Capitolo 29
Mi hanno fatto così
tante trasfusioni che non credo di essere più me stessa. Avevo
delle emorragie interne causate da una costola rotta che ha
perforato un vaso sanguigno. L’accumulo di sangue dietro le costole
mi provocava un dolore straziante, ma una volta eliminato, il
dolore è diminuito nel corso delle settimane finché è stato
sufficiente del semplice paracetamolo e mi sono liberata della
flebo. Il braccio sinistro è rotto in tre punti e tre tendini sono
stati tagliati all’altezza del polso. Ho una ferita pulita sulla
coscia, e ho tutto il corpo coperto di sfumature blu e nere a causa
dei graffi, dei tagli e delle escoriazioni. Sinceramente, sto da
schifo, anche sei settimane dopo.
Eppure sopporterei in eterno
questo dolore e accetterei volentieri tutto questo per il resto
della mia vita se potessi cambiare anche solo una cosa.
Ma non posso. Il mio unico
conforto è che nostro figlio non ha sofferto come noi.
Stephanie è stata accusata di
tentato omicidio. Non lo sapevo, ma dei vicini di casa hanno delle
telecamere a circuito chiuso fuori dalle loro proprietà e dopo
un’attenta analisi, a quanto pare il suo intento è risultato
evidente. I video di lei che mi attacca con un coltello pochi
minuti prima hanno avvalorato l’accusa.
Ho scelto di non guardare le
registrazioni, ma Jack le ha viste. Non so perché ne abbia sentito
il bisogno, e non gliel’ho chiesto. Hanno anche fatto dei test
sull’auto; la velocità all’impatto è stata stimata intorno agli
ottanta chilometri orari. Non dovrei nemmeno essere viva. Stephanie
è stata messa sotto sorveglianza per pericolo di suicidio durante
la custodia cautelare, e il suo avvocato ha richiesto una
valutazione psichiatrica. Ho sentito che ha dichiarato di aver
perso il senno. Spero che voglia dire che sarà dichiarata malata di
mente e rinchiusa in un istituto. Non mi importa dove finirà, basta
che sia lontano, lontanissimo da me e Jack.
Mio padre, dopo che i miei
hanno superato lo shock dell’incidente, si è scagliato contro Jack
con una rabbia che non gli avevo mai visto prima addosso. Jack si è
piegato alla sua furia, senza reagire e senza ribattere avanzando
qualche scusa. Il senso di colpa che lo consuma mi preoccupa sempre
di più, ogni giorno che passa. È qui, ma non è presente. Sorride,
ma dietro quei sorrisi c’è una tristezza perpetua. Non doveva
andare così. Nessuno avrebbe dovuto soffrire così tanto.
I miei amici e i miei
genitori hanno fatto avanti e indietro da casa mia per venirmi a
trovare, ma non ho avuto bisogno del loro aiuto. Jack ha preso un
congedo straordinario dal lavoro per starmi accanto, per prendersi
assiduamente cura di me e del mio corpo in via di guarigione. Non
posso dire che non mi piaccia averlo intorno così tanto, dopo tutto
il tempo che abbiamo passato a rubare un’ora qui e lì per stare
insieme. Tuttavia, vorrei che le circostanze non fossero così
tragiche. Abbiamo perso nostro figlio. È una cosa che nessuno di
noi sa affrontare. Possiamo contare solo l’uno sull’altra; spero
che sia abbastanza.
Abbiamo guardato Top Gun un centinaio di volte e abbiamo mangiato
una tonnellata di fragole giganti. Jack mi ha accompagnato alle
sedute di fisioterapia ogni giorno da quando mi hanno rimosso il
gesso. Fra una seduta e l’altra, eseguo gli esercizi che mi sono
stati assegnati su delle schede plastificate almeno sei volte al
giorno. Sei! Quindi, praticamente, passo le giornate a fare
esercizi per il braccio, e Jack si assicura che sia così, sedendosi
con me per venti minuti ogni volta a ripetere le serie e a
redarguirmi se pensa che non le stia eseguendo in modo corretto. Mi
annoiano, questi esercizi per il braccio.
In questo momento sono
sdraiata sul divano, a fare zapping, quando Jack entra con quelle
dannate schede. «Non di nuovo», sospiro, buttando il telecomando
sul cuscino con il braccio molle. «Li abbiamo appena fatti».
«Zitta», mi rimprovera
gentilmente, spostandomi le gambe per sedersi accanto a me.
«Ma sto molto meglio.
Guarda». Riprendo il telecomando e lo punto verso la televisione,
ignorandone la pesantezza. «Posso farcela».
«Sì, ma voglio che tu riesca
a fare questo». Chiude la mano a pugno e inizia a muoverla in aria,
mimando il movimento di una mano su un cazzo invisibile. Io lo
guardo a bocca aperta, non perché il gesto mi sembri inopportuno
data la situazione, ma perché vedo un tenue bagliore nei suoi occhi
che non vedevo da settimane. Lui sorride sotto i baffi, e io mi
ritrovo a ricambiare il sorriso. E poi ride piano, e questo suono è
la migliore medicina che possa esistere. Io faccio una risatina
gettando indietro la testa sul cuscino. Mi sento bene, un altro
pezzo del mio cuore spezzato che si rimette a posto.
Il dolore per la nostra
perdita non svanirà mai completamente, ma devo sperare che alla
fine diventerà abbastanza sopportabile da poter andare avanti.
Spero che anche Jack si stia muovendo nella stessa direzione.
Abbasso la testa e lo vedo sorridere. È incredibile da vedere,
tanto che mi fa ben sperare che con il diminuire del mia sofferenza
diminuirà anche il suo senso di colpa. «Sei diventato bravo», dico,
stringendogli la mano. «Hai fatto pratica?».
Lui sfoglia gli esercizi,
guardandomi con un sopracciglio alzato. «Le normali seghe non sono
nulla rispetto a quelle fatte con la mano della donna che si ama
avvolta intorno al cazzo», risponde con voce roca e un occhiolino,
facendomi sorridere di più.
«Non l’hai appena
detto».
«Sì, invece». Tiene in alto
una scheda e io lo osservo, riconoscendo le immagini ormai
familiari. «Ora concentrati su questo».
«Dopo che hai detto una cosa
così romantica?».
Spunta il tipico sorriso alla
Jack Joseph. «Concentrati», mi ordina.
Controvoglia, guardo la
scheda. «Facile», dichiaro, iniziando ad aprire e chiudere il
pugno, ancora e ancora. «Il prossimo».
«Questo qui». Solleva
un’altra scheda.
«Ecco». Piego il gomito
trattenendo uno sbadiglio. «Il prossimo».
«Annie, devi stendere
completamente il braccio». Con una mano me lo allunga. Sibilo,
sentendo i tendini rigidi tirare troppo. «Sì, molto meglio»,
scherza sarcastico. Io lo guardo male. Mi lancia uno sguardo di
avvertimento. «Continuerai a discutere?».
Brontolo scocciata e inizio a
piegare il braccio, lentamente stavolta, e a stenderlo quanto più
posso. «Contento?»
«Sto solo cercando di
aiutarti».
«Aiutami facendomi uscire»,
lo imploro, senza sperare che mi ascolti. Mi sento una prigioniera,
e a parte le mie visite mondane dal fisioterapista, Jack mi ha
tenuta al sicuro a casa nella bambagia. Sto lentamente impazzendo.
«O per lo meno lasciami andare nello studio così posso lavorare un
po’».
«Pensavo di portarti da
qualche parte, a dire il vero». Allunga una mano e con un dito
traccia la linea di un taglio sulla guancia. «Ma non voglio che ti
sforzi troppo».
«Mi sento molto meglio». Ho
bisogno di uscire e provare a fare qualcosa di normale invece di
rimanere sdraiata qui a rivivere in continuazione quella giornata
infernale. Non fa bene nemmeno a Jack farmi da infermiere
ventiquattr’ore su ventiquattro. Deve uscire anche lui.
«Facciamo un patto», dice,
chinandosi sul mio corpo sdraiato e avvicinandosi al mio
viso.
«Quale?». Farei di
tutto.
«Ti porto da qualche parte se
tu…». Si interrompe, spostando fugacemente lo sguardo dietro di
me.
«Se io cosa?»
«Se accetti di venire a
vivere con me».
Sussulto. Non intendo farlo.
Non ne abbiamo mai parlato. Non abbiamo parlato di niente, a dire
il vero. Da quando mi hanno dimesso dall’ospedale, ogni nostro
sforzo è stato indirizzato alla mia guarigione, ed entrambi
sembravamo contenti così. Non volevo continuare a rivivere gli
eventi orribili che mi hanno fatto finire in ospedale e che ci
hanno tolto nostro figlio. Jack è rimasto qui a casa mia per tutto
il tempo, e io non mi sono fatta domande. Andare a vivere con lui?
Dove? La sua casa è vuota, dato che lui è qui e la moglie è
rinchiusa. E so che non vuole rimettere più piede in quel posto. Il
mio appartamento è piccolo.
«Forse potremmo comprare
casa», continua, percependo che sto scendendo nella spirale
infinita delle domande taciute, e forse consapevole di quali esse
siano. «Non posso ancora vendere casa mia, non finché non sappiamo
cosa succederà a…». Si interrompe di nuovo. Non ha mai più fatto il
nome di lei e dubito che lo farà in futuro. Jack ha fatto richiesta
di divorzio e ha lasciato tutto nelle mani del suo avvocato.
«Voglio una casa con te. Lontano da qui. Un posto tutto
nostro».
«Nostro?», chiedo, intrigata
dall’idea.
«Solo nostro».
«Solo nostro», ripeto,
cercando a fatica qualcos’altro da dire. Un posto tutto
nostro.
«Un nuovo inizio. Io e te».
Mi prende il polso e tocca il braccialetto, facendomi abbassare lo
sguardo. «Se mi vuoi».
Un altro pezzetto del cuore
spezzato si rimette a posto. Unisco le dita alle sue e
giocherelliamo entrambi con i ciondoli preziosi. La dinamica della
nostra relazione è stata costretta a cambiare. Prima, quando
potevamo vederci soltanto in momenti rubati, di solito ci
strappavamo i vestiti di dosso dopo pochi secondi, entrambi
famelici e consumati dal desiderio l’uno per l’altra, passando il
tempo condiviso a perderci nella nostra bolla privata di felicità.
Ora che trascorriamo ogni secondo della giornata insieme e io sono
allettata, passiamo il tempo a… stare insieme. Ad amarci. A
supportarci. A guarirci come meglio sappiamo fare mentre non
riusciamo fisicamente a raggiungere quel piacere stordente che ci
ha fatto superare tutti quei mesi. Ma il piacere c’è ancora.
Nonostante il lutto che sto affrontando, stare con Jack è ancora
più che soddisfacente. Semmai, non ha fatto altro che rafforzare il
nostro amore. Lui mi ha visto nel momento in cui ero più debole. E
così io. Eppure, insieme siamo forse più forti che mai. Lo guardo
con un accenno di sorriso. «Sei sempre stato mio, ancor prima che
io lo sapessi».
Annuisce, passandomi le dita
fra i capelli. «Mi dispiace solo che…».
Lo prendo per la nuca e lo
avvicino a me, quasi toccandogli le labbra con le mie. «Starò
bene», dico, interrompendolo. «Ho te, perciò so che starò bene».
Sono conscia che la mia ferita potrebbe inghiottirlo vivo se glielo
lasciassi fare. Non devo.
«Ti ho trascinato in così
tanti problemi», sussurra.
«Li ho cercati io», gli faccio notare. Non è solo colpa sua. Ho
accettato le ripercussioni quando mi sono fatta catturare nella
rete di menzogne e inganno con un uomo sposato. Solo, non avevo
previsto l’immensità del dolore e della disperazione che avremmo
affrontato. Non avevo previsto Stephanie.
Sorride un poco. «Non ti ho
dato molta scelta, vero?»
«Intendi dire quando mi hai
tentato inesorabilmente con la tua bellezza?».
Annulla lo spazio fra noi e
mi bacia con cautela. «Sapevo che dovevo trovarti ubriaca in quel
pub quella sera».
«Non ero ubriaca».
«Ovviamente». Mi sorride
contro la bocca. «Vuoi una mano nella doccia?».
Annuisco e lascio che mi
aiuti ad alzarmi dal divano, tacendo il leggero fastidio per non
fargli ritirare la proposta.
«Senti dolore, vero?»,
riflette mentre mi accompagna tenendomi per la vita e adeguandosi
al mio passo fiacco.
«Sto bene», ribatto, facendo
una piccola smorfia quando sento una fitta di dolore inaspettata
alla coscia. Zoppico ancora leggermente, ma sono sicura che dipenda
solo dalla mancanza di movimento regolare. I muscoli e le ossa
obiettano ogni volta che mi muovo perché sono abituati a essere
considerati di troppo.
Jack mi guida in bagno e apre
l’acqua nella doccia. Mi detesto per questo, ma devo sedermi sul
gabinetto mentre lui prende gli asciugamani. Sono esausta dopo la
breve passeggiata da una parte all’altra della casa. Lui lo nota e
alza un sopracciglio che io scelgo di ignorare mentre mi tolgo la
maglietta. Lo perdo di vista quando la passo sopra la testa, e
quando lo rivedo si è tolto la sua maglietta. Sorrido a quegli
addominali, a quel petto e a quel torso assolutamente incredibile.
E sospiro.
Lascio cadere la maglietta a
terra mentre Jack si sbottona i jeans. Lentamente. Poi li spinge
giù lungo le cosce muscolose. Lentamente. Con chiara
determinazione. Fra le gambe mi succede qualcosa che non accadeva
da un po’ di tempo.
«Ti lavo». I suoi jeans
rimangono a terra. «Te la senti?».
Io salto in piedi dal
gabinetto. E grido. «Merda!». Ricado giù e afferro il bordo del
lavandino, respirando per lenire il dolore.
«Annie!». Jack è in ginocchio
davanti a me in un batter d’occhio, a valutare la mia condizione.
«Vacci piano».
Gonfio le guance espirando, e
lo guardo negli occhi. «Ahia», mormoro pietosamente.
«Okay. Non usciamo. È troppo
presto. E niente doccia insieme».
Io ringhio e gli afferro i
capelli, tirandolo in avanti con fare minaccioso. «Tu ci entri!»,
sibilo. «E poi mi porti fuori».
«Cazzo, Annie!». Ridacchia e
si rimuove i miei artigli dalla testa. «Okay, okay».
«Bene». Ritorno a respirare,
calma e controllata. «Scusa per essere stata così
insistente».
Jack ride, una vera risata di
pancia. È musica per le mie orecchie. «Non vedo l’ora di vivere una
vita di insistenza, splendore». Si alza davanti a me, offrendomi la
mano. «Pronta?».
Gliela prendo e lascio che mi
tiri su gentilmente e mi tolga i pantaloncini, le mutandine e il
reggiseno prima di guidarmi pazientemente nella doccia. «E
comunque, che ti aspetti con quel corpo?», gli chiedo, e lo sento
ridacchiare. «E quando mi guardi così. E quando mi parli con quel
tono. E dici quelle cose».
«Terrò la bocca chiusa». Mi
fa voltare con delicatezza davanti alla panca da doccia e mi fa
sedere. «E mi terrò addosso i vestiti», aggiunge.
«Non sei costretto», obietto.
Sarebbe una tragedia.
Faccio una smorfia quando la
mia pelle tocca la panca perché odio aver bisogno di sedermi.
Speravo che oggi sarebbe stato il giorno in cui sarei riuscita a
farmi una doccia in piedi. «Mi sento un’invalida», brontolo,
guardando Jack inginocchiarsi davanti a me.
«Lo sei», mi fa notare lui,
facendomi aumentare la smorfia. Prende la spugna e la bagna sotto
lo spruzzo, poi aggiunge un po’ di bagnoschiuma. Mi prende una
caviglia e solleva la gamba con gentilezza, tenendo d’occhio la mia
faccia per qualsiasi smorfia di dolore. «Tutto bene?», domanda, per
stare sicuro, e io annuisco. «Bene». Inizia a insaponarmi. «Vuoi
che ti depili le gambe?».
Mi guardo le gambe,
allungando una mano per accarezzare la pelle. Ho provato a
depilarmi, ma con i movimenti limitati molte cose sono fuori
portata. «Sì, grazie». Non posso credere di essere già arrivati a
questo punto nella nostra relazione, ma Jack è completamente
rilassato al riguardo e prende il rasoio e me lo passa con
delicatezza sulla gamba con movimenti precisi e leggeri. «Il nostro
amore ha raggiunto un altro livello», rifletto, e lo vedo sorridere
mentre continua nel suo lavoro volontario.
«Il nostro amore è tra i più
grandi, Annie». Finisce e lava via il sapone, passandomi le mani
lungo le gambe per controllare il frutto del suo intervento.
«Perfetto», dice, alzando lo sguardo verso di me. Sospetto che non
si riferisca all’ottimo lavoro che ha appena fatto rasandomi le
gambe. Parla del nostro amore.
Allungo una mano e gli
accarezzo la barba irsuta. «Perfetto», ribatto.
Mi bacia la mano con
delicatezza, sospirando con gli occhi chiusi. «Ti amo».
Mi sposto in avanti sulla
panca per avvicinarmi. Lui, però, si oppone, tenendomi ferma.
«Voglio abbracciarti».
«Allora mi avvicino io».
Avanza sulle ginocchia e mi mette le mani sulle cosce, cercando il
mio consenso. Per tutta risposta apro le gambe e gli afferro le
spalle, tirandolo a me mentre stringo le cosce quanto più posso
prima che cominci a far male. «Attenta», mi avverte, con il petto
bagnato contro il mio, e io nascondo la faccia contro il suo collo,
e così fa lui. Mormoriamo entrambi. «Dio, che bella sensazione»,
sospira.
È vero. Calda. Confortevole.
Giusta. Rimaniamo così per un’eternità, uniti, a goderci il primo
vero abbraccio da troppo tempo. Non mi fa male nulla. Non sento
altro che gratitudine. Potrei rimanere qui per sempre, così
contenta fra le sue braccia, perciò quando fa per staccarsi,
borbotto e mi aggrappo a lui più forte.
«Pensavo che volessi andar
fuori», dice, facendo uno sforzo per farmi uscire dal mio
nascondiglio nel suo collo.
«Ho cambiato idea. Rimaniamo
qui».
«Per sempre?»
«Sì».
Ride. «Come siamo determinati
oggi. E se ti promettessi di abbracciarti tutta la notte?»
«Invece di dormire sul bordo
del letto il più lontano possibile da me?»
«Avevo paura di colpirti nel
sonno». Si alza e prende lo shampoo.
«Mi sento meglio dopo solo
cinque minuti di abbraccio che dopo essere stata ferma per sei
settimane».
Si ferma con il flacone al
contrario e mi guarda. Faccio spallucce. È la verità. Ha il tocco
magico. «Allora ti terrò stretta tutta la notte», dichiara
Jack.
«E domani notte?»
«Anche domani».
«E la notte dopo?»
«Annie, ti terrò stretta ogni
notte per il resto delle nostre vite insieme». Mi mette le mani nei
capelli e massaggia la testa, creando la schiuma. «E ne sarò grato
ogni minuto».
Cado in una beatitudine
totale, con le mani di Jack che mi strofinano dolcemente i capelli,
come se stesse maneggiando qualcosa di fragile. Immagino che sia
così. «Devi esserti stufato di vedermi così malridotta», sospiro.
Ho dimenticato cosa sia il trucco, e nelle ultime settimane ho
indossato solo vestiti sciatti.
«Sei bellissima ogni giorno»,
dice semplicemente. «Ora zitta».
Obbedisco e lascio che si
prenda cura di me, dovendo tenere gli occhi chiusi. Il suo basso
ventre nudo è proprio all’altezza dei miei occhi, e se abbasso lo
sguardo, vedo qualcos’altro. So che non sono pronta per
quello, perciò tentarmi così non
farebbe che aumentare il mio dolore che si sta affievolendo.
«In piedi». Jack mi cinge la
vita con le braccia e mi solleva. «Ecco».
Sibilo facendo una smorfia
mentre mi alzo dopo solamente pochi minuti seduta. Ammetto
controvoglia che c’è ancora molta strada da fare prima di ritornare
in forma. «Grazie».
Non prende atto della mia
gratitudine, e si sbriga ad avvolgermi in un asciugamano e ad
accompagnarmi al lavandino. Mi guardo allo specchio. Sono pallida.
Bellissima ogni giorno? Sbuffo e prendo il blister di pillole
contraccettive, tirandone fuori una e portandomela alla
bocca.
Ma la pillola non arriva mai
alle mie labbra.
Perché Jack mi ha avvolto una
mano intorno al polso per fermarmi. Lo guardo nel riflesso, con le
sopracciglia aggrottate. Che sta facendo?
«Che ne dici di non
prenderla?», suggerisce piano, osservando attentamente la mia
reazione.
Sono sbalordita. Intende
dire…? «Poi probabilmente rimarrò incinta quando ti arrenderai al
mio bisogno di averti il prima possibile».
Sorride divertito, tenendomi
ancora il polso. «Ripeto: che ne dici di non prenderla?». Mi ruota
la mano e la pillola cade nel lavandino. Abbasso lo sguardo per
vederla rotolare attorno allo scarico prima di sparire nel buco
nero. La pillola è sparita, ma io continuo a fissare la porcellana
del lavandino, nel tentativo di capire cosa mi sta
suggerendo.
«Jack, non ho bisogno che
tu…». Mi mette un dito sulle labbra e mi fa zittire, avvicinandosi
a me.
«Non sto cercando di
rimettere le cose a posto, Annie. Non con un bambino, in ogni caso.
E non sto cercando di rimpiazzare quello che abbiamo perso».
L’accenno al mio aborto spontaneo fa un male terribile, e lui deve
averlo notato perché mi prende le guance fra le mani grandi e
avvicina il mio viso al suo. «Voglio costruire una vita con te»,
dice piano. «Mi sento come se avessi aspettato un’eternità per
sentirmi così». Mi accarezza le guance con i pollici, e io chiudo
questi dannati occhi quando li sento pizzicare per le lacrime. Jack
mi bacia le palpebre con una tenerezza enorme. «Voglio avere dei
figli da te, Annie. A centinaia». Io tiro su col naso, emozionata.
«Voglio guardarti ogni giorno e sorridere, perché ho scelto
te come madre dei miei figli. Perché
so che se devo avere tutto, allora lo devo avere con te». Apro gli
occhi e sprofondo nei pozzi grigi dello sguardo di Jack. La
tristezza persistente nei suoi occhi è quasi sparita. «Niente più
pillola». Mi dice tantissimo con il suo bacio. Mi dice che mi
proteggerà. Che ci sarà sempre per me. E mi dice che per quanto la
gente penserà che le mie scelte siano state sbagliate, erano giuste
per me. E per Jack.
«Dammi un po’ di tempo»,
sussurro.
«Quanto te ne serve». Si
scosta con un sorrisetto che non posso fare a meno di imitare.
«Posso usare il preservativo. Ho solo bisogno che tu sappia che
sono pronto quando lo sarai tu».
«Okay», concordo con
facilità, semplicemente. Perché anch’io so che se dovessi avere un
figlio, allora lo dovrei fare con Jack. Fisso gli occhi grigi di un
uomo che era proibito. Un uomo che non avrei mai dovuto toccare. Un
uomo che non era mio. «Io direi che ne bastano quattro», mormoro.
Quel sorriso. Dio, quel sorriso. È luminoso, quasi abbagliante, e
mi riempie di speranza e amore. Il pezzo più grande del mio cuore
infranto ritorna al suo posto. Il sorriso di Jack è il simbolo
della nostra vita. E delle vite dei nostri figli. È il simbolo
della felicità. E della libertà.
«Ne voglio sei».
Ignoro il dolore lancinante
che mi assale quando mi lancio contro di lui. «Ti amo», dico
singhiozzando come una matta. «Ti amo così tanto».
«Grazie». Mi tiene come se
dovessi collassare se mi lasciasse andare. È vero, ma non per colpa
del dolore o della stanchezza. Crollerei per via di una felicità
quasi troppo intensa da comprendere. Come la maggior parte delle
cose che provo con Jack. «Dài, allora. Usciamo».
«Dove andiamo?»
«È una sorpresa». Mi dà un
bacio sul naso e mi lascia andare cautamente. «Vuoi che ti aiuti a
vestirti?»
«Che devo mettermi?».
Mi prende per mano e mi porta
all’armadio, poi scorre fra i vari vestiti. «Questa». Jack tira
fuori una camicia larga di Ralph Lauren. «Con questi». E un paio di
jeans stretti. Quindi non si va in un posto elegante?
Lentamente e con cura mi
aiuta a vestirmi e soprintende alla prima sessione di trucco dopo
settimane. «I capelli?», chiedo, guardando torva la mia criniera.
Un taglio e una tinta mi farebbero bene.
Mi toglie l’elastico dal
polso e raccoglie i capelli lunghi e scuri in una coda
disordinata.
«Perfetta».
Non userei la stessa parola,
ma è un miglioramento rispetto al caos che ho in testa da quando mi
sono ritrovata in ospedale. «E le scarpe?»
«Qualcosa di comodo». Mi posa
le mani grandi e forti sulle spalle e le massaggia piano per
qualche momento di piacere.
Chiudo gli occhi e mi rilasso
sotto il suo tocco. «È una bella sensazione», sospiro.
«Dài, prima che ti
addormenti». Lasciandomi davanti allo specchio, si infila dei jeans
e una maglietta. «Pronta?».
Annuisco, infilo i piedi
nelle Converse e guardo torva le scarpe slacciate. Jack si china di
fronte a me e se ne occupa lui prima che possa anche solo provare a
piegarmi. Sorrido alla sua nuca, sentendomi grata e non inutile.
Sotto la sua cura. La sua attenzione. È facile accettarlo, perché è
Jack.