5.

Data la natura del peccato di Isaac, furono necessarie lunghe e attente consultazioni prima che la "yeshivah" accettasse di riprenderselo, comunque a malincuore. "Come hai potuto fare una cosa del genere?" chiese un Rebbe. "L'altro magari. Ma il tuo stesso padre, "olev hasholem"?", "L'altro era "treyf"" rispose Isaac guardandolo con odio. Tornò a casa solo una volta dopo essere stato scagionato nell'inchiesta medico-legale, per trascorrere controvoglia con sua madre gli "Aseret Yeme Teshuvah", i Dieci Giorni del Pentimento da "Rosheshone" a "Yom Kippur", evitando il Sir Igloo Inn Café e la base commerciale della Hudson's Bay, dove lo tormentavano senza tregua. "Sei tornato per arrostirti la mamma per cena?". Nessuna risposta. "Ad Agnes piace farsi mangiare dagli uomini. Prova con lei". Il venerdì sera si mise con aria di sfida davanti alla porta della casa di suo padre, ad aspettare l'arrivo dei Fedeli, accampati ai confini dell'insediamento; avrebbero dovuto battere sui tamburi ed esibire le offerte tradizionali, ma nessuno si presentò. "Tutti loro avrebbero fatto esattamente quello che ho fatto io" gridò Isaac a Nialie sbattendo la porta di camera sua e gettandosi sul letto con le lettere dell'alfabeto ebraico dipinte sulla testiera. Una fatale "gimel" volava fuori dal becco del corvo. Nialie gli portò una ciotola di minestra. "E se qualcun altro mi ripete che era davvero un santo" gridò Isaac "lo caccio fuori a pedate. Aveva un lato segreto. Solo io lo sapevo". "Sapevi cosa?". Sua madre gli faceva troppa compassione perché potesse dirglielo. "Lascia stare". Alla fine il direttore della "yeshivah" venne a sapere della marijuana e della cameriera di Portorico. "Sta scritto" si difese Isaac, citando il Libro dei Re "che un re può prendere mogli e concubine fino al numero di diciotto, e io discendo dalla casa di David". Quando scoprì che il figlio era stato espulso dalla "yeshivah", Nialie smise di passargli l'assegno mensile. Isaac, infuriato, andò al palazzo della McTavish sulla Quinta Avenue. "Voglio vedere Lionel Gursky". "Hai un appuntamento?" gli chiese la ragazza in portineria. "Sono suo cugino". Un adolescente tarchiato con giubbotto da motociclista in pelle nera, jeans a tubo e stivaletti da cowboy. Capelli neri lisci e lucenti, occhi infuocati, vagamente a mandorla, pelle scura. "Come no" disse la ragazza, divertita. Mentre la guardia del servizio di sicurezza si avvicinava, Isaac sbatté il passaporto sul bancone. La guardia sbuffò, incredula, ma chiamò lo stesso la segretaria di Lionel. Dopo una pausa, disse a Isaac: "Prendi l'ascensore fino al cinquantaduesimo piano. La segretaria di Mister Lionel ti aspetta lì". Isaac seguì - gli occhi fissi sulle gambe - la giovane donna che lo condusse fino all'ufficio di Lionel. "Mister Lionel è già in ritardo per una seduta del consiglio di amministrazione. Può concederti solo dieci minuti". La segretaria dovette suonare per farlo entrare nell'anticamera dell'ufficio di Lionel, sorvegliata da un monitor e da una guardia armata. Dietro la guardia, sopra un vaso Ming pieno di gladioli, incombeva un ritratto di Mister Bernard. Un'altra doppia porta, all'apparenza di quercia ma in realtà profilata d'acciaio, si aprì silenziosamente. L'ufficio di Lionel era il più grande che Isaac avesse mai visto. Scrivania d'antiquariato. Divani in pelle. Cestini per la carta straccia anch'essi in pelle, a forma di zampa d'elefante. Folto tappeto color panna. Pareti tappezzate di seta. La copertina incorniciata di "Forbes" con la foto di Lionel. Un quadro che raffigurava la pesca del merluzzo nella penisola di Gaspé. Fotografie di Lionel che stringeva la mano al presidente Nixon, baciava Golda Meir, abbracciava Frank Sinatra, ballava con Elizabeth Taylor, offriva una coppa a Jack Nicklaus. "Tuo padre era un santo e un modello per noialtri poveri peccatori" disse Lionel. "Ti prego di accettare le mie tardive condoglianze". Con un sorriso ambiguo, Isaac spiegò che aveva abbandonato la "yeshivah" a seguito di una disputa teologica e adesso desiderava iscriversi a una scuola non religiosa, per continuare la sua formazione a New York, ma c'era qualche problema. Al compimento dei ventun anni avrebbe ereditato parecchi milioni e un bel mucchietto di azioni McTavish. Nel frattempo, però, controllava tutto sua madre. E lei era decisa a farlo ritornare lassù al Nord. Si intromise la segretaria di Lionel. "Grazie, Miss Mosley. Prendo la telefonata in biblioteca, ma lei si fermi qui e tenga compagnia a mio cugino, le dispiace?". Isaac cominciò ad aggirarsi per l'ufficio. Scivolò dietro la scrivania d'antiquariato, si sedette sulla poltrona di Lionel e si mise a girare su se stesso. "Non credo che dovresti farlo". "Adesso devo pisciare" disse Isaac saltando in piedi. "C'è un bagno in corridoio" disse Miss Mosley, lisciandosi la gonna. "Prima a destra e seconda a sinistra. L'agente di guardia ti darà la chiave". "Non c'è un cesso qui?". "E' quello privato di Mister Lionel". "Prometto che alzo l'asse". A una prima occhiata, l'armadietto delle medicine non offriva niente di interessante, ma un vassoio sul tavolo di vetro era pieno di gemelli: di perla, giada, oro. Isaac ne mise in tasca un paio e portò via la boccetta con le pillole più promettenti. La segretaria di Lionel se n'era andata, ed era stata sostituita dalla guardia che prima sorvegliava l'anticamera. "Ehi, amico, che è successo alla mia baby-sitter?". "Siediti lì da bravo e aspetta Mister Lionel". Ma Lionel non tornò. Al suo posto arrivò un ometto basso, roseo e grassottello, con folti capelli rossi e ricci. "Tuo padre era un meraviglioso essere umano" disse Harvey. "Te lo dico dal profondo del cuore. Mister Lionel capisce il tuo stato d'animo e ammira la tua ambizione. Mi ha incaricato di offrirti una rendita di duecento dollari la settimana, che verrà accreditata sul tuo conto corrente non appena mi comunicherai tutti i dettagli. Più avanti dovrai firmare dei documenti". "Quando devo tornare a firmarli?". "Te li manderemo per posta. Nel frattempo, questa busta contiene mille dollari in contanti". "Dov'è quel cazzone di mio cugino?" chiese Isaac agguantando la busta. "Mister Lionel dice che devi tornare presto a trovarlo". Isaac prese in affitto un monolocale sulla Quarantaseiesima Strada Ovest, all'angolo con la Decima Avenue. Integrava il suo magro appannaggio facendo qualche lavoretto qua e là, tutte cose per cui non occorreva una "green card". Sparecchiava i tavoli da Joe Allen. Lavava i piatti da Roy Rogers a Broadway. Distribuiva biglietti da visita per la strada, con la scritta CHIAMA 976-SEXY. Alcuni mesi dopo, Isaac, quindici anni ormai compiuti, se ne stava sdraiato sul futon a fissare il soffitto della sua stanza, con la barba non fatta. Tormentato dal caldo estivo del monolocale, allungò la mano per prendere i boxer tigrati sul pavimento e asciugarsi il sudore sul collo e sulla faccia. Si arrotolò uno spinello, cercò a tentoni una cassetta e la infilò nel suo Sony. Non appena sentì il vento di tempesta che infuriava sulla tundra, cominciò a ridacchiare di gusto. Poi si udì l'ululato lontano di un lupo, musica elettronica, rumori di lotta, e finalmente, aumentando gradatamente di volume, la voce del narratore: "Gli Uomini-Corvo, creature di forma umana che provengono dall'antico mondo degli spiriti, stanno attaccando la brava gente di Fish Fjord. Le loro unghie sono artigli di gufo, i nasi hanno la forma di un becco di falco, le grandi braccia sono coperte di penne e si spiegano come ali. Molti abitanti del villaggio fuggono terrorizzati, ma altri combattono nonostante le probabilità di vittoria siano scarse. In prima linea c'è il capitano Cohol, che sfida la sorte contro gli spietati saccheggiatori, combattendo come dieci uomini in un lucente cerchio di morte...". Sulle pareti dell'appartamento di Isaac erano attaccati manifesti e adesivi. Poster di David Bowie, Iggy Pop, Mick Jagger. Schiacciata tra i Black Sabbath e i Deep Purple c'era l'immagine a colori vivaci del Rebbe che regnava a Crown Heights, al 770 di Eastern Parkway. Una Marilyn Monroe nuda, distesa su un tappeto rosso, sorrideva al Rebbe dalla parete opposta. Incollato al manifesto c'era lo stemma che Isaac aveva portato sul taschino della giacca, a certificare che era un soldato dell'ESERCITO DI HASHEM. Un adesivo appiccicato su un'altra parete diceva: VOGLIAMO IL MOSHIAKH ADESSO. Quei giorni, pensò Isaac, e inspirò profondamente. I tempi della "yeshivah". Svegliarsi nel buio dell'inverno per dire il "Modeh ani", la preghiera di ringraziamento per il risveglio: "Modeh ani lefanekha, melekh khay vekayyam" Rendo grazie a Te, o Re sempiterno "shekekhezarta bi nishmati bekhemlah" che hai misericordiosamente rimesso l'anima dentro di me. 'fanculo la "yeshivah". E 'fan culo pure i Gursky. Bella famiglia. Lionel, quel pezzo di merda, non aveva più accettato di incontrarlo. E si badi bene: era solo un cugino. Lucy, sua zia, "la sua unica zia", l'aveva trattato anche peggio. Non al principio. Nossignore. Al principio sembrava che lui fosse la cosa più carina dell'universo. La prima volta era andato a trovarla nel suo appartamento al Dakota quando ancora studiava alla "yeshivah". Aveva suonato il campanello con una confezione regalo di cioccolatini "glat kosker" Mogen Dovid sottobraccio, senza sapere che la zia stava dando una festa. Un piccolo filippino in giacca bianca aveva aperto la porta e subito dopo una signora ansante, con indosso un caffettano ampio come una tenda, si era precipitata lungo il corridoio per abbracciarlo. Era immensa, gonfia, con un trucco pesante, gli occhi neri scintillanti profilati di qualcosa di argenteo, i vari menti che tremolavano. Isaac tentò di arretrare, ma Lucy lo afferrò per le spalle, con le braccia tese e i braccialetti d'oro che tintinnavano. Isaac portava ancora i cernecchi, un accenno di baffi e barba, cappello nero, lunga giacca nera e spessi calzini bianchi di lana. "Oh, i miei poveri nervi a pezzi" disse con una voce abbastanza alta da richiamare l'attenzione. "Ehi, tutti quanti, guardate qua: questo è mio nipote. Non è super?". Poi prese Isaac per mano e lo diede in pasto agli ospiti, uno dopo l'altro, cantilenando in continuazione: "Questo è il figlio di mio fratello, il nostro radar". L'inevitabile risatina la spingeva a spiegare che il suo santo fratello viveva sulle rive del Mar Glaciale Artico, era sposato a un'eschimese, e aspettava la fine del mondo. "Lassù, sarà il primo a saperlo, non vi pare?". Alla fine Lucy abbandonò Isaac a un gruppo che comprendeva un paio di agenti, uno scenografo e il protagonista di una commedia di successo, da anni in cartellone a Broadway. Isaac aveva visto l'attore al "Johnny Carson Show". Deciso a fare buona impressione, gli domandò: "Allora, mi dica un po', non è palloso ripetere sempre le stesse battute tutte le sere?". L'attore alzò gli occhi al cielo e porse a Isaac il suo bicchiere vuoto. "Siamo alle solite" disse. Indietreggiando, Isaac si scontrò con una bella ragazza che indossava una minigonna e una maglietta con la scritta IN CERCA DI MISTER GOODBAR. Isaac poteva distinguere i capezzoli. "Scusi tanto" disse. "Ehi, stai proprio bene vestito così. Vieni direttamente dal set?". "Cosa?" chiese Isaac, cominciando a sudare. "Non hai avuto il tempo di cambiarti per la festa?". "Sono i miei vestiti". "Piantala" disse. "Guarda che lo so che Mazursky oggi girava al Village". Prima della morte di Henry, Isaac aveva visto un'altra volta Lucy, in un palazzo di Broadway. Il giovane che le faceva da assistente personale l'aveva introdotto nel suo ufficio. Lucy, con il caffettano sollevato fino a mostrare le ginocchia grosse come torte di mele e le gambe grasse issate su un poggiapiedi, stava urlando al telefono. "Di' a quella troia senza talento che ne è passato di tempo da quando poteva far la parte dell'ingenua, e che fra un anno, quando le tette le penzoleranno all'altezza delle caviglie, ringrazierà per ogni briciola che riuscirà a racimolare: da me no di sicuro, perché quella con Lucy Gursky non lavorerà mai più". Poi aveva riattaccato e spinto verso di lui l'enorme vassoio di biscotti che troneggiava sulla scrivania. "Oh, merda. Aspetta. Non sono "kosher"". Anche se non l'aveva mai richiamato, Lucy era parsa tanto contenta di vederlo che aveva cancellato la prenotazione alla Russian Tea Room e chiesto allo chauffeur di portarli a pranzo in una gastronomia "kosher" della Quarantasettesima Ovest. Ordinando una seconda montagna di "latkes" - "Non dovrei, ma bisogna festeggiare l'occasione, no?" -, lo aveva divertito con tenere storie su Henry. "Sai, tuo padre balbettava terribilmente finché non si è messo con quelli come voi, per cui il Rebbe non dev'essere poi così male". Isaac aveva colto l'opportunità e, rovesciando parole a una velocità tale che Lucy faceva fatica a seguirlo, le aveva raccontato la sua idea per un film. Era un film sul Messia. Prigioniero da secoli nei ghiacci dell'Artide, esce con un'esplosione da un "pingo", e la sua missione è risvegliare gli ebrei morti e condurli in "Eretz Yisroel". Però ha un punto debole: se gli danno da mangiare cibi non "kosher", perde i poteri magici e diventa un pazzo scatenato. "Mi piace" aveva detto Lucy, e immaginando lo spasso che avrebbe suscitato se l'avesse letta ad alta voce al suo prossimo party, aveva aggiunto: "Devi mandarmi una scaletta". Quando Isaac si era rifatto vivo con lei, dopo l'espulsione dalla "yeshivah", Lucy si era messa a strillare al telefono: "Non riesco a credere che tu abbia il coraggio di chiamarmi, disgustoso piccolo cannibale" e aveva riattaccato. Solo un mese dopo Lucy aveva concesso una serata libera all'autista, con la scusa che sarebbe rimasta in casa, e poi aveva preso un taxi fino al Sammy's Roumanian Paradise, un ristorante che frequentava nelle rare sere in cui si sentiva tanto sola e depressa da non poter far altro che ingozzarsi di uova non nate, "kishke", bistecche di sottocoscia, e poi scivolare in un sonno agitato durante il ritorno a casa. Rientrata al Dakota, mentre il tassista la sollevava dal sedile posteriore, Lucy aveva visto Isaac emergere dall'ombra. "Vattene via" aveva bisbigliato. Cernecchi e cappello nero erano spariti. Adesso indossava una maglietta lurida, jeans strappati alle ginocchia e scarpe da tennis. "Non puoi salire da me. Vai a farti fottere. Animale". "Non mangio da quarantott'ore". Lucy sembrò barcollare sul posto. "Sei mia zia, no?" piagnucolò Isaac, tirando su col naso. Senza fiato, con le gocce di sudore che le imperlavano la fronte e il labbro, Lucy sospirò e disse: "Ti do cinque minuti". Ma una volta nell'appartamento, lei si ritirò in camera e uscì solo dopo aver indossato un caffettano pulito. Quindi sprofondò nel divano e sollevò le gambe gonfie posandole su uno sgabello. "Non vuoi ascoltare la mia versione della storia?" chiese Isaac. "No. Non voglio. Però sul cassettone in camera da letto c'è la mia borsetta" disse Lucy, che non aveva intenzione di alzarsi di nuovo. "Per questa volta puoi prendere qualcosa. Aspetta. So esattamente quanti soldi ci sono dentro". Fu uno sbaglio. Isaac era in camera da troppo tempo. Così Lucy si issò in piedi e lo raggiunse. Isaac stava fissando la grande fotografia appesa al muro di una signora sottile, in abito da sera nero, molto sexy, con il reggisene imbottito di fazzoletti di carta. "Chi è?" chiese Isaac, sorridendo, perché l'aveva riconosciuta, anche con i vestiti indosso, e aveva solo bisogno di una conferma. "Ehi," disse Lucy, facendo una riverenza "è una foto di tua zia Lucy nel fiore degli anni, scattata a Londra da un ragazzaccio piuttosto cattivo nel 1972, se la memoria non m'inganna. O magari pensavi che ero nata ippopotamo?". "No". Lucy estrasse centosettanta dollari dalla borsetta e glieli porse. "Ma ricordati: non venire più qui". "Contaci". Essere così ricco eppure così al verde. Ripudiato dalla propria famiglia. Una cosa da impazzire. Isaac voleva urlare, spaccare tutto. Era così ingiusto. Il suo appartamento puzzava. Aprì la finestra, ma non c'era un filo d'aria. Nemmeno gli scarafaggi si muovevano. In cerca di conforto, infilò un'altra cassetta del capitano A. nel suo Sony. "Costretto ad arrendersi ai rapaci Uomini-Corvo, il capitano Cohol si era liberato dalla terribile tavola della morte solo per essere di nuovo inchiodato sul ghiaccio. "Toologaq, il malevolo signore degli Uomini-Corvo, scoppiò in una risata diabolica. 'Tienti forte, spione spaziale, perché adesso ti becchi la corrente fino all'ultimo volt, per l'ultima volt'". Merda merda merda. Isaac diede un calcio al registratore. Aveva solo quindici anni, e doveva aspettare per altri sei perché i soldi e le azioni diventassero suoi. Afferrò una bomboletta di vernice spray e spruzzò il naso del Rebbe. Traballando, ruotò su se stesso e mirò alla passera di Marilyn Monroe. Poi suonarono al campanello. Tre estranei. Un vecchietto piccolo, un uomo di mezza età, un po' più alto, e una bionda platinata, tutta radiosa, avvolta in una nuvola di profumo. "Sono tuo cugino Barney," disse l'uomo di mezza età "lui è il tuo prozio Morrie, e qui abbiamo" aggiunse, stringendo la bionda per le natiche per spingerla in avanti "l'ex finalista al titolo di Miss Buona Condotta. Guardare e non toccare". Mister Morrie sospirò e schioccò la lingua. "Pensare che un nipote di Solomon dovesse finire così". "La prima cosa che faremo" annunciò Barney "è comprarti dei vestiti decenti". "Scommetto che una moto sarebbe più adatta al suo stile di vita". Darlene arricciò il naso. "E anche al mio, tesoro. Vrum vrum!". "Le loro unghie sono artigli di gufo", ricordò Isaac fissando le unghie di Darlene. "Cosa volete da me?" chiese ritraendosi. Barney gli strappò la bomboletta dalle mani. Mirò l'adesivo sulla parete che diceva VOGLIAMO IL MOSHIAKH ADESSO e vi passò una riga sopra, come per cancellarlo. Poi trovò uno spazio libero e scrisse: VOGLIAMO LA MCTAVISH ADESSO Mister Morrie si fermò a New York per una settimana: si rifiutò nel modo più assoluto di partire finché non ebbe sistemato Isaac in un appartamento decente e non gli ebbe fornito una rendita degna del nipote di suo fratello Solomon. Pranzarono tutti i giorni insieme. "Sai," gli disse Isaac "sei il primo parente che si interessa a me". "Dopo tutto quello che hai passato. E tua zia Lucy?". "Non nominare davanti a me quell'elefante assatanato di sesso". "Lucy assatanata di sesso? Vuoi scherzare". Così Isaac gli mostrò la cartelletta con le fotografie. Gli occhi di Mister Morrie si riempirono di lacrime. "Pensare che quella povera bambina doveva essere tanto infelice" commentò infilando le foto nella sua borsa. "Adesso dimmi un po', Isaac. Che cosa vuoi fare della tua vita?". "Voglio fare dei film". "Sai cosa ti dico? Ti dico: perché no, una volta che abbiamo sistemato le cose".