra questi gruppi ... Non avrebbe mai perseguito una politica aggressiva e, se fosse scoppiata una guerra europea, non si sarebbe schierato dalla parte degli aggressori, perché l’opinione pubblica non lo avrebbe accettato.
Lichnowsky interpretò queste parole, come senza dubbio intendeva Grey, nel senso di un avvertimento riguardo al fatto che «se la Francia fosse rimasta coinvolta, l’Inghilterra non avrebbe osato disinteressarsene», un punto che ribadì con ansia crescente man mano che la crisi si intensificava. Ma Bethmann Hollweg e Jagow conclusero evidentemente che una dimostrazione di appoggio da parte della Germania a una mediazione delle quattro potenze sarebbe stata sufficiente per soddisfare Grey. 50 Il re mantenne un atteggiamento altrettanto ambiguo con il principe ereditario tedesco durante il loro incontro del 26 luglio:
Non so che cosa faremo: non abbiamo dispute con nessuno e spero che rimarremo neutrali. Tuttavia, se la Germania dichiarasse guerra alla Russia e alla Francia, e la Francia si unisse alla Russia, temo che vi saremo trascinati anche noi. Ma potete star certi che io e il mio governo faremo di tutto per impedire che scoppi una guerra europea.
Il principe ereditario ne trasse la conclusione che l’Inghilterra sarebbe rimasta neutrale «all’inizio», per quanto dubitasse «che sarebbe riuscita a restarlo a lungo ... considerati i suoi rapporti con la Francia». 51 Comunque, una neutralità a breve termine poteva essere più che sufficiente per il governo tedesco, se l’esercito fosse riuscito a conquistare una posizione militare abbastanza salda sul continente. In poche parole, la politica britannica era talmente ingarbugliata che era possibile interpretarla a seconda dei propri gusti. Lo stesso giorno – domenica 26 luglio – i francesi erano convinti di poter contare sulla Gran Bretagna, mentre i tedeschi erano «sicuri» della neutralità inglese. Come disse Jagow a Cambon: «Lei ha le sue informazioni. Noi abbiamo le nostre»; peccato che la fonte fosse la stessa in entrambi i casi. Il governo tedesco proseguì imperterrito per la propria strada, fingendo di interessarsi alla proposta di mediazione di Grey, alla quale non aveva invece alcuna intenzione di aderire. 52
Per onestà nei confronti di Grey, bisogna dire che la sua tattica di studiata ambiguità per poco non ebbe successo. Il governo serbo si sentiva talmente vulnerabile che – malgrado la costernazione di Grey per le «durissime» condizioni di Vienna – accettò subito l’ultimatum austriaco, cercando solo di apportarvi qualche minuscola modifica. 53 Inoltre, con grande sgomento di Bethmann Hollweg e di Moltke, che avevano esortato gli austriaci a non prendere sul serio le proposte di mediazione di Grey, il Kaiser salutò la risposta serba come un autentico trionfo diplomatico. Convinto che ormai «ogni motivo di guerra era scomparso», invitò semplicemente Vienna a fare una «sosta a Belgrado», ossia a occupare temporaneamente la capitale serba, più o meno come aveva fatto la Prussia quando aveva occupato la Francia settentrionale nel 1870, «al fine di avere un garanzia per l’imposizione e l’attuazione delle promesse». Ciò aumentò ulteriormente la confusione già creata da Jagow quando aveva dichiarato che la Germania non si sarebbe mossa se la Russia si fosse mobilitata solo nel Sud (ossia contro l’Austria ma non contro la Germania). 54 Nello stesso tempo, Sazonov cambiò inaspettatamente opinione sulla possibilità di colloqui bilaterali tra Austria e Russia, un’ipotesi alla quale Grey tornò immediatamente quando apparve chiaro che il governo tedesco non apprezzava affatto la sua proposta di una conferenza delle quattro potenze. Come commentò stizzito Nicolson: «Con il signor Sazonov, non si sa mai dove ci si trova esattamente». 55 (Né si sapeva dove ci si trovasse con la Germania. Jagow ora sosteneva che una conferenza delle quattro potenze sarebbe «equivalente a un collegio arbitrale», ponendo sullo stesso piano l’Austria e la Serbia, mentre nel contempo Bethmann evitava deliberatamente di comunicare a Lichnowsky la proposta di colloqui bilaterali avanzata da Sazonov, perché l’ambasciatore «informava Sir Edward [Grey] su ogni cosa».) 56 Per un momento sembrò che si potesse evitare una guerra continentale. Senza dubbio, il ministro degli Esteri russo non aveva alcuna intenzione di accettare l’occupazione austriaca di Belgrado, che ai suoi occhi avrebbe rappresentato una grave riduzione dell’influenza russa nei Balcani. 57 Ma si dichiarò disposto a interrompere la mobilitazione «se l’Austria fosse stata pronta a eliminare dal suo ultimatum i punti che ledono i diritti di sovranità della Serbia». Bethmann Hollweg, sempre più disperato, colse immediatamente questa occasione come base per un negoziato, e il 30 luglio il governo austriaco accettò la proposta di colloqui fatta da Sazonov. 58
Purtroppo, però, la logica militare aveva ormai iniziato a prendere il posto dei calcoli diplomatici. Già prima che cominciasse il bombardamento austriaco di Belgrado, Sazonov e i suoi colleghi emanarono ordini di mobilitazione parziale, che poi cercarono freneticamente di trasformare in mobilitazione generale non appena furono avvertiti che la Germania intendeva mobilitarsi anche in caso di una parziale mobilitazione russa. I russi, infatti, avevano iniziato a disporsi nei distretti meridionali di Odessa, Kiev, Mosca e Kazan il 29 luglio (una decisione che successivamente lo zar disse di aver preso quattro giorni prima), assicurando l’ambasciatore tedesco che questo non «voleva in alcun modo dire guerra». Ma quando Guy de Pourtalès dichiarò che la Germania si sarebbe comunque sentita «costretta a mobilitare, nel qual caso sarebbe immediatamente passata all’offensiva», i russi conclusero che una mobilitazione parziale sarebbe stata inadeguata e che anzi avrebbe potuto mettere a rischio la mobilitazione generale. Seguì una frenetica serie di riunioni e conversazioni telefoniche, nelle quali Sazonov e i suoi colleghi cercarono di persuadere uno zar tentennante a decretare la mobilitazione generale. La decretò finalmente alle due del pomeriggio del 30 luglio, e la mobilitazione fu avviata il giorno seguente. (Come a Berlino, la tanto vantata potenza del monarca si rivelò illusoria al momento della decisione.) 59 Era proprio il pretesto che i tedeschi cercavano per lanciare la propria mobilitazione non solo contro la Russia ma anche contro la Francia. 60 L’ipotesi di colloqui austro-russi fu presto dimenticata in una bizzarra «corsa a ritroso» in cui, per non perdere il sostegno dell’opinione pubblica interna, la Germania cercò di spingere la Russia a mobilitarsi per prima. Ormai la guerra continentale era inevitabile. Anche quando Bethmann Hollweg, avendo infine compreso che la Gran Bretagna avrebbe potuto intervenire immediatamente in risposta a un attacco contro la Francia, cercò di costringerli a sedersi al tavolo dei negoziati, gli austriaci rifiutarono di sospendere le loro operazioni militari. 61 Gli appelli del re a San Pietroburgo perché si fermasse la mobilitazione caddero nel vuoto, visto che il capo di stato maggiore russo, generale Nikolaj Januškevič, aveva deciso (come disse lui stesso a Sazonov) di «staccare tutti i telefoni e adottare misure che impediscano a chiunque [in particolare lo zar] di trovarmi allo scopo di impartirmi contrordini che bloccherebbero di nuovo la mobilitazione». 62 E i tedeschi ribadirono che, se la Russia avesse continuato a mobilitarsi, non avrebbero avuto altra scelta che fare anch’essi lo stesso. E questo significava l’invasione del Belgio e della Francia. 63 In breve, nel momento preciso in cui la Russia decretò la mobilitazione generale, ebbe inizio la «guerra in base all’orario», cioè la guerra annunciata tra le quattro potenze continentali (oltre, naturalmente, al Belgio e alla Serbia). Ciò che ancora si poteva evitare era il coinvolgimento della Gran Bretagna (e quindi anche della Turchia e dell’Italia).
Le ragioni dell’entrata in guerra della Gran Bretagna
Non sorprende che proprio a questo punto i governi di Parigi e di Bruxelles iniziassero a richiedere pressantemente a Grey di chiarire la posizione della Gran Bretagna. 64 I francesi sostennero che, se Grey «avesse annunciato che nel caso di un conflitto tra Germania e Francia ... l’Inghilterra sarebbe accorsa in aiuto della Francia, la guerra non sarebbe scoppiata». 65 Ma il ministro, che per alcuni giorni aveva cercato di persuadere Lichnowsky proprio in tal senso, sapeva che da solo non poteva prendere impegni nei confronti della Francia. Senza dubbio, poteva già contare sul sostegno dei falchi del Foreign Office, secondo i quali l’Intesa aveva «forgiato» un «vincolo morale» (Crowe) e pertanto si doveva «dare immediatamente l’ordine di mobilitazione dell’esercito» (Nicolson). 66 Ma, come si era ripetutamente dimostrato fin dal 1911, Grey non poteva prendere iniziative senza l’appoggio dei suoi colleghi di gabinetto e del suo partito, per non parlare di quella nebulosa e spesso invocata entità chiamata «opinione pubblica». E non era affatto certo che potesse contare su uno o più di essi per sostenere un impegno militare nazionale nei confronti della Francia. Quindi si decise semplicemente di non decidere niente, «perché [come disse Herbert Samuel] se entrambe le parti non sanno quel che faremo, saranno entrambe meno disposte a correre rischi». 67 Il massimo che Grey poteva fare era, ancora una volta, dire a Lichnowsky in forma privata – «per evitare che in seguito lo si accusasse di malafede» – che «se [la Germania] e la Francia si fossero lasciate coinvolgere ... il governo britannico sarebbe stato costretto a prendere rapidamente una decisione. In quel caso, non sarebbe stato conveniente starsene in disparte ad aspettare per troppo tempo». 68 La profonda impressione che questo avvertimento suscitò in Bethmann Hollweg, diversamente dalle precedenti dichiarazioni di Grey, la si può spiegare con il fatto che il ministro aveva detto, per la prima volta, che qualsiasi azione britannica in difesa della Francia sarebbe stata attuata con la massima rapidità. 69 Un’impressione altrettanto profonda fece a Londra la richiesta di neutralità britannica da parte di Bethmann Hollweg, presentata poco prima di venire a sapere dell’avvertimento di Grey a Lichnowsky, soprattutto perché rendeva del tutto evidente l’intenzione tedesca di attaccare la Francia. 70 Ma anche se fu drasticamente respinta, questa richiesta non determinò un impegno a intervenire, e i limitati preparativi navali di Churchill il 28 e il 29 luglio non avevano certamente lo stesso significato degli ordini di mobilitazione degli eserciti continentali. 71 Al contrario, avendo emanato il suo avvertimento personale, Grey assunse una linea ufficiale decisamente più morbida con la Germania, in un ultimo tentativo di riportare in vita l’idea di una mediazione delle quattro potenze. 72 Anzi, la mattina del 31 luglio il ministro arrivò al punto di dire a Lichnowsky:
Se la Germania riuscisse a presentare una proposta ragionevole in grado di dimostrare chiaramente che la stessa Germania e l’Austria stanno ancora cercando di salvare la pace in Europa – proposta che sarebbe irragionevole respingere da parte della Francia e della Russia – io l’appoggerei ... e potrei persino dire che, se la Francia e la Russia non l’accettassero, il governo di Sua Maestà non avrebbe più niente a che fare con le conseguenze.
La «proposta ragionevole» che Grey aveva in mente era che «la Germania avrebbe accettato di non attaccare la Francia se questa fosse rimasta neutrale [o avesse mantenuto le sue truppe nel proprio territorio] nel caso di una guerra tra Russia e Germania». 73 Persino il pessimista Lichnowsky, sentite queste parole, iniziò a pensare che «nell’eventualità di una guerra, l’Inghilterra potrebbe assumere un atteggiamento d’attesa». 74 A Parigi, comprensibilmente, le reazioni furono piuttosto cupe. La sera del 1º agosto Grey disse apertamente a Cambon:
Se la Francia non riusciva a trarre vantaggio da questa posizione [vale a dire, da questa proposta], lo si doveva al fatto che era legata da un’alleanza della quale noi non facevamo parte e della quale non conoscevamo i termini ... Ora la Francia doveva prendere le proprie decisioni senza contare su un aiuto che attualmente non eravamo in grado di promettere ... Non potevamo proporre al parlamento di inviare una forza di spedizione sul continente, a meno che i nostri interessi e i nostri obblighi non fossero profondamente e drammaticamente coinvolti. 75
Un avvertimento in forma privata a Lichnowsky non era, come lo stesso Grey spiegò a Cambon, «la stessa cosa di ... un impegno nei confronti della Francia». 76 Il ministro degli Esteri britannico non era nemmeno disposto a fornire all’ambasciatore del Belgio la garanzia che «se la Germania vìola la neutralità del Belgio, noi aiuteremo sicuramente il Belgio», sebbene in seguito il governo avrebbe dato grande peso al proprio obbligo giuridico a farlo. 77
L’atteggiamento di Grey, in quei giorni cruciali, era vincolato da considerazioni di politica interna. Come abbiamo visto, c’era un folto gruppo di politici e giornalisti liberali che si opponeva tenacemente a un impegno in tal senso. 78 Il 30 luglio, ventidue membri liberali della Commissione per gli affari esteri fecero sapere, tramite Arthur Ponsonby, che «qualsiasi decisione a favore di una partecipazione a una guerra europea avrebbe non soltanto suscitato la massima disapprovazione, ma addirittura causato il vero e proprio ritiro dell’appoggio finora dato al governo». 79 Asquith riteneva che circa tre quarti del suo partito fossero a favore di un’«assoluta non interferenza a qualunque costo». 80 L’orientamento del gabinetto rispecchiava grossomodo questa situazione, con i sostenitori di un impegno continentale ancora in netta minoranza. Le diciannove persone che si incontrarono il 31 luglio erano divise in tre gruppi di diversa consistenza: coloro che, in accordo con la base del partito, erano a favore di un’immediata dichiarazione di neutralità (tra questi figuravano Morley, Simon, Burns, Beauchamp e Hobhouse); coloro che erano a favore dell’intervento (soltanto Grey e Churchill); e coloro che non avevano ancora preso una decisione (in particolare McKenna, Haldane, Samuel, Harcourt, il quacchero Joseph Pease e il marchese di Crewe, ma probabilmente anche Lloyd George nonché, naturalmente, lo stesso Asquith). 81 Morley era decisamente contrario a un intervento a fianco della Russia, e sembrava chiaro che la maggioranza fosse incline a condividere la sua opinione. Tuttavia, la minaccia di Grey di dimettersi se fosse stata adottata «una politica di non intervento esplicita e senza compromessi» fu sufficiente a mantenere una situazione di stallo. 82 Il gabinetto convenne sul fatto che «l’opinione pubblica britannica non ci permetterebbe attualmente di appoggiare la Francia ... Non potremmo dire nulla che ci impegnasse». 83
E lo stallo non fu realmente superato neppure quando, la sera del 1º agosto, mentre Grey stava giocando a biliardo da Brook’s, Churchill riuscì a convincere Asquith a permettergli di far mobilitare la marina in seguito alla notizia della dichiarazione di guerra della Germania alla Russia. 84 Ciò non fece altro che spingere Morley e Simon a minacciare le proprie dimissioni nella riunione della mattina seguente, mentre la maggioranza si ricompattò contro i ripetuti appelli di Grey per una chiara dichiarazione d’impegno. Il massimo che si riuscì a ottenere nella prima seduta di quella cruciale domenica fu che, «se la flotta tedesca passa attraverso la Manica o il mare del Nord per intraprendere azioni ostili contro le coste francesi o le sue navi, la flotta britannica garantirà tutta la protezione possibile». 85 Ma anche questo – tutt’altro che una dichiarazione di guerra, visto che una simile azione navale tedesca era alquanto improbabile – era già troppo per John Burns, direttore del ministero del Commercio, che rassegnò le dimissioni. Come osservò Samuel: «Se la questione fosse stata fatta oggetto di discussione, Asquith si sarebbe schierato dalla parte di Grey e altri tre avrebbero fatto la stessa cosa. Credo che il resto di noi avrebbe dato le dimissioni». 86 Quello stesso giorno, a pranzo da Beauchamp, sette ministri, tra i quali Lloyd George, manifestarono le proprie riserve persino sui limitati provvedimenti navali che erano stati presi. A posteriori, Morley era convinto che se Lloyd George avesse dato l’esempio agli esitanti, «il governo sarebbe certamente caduto quella stessa sera». Ma l’appello a «parlare in nostro nome» rivolto da Harcourt a Lloyd George non venne ascoltato. 87 Se si fossero resi conto che Grey aveva già autonomamente lasciato «cadere» la sua proposta a Lichnowsky per una neutralità francese in una guerra russo-tedesca, e che lo stesso Lichnowsky quella mattina era stato ridotto alle lacrime durante la colazione con Asquith, forse avrebbero agito sulla base di quelle riserve. 88 Di fatto, Morley, Simon e Beauchamp ora si unirono a Burns nell’offrire le proprie dimissioni, a seguito dell’impegno nei confronti del Belgio che Grey era riuscito ad assicurarsi quella sera minacciando a propria volta di dimettersi. Anche Charles Trevelyan, a capo di un ministero di secondaria importanza, consegnò la propria lettera di dimissioni. 89
Perché, allora, il governo non cadde? La risposta immediata è, come annotò Asquith nel suo diario, che Lloyd George, Samuel e Pease pregarono i dimissionari «di non andarsene o almeno di ritardare le dimissioni», e questi «accettarono di non dire nulla oggi e di sedere ai loro soliti posti alla Camera». 90 Ma perché alla fine se ne andarono solo Morley, Burns e Trevelyan? 91 La risposta tradizionale si può condensare in una sola parola: il Belgio.
Senza dubbio, già da tempo il Foreign Office aveva compreso che «si sarebbe giunti più facilmente» alla decisione di intervenire a favore della Francia «se l’aggressività tedesca avesse comportato una violazione della neutralità del Belgio». 92 E in seguito Lloyd George e molti altri hanno indicato nella violazione della neutralità belga la ragione principale che li fece passare – e insieme a essi anche l’«opinione pubblica» – a favore della guerra. 93 A prima vista, sembra un punto inconfutabile. Il 6 agosto 1914 «il solenne obbligo internazionale» della Gran Bretagna a garantire la neutralità belga in nome del diritto e dell’onore, e «a rivendicare il principio ... che le piccole nazioni non devono essere schiacciate», fornì i due argomenti principali del discorso intitolato «Per che cosa combattiamo?» pronunciato da Asquith alla Camera dei Comuni. 94 Fu anche il tema portante della riuscita campagna di reclutamento guidata da Lloyd George in Galles. 95
Ciononostante, ci sono motivi per essere scettici. Come abbiamo visto, nel 1905 il Foreign Office riteneva che il trattato del 1839 non impegnasse la Gran Bretagna a sostenere la neutralità del Belgio «in qualsiasi circostanza e a qualsiasi rischio». Quando si era ripresentato il problema nel 1912, solo Lloyd George aveva espresso la preoccupazione che, in caso di guerra, la protezione della neutralità belga avrebbe nuociuto alla strategia britannica del blocco navale. Significativamente, quando se ne discusse nel gabinetto, il 29 luglio, si decise di basare sulle «congiunture politiche» e non sugli «obblighi legali» le risposte che si sarebbero date a un’invasione tedesca del Belgio. 96 La linea del governo era quindi quella di avvertire indirettamente i tedeschi stabilendo che una violazione della neutralità del Belgio avrebbe provocato una «sterzata» dell’opinione pubblica britannica. Pertanto Grey fu in grado di rispondere alla prevaricazione tedesca sull’argomento con un avvertimento unanime del gabinetto: «Se ci fosse stata una violazione della neutralità belga ... sarebbe stato estremamente difficile tenere sotto controllo i sentimenti dell’opinione pubblica». 97 Questo, però, non impegnava il governo. E non deve sorprendere, dato che un certo numero di ministri era in realtà piuttosto propenso a rimangiarsi la parola sulla garanzia data al Belgio.
Lloyd George fu tra coloro che, come ha ricordato William Beaverbrook, cercarono di sostenere che i tedeschi sarebbero «passati soltanto attraverso l’estremo angolo meridionale» e questo avrebbe significato soltanto «una piccola infrazione alla neutralità. “Vedete”, disse [indicando un punto su una mappa], “è solo un pezzettino, e i tedeschi ripagheranno tutti i danni che faranno”». 98 Molti si attendevano (erroneamente) che, in ogni caso, i belgi non avrebbero richiesto l’aiuto della Gran Bretagna, ma avrebbero semplicemente presentato una protesta ufficiale se i tedeschi fossero passati attraverso le Ardenne. La richiesta di neutralità fatta dai tedeschi alla Gran Bretagna il 19 luglio aveva dimostrato al di là di ogni possibile dubbio che avrebbero fatto un’incursione attraverso il Belgio; ma persino la mattina del 2 agosto, dopo che Jagow aveva rifiutato di garantire la neutralità del Belgio, Lloyd George, Harcourt, Beauchamp, Simon, Runciman e Pease avevano convenuto di contemplare l’entrata in guerra solo nel caso di una «invasione totale del Belgio». Charles Trevelyan la pensava nello stesso modo. 99 Si spiega così l’attenta formulazione della risoluzione presa dal gabinetto quella sera, comunicata da Crewe al re, nella quale si stabiliva che «una sostanziale violazione della neutralità [belga] ci porrebbe nella situazione che il signor Gladstone aveva ritenuto possibile nel 1870, quando l’interferenza era stata considerata abbastanza grave da costringerci a passare all’azione». 100
Perciò, quando, la mattina del 3 agosto, gli giunse la notizia dell’ultimatum della Germania al Belgio, Asquith si sentì sollevato. La richiesta di Moltke di un libero passaggio attraverso l’intero Belgio, il successivo appello di re Alberto, in cui si dichiarava che il Belgio intendeva opporsi a qualsiasi infrazione della sua neutralità, e infine l’invasione tedesca il giorno seguente «semplificarono [notevolmente] le cose», per citare le parole di Asquith, in quanto consentirono a Simon e a Beauchamp di ritirare le dimissioni. 101 I tentativi dell’ultimo minuto compiuti da Moltke e Lichnowsky per garantire l’integrità postbellica del Belgio risultarono quindi altrettanto inutili delle ciniche menzogne tedesche su un’avanzata francese in Belgio. 102 Quando si lamentò con Goschen che «l’Inghilterra si sarebbe scagliata contro di loro in nome della neutralità del Belgio» per uno chiffon de papier, Bethmann Hollweg dimostrò di non avere colto il punto essenziale. Per il solo fatto di richiedere un’avanzata tedesca attraverso l’intero Belgio, il Piano Schlieffen aveva contribuito a salvare il governo liberale. 103
Tuttavia, a persuadere il gabinetto a favore dell’intervento non fu tanto la minaccia tedesca al Belgio quanto la minaccia di Berlino alla Gran Bretagna, quella minaccia che Grey e i falchi del Foreign Office avevano sempre sostenuto che si sarebbe materializzata non appena la Francia fosse caduta. Lo si può dedurre dal biglietto che Asquith scrisse alla sua amante Venetia Stanley il 2 agosto, nel quale elencava i sei principi che lo guidavano: solo il sesto si riferiva agli «obblighi nei confronti del Belgio per impedire che fosse usato e assorbito dalla Germania». Il quarto e il quinto erano più importanti, in quanto stabilivano che, nonostante la Gran Bretagna non avesse alcun obbligo nei confronti della Francia, «è contro gli interessi britannici che la Francia sia spazzata via come grande potenza», e altresì che «non possiamo permettere che la Germania usi la Manica come base per le ostilità». 104 Allo stesso modo, la tesi principale del famoso discorso pronunciato da Grey alla Camera dei Comuni il 3 agosto – prima che giungesse la notizia dell’ultimatum della Germania al Belgio – era che «se la Francia viene sconfitta in una lotta all’ultimo sangue ... non credo che saremo in grado di usare la nostra forza in modo decisivo per ... impedire che l’intera Europa occidentale, che ci sta di fronte, cada sotto la dominazione di un’unica potenza». 105 I rischi strategici di un non intervento – isolamento, mancanza di alleati – erano maggiori di quelli di un intervento. Come disse Grey il giorno successivo nel corso di una conversazione privata: «Non finirà con il Belgio. Subito dopo toccherà all’Olanda, e poi alla Danimarca. La posizione dell’Inghilterra si frantumerebbe se si permettesse alla Germania di dominare l’Europa». La politica tedesca, riferì al gabinetto, era «quella del grande aggressore europeo, malvagio quanto Napoleone». 106 Sembra chiaro che questa tesi riuscì a convincere anche gli indecisi come Harcourt. Come spiegò il 5 agosto:
Ho agito non in base a obblighi imposti da un trattato o dal senso dell’onore, perché non ne sussistevano affatto ... C’erano tre interessi britannici fondamentali che non potevo trascurare:
1. che la flotta tedesca non occupasse, sfruttando la nostra neutralità, il mare del Nord e la Manica;
2. che i tedeschi non si impadronissero e non occupassero la zona nordoccidentale della Francia, di fronte alle nostre coste;
3. che non violassero l’indipendenza del Belgio e successivamente occupassero Anversa, creando per noi una minaccia permanente. 107
Questa era stata la tesi di Pitt per combattere contro la Francia; tesi che aveva le sue radici nell’assioma che il predominio sul mare fosse l’alpha e l’omega della sicurezza britannica (il primo raid di uno Zeppelin dimostrò quanto fosse obsoleta). Quindi Morley non si sbagliava di molto quando disse che il Belgio aveva fornito «un pretesto per un intervento a favore della Francia». 108 Questa era anche l’opinione di Frances Stevenson, l’amante di Lloyd George, e di Ramsay MacDonald, che aveva cenato con Lloyd George la sera del 2 agosto. 109
C’era tuttavia un motivo ben più importante che spiegava l’entrata in guerra della Gran Bretagna, alle undici di sera del 4 agosto 1914. Nei giorni che vanno dal 31 luglio al 3 agosto, un aspetto contribuì più di ogni altro a preservare l’unità del gabinetto: la paura di lasciare spazio all’opposizione conservatrice e unionista. 110 Bisogna ricordare quanto fossero diventati tesi i rapporti fra i due maggiori partiti nel 1914: dopo le battaglie sui bilanci di Lloyd George e sui poteri della Camera dei Lord, la decisione dei liberali di provare nuovamente a concedere l’Home Rule all’Irlanda aveva infiammato gli animi degli unionisti.
I tentativi di raggiungere un compromesso sull’esclusione temporanea dell’Irlanda del Nord alla riunione di Buckingham Palace non avevano dato frutti. I protestanti dell’Ulster si stavano armando per impedire l’imposizione della «Rome Rule» (la forza volontaria dell’Ulster contava su 100.000 uomini e almeno 37.000 fucili), per cui la possibilità di una guerra civile era concreta e l’atteggiamento dei leader conservatori, per non parlare degli ufficiali superiori dell’esercito, non era privo di simpatie per la causa dei protestanti. 111 L’improvviso scoppio della crisi diplomatica europea, come fece notare Asquith, servì a calmare le tempestose acque irlandesi («l’unico momento brillante di questa guerra odiosa»); ma nello stesso tempo diede ai conservatori un nuovo pungolo con cui stuzzicare il governo. Infatti, già da tempo era apparso chiaro che i leader conservatori consideravano la minaccia tedesca ben più seria di quanto pensasse buona parte dei ministri liberali. Nel 1912, per esempio, Balfour aveva pubblicato un articolo sulle relazioni anglo-tedesche in cui accusava apertamente il governo tedesco di pianificare una guerra di aggressione allo scopo di far risorgere il Sacro romano impero sul continente e di estendere il suo impero d’oltremare. La Gran Bretagna, scrisse, aveva
un’esperienza troppo amara dei mali che provoca il tentativo, da parte di un singolo Stato, di dominare l’Europa; siamo assolutamente convinti dei pericoli a cui una tale politica, in caso di successo, ci esporrebbe ... se li considerassimo trascurabili.
Come abbiamo visto, i conservatori reputavano Grey un «uomo di grande affidabilità», in grado di portare avanti la loro politica al meglio delle sue possibilità contro l’opposizione di colleghi molto meno affidabili. Ma fin dal 1911 il ministro degli Esteri era rimasto sulla difensiva, se non addirittura in ritirata. Unionisti come Frederick Oliver erano terrorizzati dalla prospettiva che cruciali decisioni di politica estera fossero prese da «un governo che ha tanto male interpretato e ingarbugliato fino all’inverosimile la nostra situazione interna». 112 Ripensando alla crisi del dicembre 1914, Joseph Austen Chamberlain espresse quella che era probabilmente l’opinione dominante dei conservatori sul modo in cui i liberali avevano gestito la crisi:
Prima d’ora non c’era stato nulla nei discorsi o nelle pubblicazioni ufficiali che informasse [il nostro popolo] del rischio che avevamo corso per prepararli all’adempimento delle nostre responsabilità e alla difesa dei nostri interessi. Chi sapeva come stavano veramente le cose rimase in silenzio; chi aveva preso l’impegno di istruire la massa del popolo era all’oscuro, e la nostra democrazia, con la sua voce decisiva sulla condotta degli affari pubblici, fu lasciata senza guida da chi avrebbe dovuto dirigerla correttamente, e fu fuorviata da chi se n’era messo alla guida. 113
Suo fratello Neville condivideva il suo sgomento: «C’è da rimanere senza fiato», aveva esclamato in agosto, «a pensare che eravamo sull’orlo del precipizio di un’eterna disgrazia». 114
La tesissima riunione tenuta dal gabinetto il 2 agosto diede il la all’azione dei conservatori. Quella mattina, su suggerimento di Balfour, Lansdowne e Walter Long, il leader unionista Bonar Law aveva scritto ad Asquith per mettere in chiaro l’opinione dei conservatori: «Ogni esitazione nel dare ora il nostro appoggio alla Francia e alla Russia sarebbe fatale per il nostro onore e per la futura sicurezza del Regno Unito». Il «sostegno compatto» offerto da Bonar Law «a tutti i provvedimenti richiesti dall’intervento dell’Inghilterra in guerra» conteneva la minaccia, nemmeno tanto velata, che i conservatori sarebbero stati pronti a fare le scarpe ai liberali se il governo non avesse accolto tali provvedimenti. 115 Dopo anni di critiche bellicose da parte della stampa conservatrice, questa fu la linea scelta per rafforzare la decisione di Asquith. Le dimissioni, disse al gabinetto, potrebbero sembrare la soluzione più normale per un governo così diviso. Ma, aggiunse, «la situazione nazionale è tutt’altro che normale, e non riesco a convincermi che l’altro partito sia guidato da – o contenga al suo interno – uomini in grado di affrontarla». 116 Samuel e Pease colsero la palla al balzo: «Per la maggior parte del gabinetto», dissero a Burns, «lasciare adesso significherebbe un’amministrazione di guerra, e questa è l’ultima cosa che si augura». «Il governo alternativo», come disse Pease, «deve essere molto meno desideroso di pace di quanto lo siamo noi.» Ribadì la stessa cosa a Trevelyan tre giorni dopo, quando ormai anche Simon e Runciman avevano iniziato a ripeterla. 117 Margot Asquith osservò in seguito che fu «una fortuna per questo paese che i liberali fossero al potere nel 1914, perché sarebbero potuti sorgere sospetti di acquiescenza in una decisione così grave se fosse stata imposta da un governo ultranazionalista». 118
Probabilmente a insaputa del gabinetto, uno dei suoi membri era in realtà pronto ad abbandonare se i sostenitori della neutralità l’avessero avuta vinta. Già il 31 luglio Churchill aveva chiesto in segreto a Bonar Law, tramite Frederick Edwin Smith, se, qualora ci fossero state fino a otto dimissioni, «l’opposizione sarebbe stata disposta ad accorrere in aiuto del governo ... formando una coalizione per riempire gli incarichi vacanti». 119 Bonar Law non accolse l’invito di Churchill a cenare con lui e Grey il 2 agosto, ma nella sua lettera al gabinetto aveva già detto abbastanza. Non era la prima volta che l’idea di una coalizione veniva proposta da un membro del governo Asquith. Con quest’idea aveva flirtato nel 1910 nientemeno che Lloyd George. 120
A prima vista, il fatto che i conservatori desiderassero la guerra più dei liberali sembrerebbe rafforzare la tesi dell’inevitabilità di un intervento britannico: se Asquith fosse caduto, Bonar Law sarebbe entrato lo stesso in guerra. Ma sarebbe stata davvero la stessa cosa? Supponiamo che Lloyd George – sconfitto sulla sua legge finanziaria, in preda al panico finanziario, assalito dagli editoriali pacifisti del «Guardian» e del «British Weekly» – avesse abbandonato Grey nella decisiva riunione di gabinetto del 2 agosto e lasciato l’iniziativa a quanti si opponevano all’intervento. In tal caso, il ministro degli Esteri avrebbe sicuramente dato le dimissioni e Churchill si sarebbe immediatamente schierato con Bonar Law. Asquith sarebbe riuscito a proseguire? Quasi sicuramente no. Ma con quanta rapidità si poteva formare un governo conservatore? L’ultimo cambiamento di governo aveva richiesto parecchio tempo: l’amministrazione Balfour aveva mostrato i primi segni di cedimento sul problema della riforma tariffaria nel 1903, era stata sconfitta alla Camera dei Comuni il 20 luglio 1905, aveva perso la fiducia degli uomini di Chamberlain a novembre e infine aveva rassegnato le dimissioni il 4 dicembre. Le elezioni generali che confermarono la forza dell’appoggio liberale nel paese si tennero soltanto il 7 febbraio 1906. Si può supporre che le cose si sarebbero mosse più rapidamente se Asquith fosse stato costretto a dimettersi ai primi di agosto del 1914. Il progetto di coalizione elaborato da Churchill intendeva senza dubbio minimizzare ogni ritardo. Ma sarebbe stato possibile dichiarare guerra alla Germania in simili circostanze e prima di un’elezione generale? Molto sarebbe dipeso dal re, il quale, come i suoi cugini a Berlino e a San Pietroburgo, aveva manifestato scarso entusiasmo per la guerra dopo avere aperto gli occhi sull’orlo dell’abisso. 121 Sembra ragionevole pensare che un mutamento di governo avrebbe ritardato l’invio della BEF di almeno una settimana.
In ogni caso, anche con il governo immutato, l’invio della BEF non era una conclusione scontata e non si svolse secondo i piani elaborati nelle consultazioni con lo stato maggiore francese. Questo perché, come abbiamo visto, in realtà non si era mai presa una chiara decisione a favore di un intervento sul continente, cosicché tutte le vecchie argomentazioni contrarie a esso erano immediatamente riaffiorate allo scoppio della guerra. I navalisti sostenevano, come avevano sempre fatto, che solo la potenza marina poteva decidere la guerra, e fino al 5 agosto la maggior parte dei ministri sembrava essere d’accordo. 122 Anzi, Bertie aveva riferito da Parigi che la forza di spedizione non sarebbe stata necessaria; il generale de Castelnau, vicecapo dello stato maggiore francese, gli aveva infatti assicurato che «i francesi, anche se subiscono delle sconfitte, alla fine vinceranno, a patto che l’Inghilterra li aiuti chiudendo alla Germania gli sbocchi al mare». 123 Erano inoltre favorevoli a tenere una parte dell’esercito, o addirittura tutto, in patria: non per difendersi da un’invasione, che non ci si aspettava, ma per preservare la pace sociale (in effetti, le conseguenze economiche della guerra cominciavano già a farsi sentire). 124 Nel «piuttosto variopinto» consiglio di guerra di generali e ministri convocato da Asquith il 5 agosto regnò la confusione e non si prese alcuna decisione in attesa di consultazioni con un rappresentante dello stato maggiore francese. Il giorno seguente il gabinetto decise di inviare solo quattro divisioni di fanteria e una di cavalleria ad Amiens, malgrado Henry Wilson avesse già da tempo stabilito di mandare tutte e sette le divisioni a Maubeuge in soccorso dei francesi. Solo sei giorni più tardi Kitchener, richiamato in gran fretta dall’Egitto e nominato segretario di Stato alla guerra, si lasciò convincere a tornare al piano originale, e soltanto il 3 settembre il gabinetto accettò di inviare in Francia l’ultima divisione rimasta. 125
Questa decisione cambiò in modo decisivo l’esito della guerra, come sostennero allora i suoi fautori e in seguito i suoi difensori? Aveva ragione il maggiore A.H. Ollivant a sostenere, nel suo memorandum del 1º agosto per Lloyd George, che «la presenza o l’assenza dell’esercito britannico ... deciderà molto probabilmente il destino della Francia»? 126 Come abbiamo visto, il Piano Schlieffen sarebbe fallito in ogni caso, anche senza l’invio della BEF, tante erano le falle che Moltke vi aveva aperto. Quindi i francesi sarebbero probabilmente riusciti a fermare da soli l’avanzata dei tedeschi, se non avessero essi stessi cercato di lanciare un’offensiva praticamente suicida e si fossero invece concentrati sulla difesa. Ma non lo fecero; e, anche tenendo conto degli errori tedeschi, sembra ragionevole affermare che, nonostante l’iniziale e disperata ritirata da Mons e il fallimento della finta manovra a Ostenda, la presenza di truppe britanniche a Le Cateau il 26 agosto e sulla Marna (6-9 settembre) ridusse significativamente le possibilità di vittoria dei tedeschi. 127 Purtroppo, non era in grado di determinare una sconfitta tedesca. Dopo la caduta di Anversa e la prima battaglia di Ypres (20 ottobre-22 novembre), si giunse a una sanguinosa guerra di posizione, destinata a durare, sul fronte occidentale, tre anni e mezzo. Se i sostenitori della neutralità o di una strategia esclusivamente navale avessero prevalso e la Gran Bretagna non avesse inviato la BEF – o anche se la sua partenza fosse stata ritardata in attesa della formazione di un nuovo governo – le possibilità di vittoria dei tedeschi sulla Francia sarebbero certamente aumentate.
L’unione europea del Kaiser
La Gran Bretagna avrebbe potuto limitare il proprio coinvolgimento in una guerra continentale? È una possibilità che gli storici hanno completamente trascurato. 128 Anche chi deplora in generale il modo in cui la guerra fu combattuta di solito non ne tiene conto. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che si trattava di una possibilità molto concreta. Gli stessi Asquith e Grey lo riconobbero in seguito nelle proprie memorie. Entrambi hanno sottolineato che la Gran Bretagna non era stata obbligata a intervenire da alcun vincolo contrattuale con la Francia. Per citare le parole di Asquith: «Restammo liberi di decidere se, quando si fosse presentata l’occasione, avremmo dovuto entrare in guerra oppure no». 129 E Grey non tenne nascosta la presenza di un’opposizione politica all’interno del suo partito, che a luglio gli aveva impedito di impegnarsi con la Francia. 130 Sebbene in altre occasioni avesse parlato di inesorabili forze storiche, ammise che c’era stata possibilità di scelta.
Naturalmente, Grey sosteneva che la scelta fatta dal gabinetto era stata quella giusta. Ma quali erano le sue ragioni contro la neutralità? Le troviamo esposte nelle sue memorie:
Se dovevamo entrarci in ogni caso, dobbiamo ringraziare di averlo fatto subito: fu meglio così, meglio per il nostro nome e per ottenere un esito favorevole, che se avessimo cercato di tenercene fuori per poi ritrovarci ... costretti a prendervi parte. [Se non vi fossimo entrati], saremmo rimasti isolati, non avremmo avuto più alcun amico al mondo; nessuno avrebbe sperato o temuto qualcosa da noi, o pensato che valesse la pena avere la nostra amicizia. Saremmo stati screditati ... e si sarebbe ritenuto che avevamo recitato una parte ingloriosa. Saremmo stati disprezzati. 131
Per Grey, quindi, la guerra era, in sostanza, una «questione di onore»: l’impegno legale nei confronti del Belgio e, cosa ancora più importante, l’impegno morale nei confronti della Francia. Ciononostante, il desiderio di non essere bollata come la «perfida Albione» era soltanto lo schermo dietro al quale si celavano precisi calcoli strategici. La tesi fondamentale di Grey era che la Gran Bretagna non poteva permettersi il rischio che la Germania vincesse, perché la vittoria l’avrebbe resa «padrona di tutta l’Europa continentale e dell’Asia Minore». 132
Ma era davvero questo l’obiettivo della Germania? Il Kaiser era veramente un nuovo Napoleone? La risposta a questa domanda dipende, ovviamente, da quali si ritiene che fossero i veri «scopi bellici» della Germania nel 1914. Secondo Fritz Fischer e i suoi allievi erano in tutto e per tutto radicali, proprio come temevano i germanofobi britannici. La guerra era un tentativo di «realizzare le ambizioni politiche della Germania, che si possono riassumere nell’egemonia tedesca sull’Europa» attraverso l’annessione del territorio francese, belga e possibilmente russo, la fondazione di un’unione doganale centroeuropea e la creazione di un nuovo Stato polacco e di nuovi Stati baltici direttamente o indirettamente sotto il controllo tedesco. Inoltre, la Germania avrebbe acquisito nuovi territori in Africa per consolidare i suoi possedimenti coloniali in una regione centroafricana senza soluzione di continuità. Si doveva infine compiere uno sforzo concertato per frantumare l’Impero britannico e quello russo fomentandovi delle rivoluzioni. 133
Nella teoria di Fischer, però, c’è un difetto fondamentale che troppi storici hanno mancato di notare. Si tratta dell’idea che gli scopi perseguiti dalla Germania dopo l’inizio della guerra fossero identici a quelli che si era prefissata prima di essa. 134 Così, il «Programma di settembre» di Bethmann Hollweg – «Note provvisorie per la direzione della nostra politica» in vista di una pace separata con la Francia, redatte con la convinzione di una rapida vittoria tedesca in Occidente – è talvolta presentato come la prima dichiarazione aperta di scopi che esistevano già prima dello scoppio della guerra. 135 Se questo fosse vero, la tesi secondo cui la guerra si poteva evitare crollerebbe, perché è evidente che nessun governo britannico avrebbe potuto accettare le condizioni territoriali e politiche che il Programma di settembre proponeva per la Francia e il Belgio, 136 visto che avrebbero realizzato l’«incubo napoleonico» concedendo alla Germania il controllo della costa belga. Ma il fatto incontrovertibile è che Fischer e i suoi allievi non hanno mai trovato la minima prova che questi obiettivi esistessero prima dell’entrata in guerra della Gran Bretagna. In teoria è possibile che tali prove non siano mai state consegnate alla carta, o che i documenti che le contengono siano stati distrutti o perduti, e che successivamente i protagonisti delle vicende abbiano preferito mentire piuttosto che legittimare la clausola della «colpa della guerra» del trattato di Versailles. Ma sembra improbabile. Tutto ciò che Fischer è in grado di produrre sono i fantasiosi progetti prebellici di alcuni pangermanisti e uomini d’affari, nessuno dei quali con uno statuto di ufficialità, nonché gli occasionali discorsi bellicosi del Kaiser, la cui influenza sulla politica non era così ampia e profonda come lui stesso credeva. 137 È certamente vero che a volte il Kaiser fantasticava di «una sorta di supremazia napoleonica», 138 e che quando, il 30 luglio, comprese finalmente, ma ormai troppo tardi, che la Gran Bretagna sarebbe intervenuta, si lasciò andare ai più folli disegni mondiali:
I nostri consoli in Turchia e in India, i nostri agenti ecc., devono suscitare in tutto il mondo musulmano una fiera ribellione contro questa odiosa nazione di negozianti, bugiarda e priva di coscienza, perché, anche se moriremo dissanguati, l’Inghilterra perderà almeno l’India. 139
Anche Moltke prevedeva che si facessero «tentativi per incitare una sollevazione in India, se l’Inghilterra decide di schierarsi contro di noi. Si devono fare analoghi tentativi in Egitto e anche nei Dominions del Sudafrica». 140 Ma questi voli della fantasia – degni di Il mantello verde, il thriller bellico di John Buchan, e apparentemente altrettanto realistici – non dovrebbero essere considerati gli autentici obiettivi bellici della Germania. Prima della guerra il Kaiser era ugualmente pronto a ricordare ai diplomatici britannici: «Abbiamo combattuto fianco a fianco cent’anni fa. Voglio che le nostre due nazioni si ritrovino di nuovo insieme davanti al monumento belga a Waterloo». 141 Queste non erano certo parole in stile napoleonico. È anche interessante notare che già il 30 luglio Guglielmo II si aspettava che la guerra con la Gran Bretagna avrebbe «dissanguato la Germania». Anzi, anche quando si paragonava a Napoleone, il Kaiser lo faceva avendo in mente il destino finale dell’imperatore: «O la bandiera sventolerà sulle fortezze del Bosforo», aveva dichiarato nel 1913, «o subirò la stessa triste sorte del grande esule sull’isola di Sant’Elena». 142
Il punto decisivo è questo: se la Gran Bretagna non fosse intervenuta immediatamente, gli scopi bellici della Germania sarebbero stati nettamente diversi da quelli del Programma di settembre. La dichiarazione che rese a Goschen il 29 luglio 1914 dimostra che, in cambio della neutralità britannica, Bethmann Hollweg era pronto a garantire l’integrità territoriale sia della Francia sia del Belgio (e anche dell’Olanda). 143 I famigerati «Suggerimenti di natura politico-militare» espressi da Moltke il 2 agosto ribadivano la stessa cosa: l’assicurazione che la Germania «avrebbe agito con moderazione in caso di una vittoria sulla Francia doveva essere data ... senza condizioni e nella forma più vincolante», insieme con la garanzia dell’integrità territoriale del Belgio. 144 Infatti, se la Gran Bretagna fosse rimasta fuori dal conflitto, sarebbe stata una follia rinnegare un patto così vantaggioso. Quindi gli scopi bellici della Germania non avrebbero quasi sicuramente incluso i mutamenti territoriali previsti nel Programma di settembre (tranne forse quelli relativi al Lussemburgo, per il quale la Gran Bretagna non aveva alcun interesse). E certamente non avrebbero incluso le proposte di un controllo tedesco sulla costa belga, che nessun governo britannico avrebbe mai potuto accettare. Perciò, sarebbero rimaste soltanto le seguenti proposte:
1. Francia ... Un’indennità di guerra da pagare a rate: deve essere sufficientemente alta da impedire alla Francia di spendere somme considerevoli in armamenti per i prossimi quindici o vent’anni. Inoltre: un trattato commerciale che renda la Francia economicamente dipendente dalla Germania [e] assicuri il mercato francese alle nostre esportazioni ... Questo trattato dovrà garantirci libertà di movimento finanziaria e industriale in Francia in modo tale che le imprese tedesche non possano più ricevere un trattamento diverso rispetto a quelle francesi.
... 2. Dobbiamo creare un’associazione economica centroeuropea per mezzo di trattati doganali comuni che includano la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Danimarca, l’Austria-Ungheria, la Polonia e forse l’Italia, la Svezia e la Norvegia. Questa associazione non avrà alcuna suprema autorità costituzionale e tutti i suoi membri saranno formalmente uguali, ma in pratica saranno sotto la leadership tedesca, e avrà il compito di consolidare il predominio economico della Germania sulla Mitteleuropa.
[3]. La questione delle acquisizioni coloniali, il cui primo scopo è la creazione di un impero coloniale centroafricano senza soluzione di continuità, sarà considerata in seguito, al pari di quella sugli obiettivi da raggiungere nei confronti della Russia.
4. Olanda. Si dovrà esaminare con quali mezzi e metodi l’Olanda possa essere inquadrata in una più stretta relazione con l’Impero tedesco. Tenendo presente il carattere degli olandesi, questa relazione più stretta dovrà lasciarli liberi da ogni sensazione di costrizione, non dovrà mutare nulla nel loro modo di vivere né dovrà sottoporli a nuovi obblighi militari. L’Olanda, quindi, deve essere lasciata indipendente all’esterno, ma resa internamente dipendente da noi. Si potrebbe anche considerare la possibilità di un’alleanza offensiva e difensiva a copertura delle colonie; in ogni caso una stretta unione doganale. 145
A questi punti – in sostanza, il Programma di settembre senza l’annessione di Francia e Belgio – si dovrebbero aggiungere i dettagliati piani redatti successivamente per «risospingere [la Russia] il più lontano possibile dalla frontiera orientale della Germania e [interrompere] il suo dominio sui popoli vassalli non russi». Si prevedevano pertanto la creazione di un nuovo Stato polacco (unito alla Galizia asburgica) e la cessione delle province baltiche (che sarebbero rimaste indipendenti, oppure incorporate nel nuovo Stato polacco o ancora annesse alla stessa Germania). 146 Anche questa versione rivista del Programma di settembre esagera probabilmente gli scopi prebellici dei leader tedeschi. Bülow, naturalmente, non era più cancelliere; ma le osservazioni che confidò al principe ereditario nel 1908 non erano molto diverse dall’opinione di Bethmann Hollweg, secondo il quale la guerra avrebbe rafforzato la sinistra politica e indebolito internamente il Reich:
Nessuna guerra europea può fruttarci molto. Non ci sarebbe per noi nulla da guadagnare dalla conquista di nuovi territori slavi o francesi. Se annettiamo all’impero piccoli paesi non faremo altro che rafforzare quegli elementi centrifughi che, ahimè, in Germania non mancano mai ... Ogni grande guerra è seguita da un periodo di liberalismo, perché il popolo esige una compensazione per i sacrifici e gli sforzi che la guerra gli ha imposto. 147
I limitati scopi bellici sopra descritti avrebbero rappresentato una minaccia diretta per gli interessi della Gran Bretagna? Implicavano una strategia napoleonica? Difficile. Tutto ciò che le clausole del Programma di settembre implicavano era la creazione – con ottant’anni di anticipo, si potrebbe dire – di un’unione doganale europea dominata dalla Germania. In effetti, molte delle dichiarazioni ufficiali su questo punto presentano una sorprendente risonanza con la situazione odierna; per esempio, quella di Hans Delbrück: «Solo un’Europa che costituisca una singola unità doganale può affrontare con sufficiente forza le onnipotenti risorse produttive del mondo d’oltre Atlantico», o l’entusiastico appello di Gustav Müller per degli «Stati Uniti d’Europa» (un’espressione usata prima della guerra dal Kaiser) che «includano la Svizzera, i Paesi Bassi, gli Stati scandinavi, il Belgio, la Francia, più la Spagna e il Portogallo e, tramite l’Austria-Ungheria, anche la Romania, la Bulgaria e la Turchia», o l’aspirazione del barone Ludwig von Falkenhausen a
1. sfidare i grandi blocchi economici chiusi degli Stati Uniti e degli imperi britannico e russo con un blocco economico altrettanto solido che rappresenti tutti gli Stati europei ... sotto la leadership tedesca, con il dublice scopo di:
2. assicurare ai membri di questo blocco, e in particolare alla Germania, il predominio sul mercato europeo, e
3. mettere in campo l’intera forza economica dell’Europa unita e compatta nella lotta con quelle potenze mondiali sulle condizioni di ammissione di ciascuna ai mercati dell’altra. 148
Anche alcuni «allarmisti» tedeschi del periodo prebellico si erano espressi in modi così sorprendentemente familiari. In Der Zusammenbruch der alten Welt «Seestern» (Ferdinand Grauthoff) aveva dichiarato profeticamente: «Solo l’unione dei popoli europei può restituire loro l’indiscussa supremazia politica e il dominio sui mari che un tempo gli appartenevano. Oggi il centro di gravità politico è a Washington, San Pietroburgo e Tokyo». Die «offensiv-invasion» gegen England, di Karl Bleibtreu, si conclude con queste parole: «Solo un’Europa pacificamente unita può resistere contro il potere crescente di altre razze e contro il predominio economico dell’America. Unitevi! Unitevi! Unitevi!». 149
Chiaramente, Bethmann Hollweg e il suo confidente Kurt Riezler non avevano il minimo dubbio che questo «impero mitteleuropeo della nazione tedesca» fosse semplicemente «il travestimento europeo del nostro desiderio di potenza». Lo scopo di Bethmann, come disse Riezler nel 1917, era «guidare il Reich tedesco, che con i metodi dello Stato territoriale prussiano non può diventare una potenza mondiale, a un imperialismo di forma europea, strutturando il continente dal centro verso l’esterno (Austria, Polonia, Belgio) e sul perno della nostra leadership tacitamente accettata». 150
Questo non è certo il modo in cui parlano i politici tedeschi di oggi. Anche in questi termini, però, il progetto europeo della Germania non era tale da impedire alla Gran Bretagna, con il suo impero marittimo intatto, di conviverci.
Naturalmente, le cose andarono in maniera diversa: la richiesta di una neutralità britannica fu, come noto, respinta. Ma gli storici tedeschi hanno liquidato troppo frettolosamente la proposta di Bethmann Hollweg definendola un folle errore di calcolo, e hanno persino sostenuto che la Germania in fondo non si aspettava di ottenere la neutralità britannica. Le testimonianze in nostro possesso non giustificano una simile tesi. Al contrario, dimostrano che i calcoli di Bethmann Hollweg erano tutt’altro che irragionevoli. E gli si può perdonare il fatto di non aver saputo prevedere che, all’ultimo istante, le ragioni di Grey e Churchill avrebbero prevalso su quelle dei non interventisti, numericamente più forti, e che la maggior parte dei membri del parlamento avrebbe accolto quella che si sarebbe dimostrata la più fuorviante di tutte le affermazioni del ministro degli Esteri: «Se ci impegniamo in una guerra, soffriremo ben poco di più di quanto dovremmo soffrire se ce ne tenessimo fuori». 151