Capitolo 16
Quattro mesi dopo…
Non avrei mai pensato di essere il tipo di persona che si accontenta dell’alternativa migliore, e avere solo una parte di Jack rappresenta questo. Tuttavia, è un sacrificio che per ora ho dovuto fare. Un sacrificio con cui ho imparato a convivere finché non saremo entrambi pronti ad affrontare la tempesta di merda che ci colpirà quando lui la lascerà.
Nel frattempo, rubiamo dei momenti qui e lì, ci incontriamo nelle stanze di hotel ogni tanto di pomeriggio e la mattina andiamo a correre insieme. Questo significa non avere alcun contatto: è difficile, ma mi piace stare con lui. Per parlare e ridere e dimenticare la realtà, anche se solo per una mezz’ora.
È una sfida continua mantenere la nostra relazione segreta al lavoro: gli sguardi che ci lanciamo, il bisogno disperato di travolgere qualsiasi persona si trovi sulla nostra traiettoria per saltarci addosso, al diavolo chiunque stia a guardare. Le carezze nascoste, le battute private. Prima amavo il mio lavoro. Ora, con Jack coinvolto nei miei stessi progetti, è veramente meraviglioso. Mi sono trovata spesso a volere un consiglio. Chiedo il suo parere e se le idee che ho potrebbero funzionare. Sapere che è Jack il catalizzatore di così tante idee le rende qualcosa di più di un mero progetto. Ora fanno tutte parte della nostra storia. Stiamo costruendo qualcosa di più delle sole emozioni e del solo amore.
Mi è stato assegnato il progetto della Brawler’s. Se ne è occupato Jack, tessendo le mie lodi a ogni occasione. E io non avrei voluto deluderlo. I disegni sono stati approvati con qualche minima modifica, e lui si è sentito in dovere di darmi la notizia prima della Brawler’s. Mi ha chiamato mentre stavo andando a una riunione, e sentirlo così entusiasta per me mi ha fatto piangere. Avevo le guance ricoperte di lacrime lì fuori dalla stazione della metro di Warren Street. È il progetto più grande che mi sia stato affidato finora, e un’aggiunta enorme al mio curriculum. Ultimamente mi sembra sempre di essere carica di adrenalina… finché non penso a lei e alle ombre che oscurano la mia felicità.
Non abbiamo parlato di cosa succederà e quando. Quando io e Jack siamo insieme, tendiamo a non pensare ad argomenti deprimenti… come sua moglie. O come gli è andata la giornata. Non ho bisogno di chiederglielo. Glielo leggo in faccia per un secondo sfuggente ogni volta che lo incontro, prima che faccia un respiro profondo e mi avvolga fra le braccia. E in quel momento, tutto torna a essere migliore. Seguo l’esempio di Jack, mi fido di lui…
Perché sono perdutamente innamorata. Non posso rendergli la situazione più difficile di quanto non sia già.
Per quanto mi sforzi, sono diventata sempre più dipendente da Jack, dal modo in cui mi fa sentire, dagli incoraggiamenti e dal supporto che mi dà. Anche dalla devozione che mi mostra. Non è completamente mio, però. Mi sono ripromessa di non dargli mai quell’ultimatum. Non pretenderò nulla e non sfrutterò la mia posizione. Ha già troppi problemi. Oltretutto, il mio io interiore non vuole dargli l’opportunità in futuro di rinfacciarmi le parole “Ho lasciato mia moglie per te!”. Sarò testarda. Sarò irragionevole. Non mi importa. Forse sono una masochista. O forse sto proteggendo i pochi brandelli di integrità che mi sono rimasti.
Sono riuscita a tenere nascosto ai miei amici il fatto che mi sono innamorata di un uomo sposato. Non capirebbero. Ho visto le reazioni di chi ha scoperto un tradimento. Infangano ogni adultero alla stessa stregua. Sono d’accordo che molte tresche si basano solamente sul sesso – qualcosa di eccitante e ardito in una vita noiosa e insoddisfatta. Che ne è, però, di chi si incontra troppo tardi e condivide qualcosa di speciale come me e Jack? Dovremmo forse lasciarci sfuggire quella persona e voltare le spalle a qualcuno che, una volta trovata la nostra anima, la sa amare?
Nel mio cuore so che Jack è la mia anima gemella. È il mio pezzo mancante. Senza di lui ora sarei persa. È davvero così semplice. Forse è sbagliato. Forse è peccato. Non posso voltare le spalle all’uomo che amo. Non posso fargli questo, né posso farlo a me stessa. Questa è la mia realtà. Una realtà che ho imparato ad accettare.
Sono stata occupata a stare al passo con tutti i miei progetti. Oggi sono al cantiere di Colin a supervisionare l’installazione del mio favoloso tetto di vetro. Ogni singolo pannello di vetro è stato tagliato in Francia e spedito oltremanica. Spero che siano arrivati tutti senza danni, e mentre sono per strada a guardare il camion che avanza verso di noi rombando, aggrotto le sopracciglia. «Pensavo di aver richiesto specificamente un camion con la gru», dico rivolta a uno degli operai di Jack, Bill, in piedi accanto a me. È un vecchio sciattone scorbutico ma, come mi ricorda Jack ogni giorno quando mi lamento di lui, è un bravo lavoratore e sa quel che fa.
«La gru si è rotta a Dover». Si avvicina al camion, guidandolo lungo la via stretta.
«Magnifico», borbotto, seguendolo. «Allora dobbiamo lasciare i pannelli sul camion finché non arriva una gru».
«Non si può fare, tesoro».
«Sì che si può fare!», ribatto indignata. «Quei pannelli di vetro costano una cazzo di fortuna!».
Lui mi ignora e fa un fischio, attirando l’attenzione del conducente di un piccolo montacarichi. «Passa dietro, amico!».
«Non sposterete il mio tetto con quell’affare!». Fisso Bill inebetita, a metà fra il panico e la rabbia. «E dove cazzo è la mia gru?», grido, perdendo la testa.
«Bloccata nel traffico a Westminster», dice Bill, per niente scalfito dalla mia rabbia isterica.
«Bill. Penso tu non mi stia ascoltando». Abbasso i toni e provo a ragionarci. «Questo tetto è speciale».
«E io penso che tu non mi stia ascoltando, Annie», controbatte, più calmo di me, mentre il camion della consegna si ferma. «Questo camion sta bloccando la via e causando un vero caos. La gru potrebbe metterci ore ad arrivare. Dobbiamo scaricare quei pannelli e liberare la strada».
Guardo il vetro imballato, pregando ogni dio dei trasporti che sia ancora tutto intero. Se dovessimo ordinare da capo il tetto, non rispetteremmo i tempi di consegna e il budget. «Se qualcosa va storto, la ditta di trasporti rimpiangerà seriamente di avermi incontrata». Parlo per ipotesi, certo, dato che la compagnia di trasporti non mi ha incontrata veramente.
Bill scoppia a ridere di pancia. «Abbi fede». Si infila i guanti di sicurezza. «Su!», urla al guidatore del montacarichi.
Io rimango a guardare col fiato sospeso mentre il primo pannello viene sfilato dal retro del camion, con una dozzina di uomini disposti intorno alla lastra per controllarla durante lo spostamento verso il marciapiede. «Li mollate tutti lì?», chiedo incredula. «Sul ciglio della strada, come una montagna di immondizia?». Oh, porca puttana, non va bene.
«Dove suggerisci di metterli?»
«Sullo stramaledetto tetto!».
«Non penso che la gru arrivi fin qui da Westminster, tesoro».
Faccio un grido di frustrazione e prendo il cellulare, digitando il numero della ditta di noleggio. «Annie Ryan», annuncio, avvicinandomi al primo pannello che stanno appoggiando a terra. «Avrei dovuto avere una gru a Clapham due ore fa e non è qui».
«È bloccata a West…».
«Lo so che è bloccata a Westminster», dico lentamente, con la mascella tesa. «Ma questo non mi aiuta, direi».
«Non posso controllare il traffico, dolcezza».
«Non chiamarmi “dolcezza”. A che ora è uscita dal deposito?». Silenzio, e io cerco di trasmettere il mio cipiglio dall’altra parte della linea. «E non mi rifilare la scusa degli ingorghi quando siete stati voi a non averla fatta partire abbastanza in tempo per arrivare al cantiere». So come operano queste compagnie di noleggio. «Ho un tetto di vetro fatto su misura che blocca la strada. Devo vederlo sistemato entro la fine della giornata, e se così non fosse, avrete mie notizie». Attacco prima che possa rispondermi per le rime, e faccio una smorfia mentre guardo Bill tirare via parte dell’imballo protettivo che tiene al sicuro il mio tetto. «Dimmi che è ancora tutto intero», lo supplico.
«Uno è andato, ora tocca agli altri tre». Mi rivolge un sorriso, e io mi porto le mani al viso e guardo il cielo.
Poi sobbalzo quando sento qualcuno vicino all’orecchio. «La sicurezza sul lavoro prima di tutto, Annie. Dov’è il tuo caschetto?». La voce di Jack lava via il novanta per cento dello stress, anche rimproverandomi.
«Sto affrontando un disastro con il tetto». Mi giro per guardarlo in faccia, controllando che non ci siano sguardi curiosi, solo per sapere quanto amichevole posso essere. Quando penso che la via sia libera, noto Richard che cammina per strada con un’espressione decisamente interessata. Faccio un passo indietro e deglutisco, tornando a guardare Jack. Anche lui ha notato Richard e si è fatto indietro.
«Dov’è la gru?», chiede Jack, schiarendosi la gola.
«Bloccata a Westminster».
Con la coda dell’occhio vedo Richard gettare qualcosa nel cassonetto e tornare verso l’edificio.
Jack si rilassa un poco quando non lo vede più. «Mi sei mancata questa settimana, cazzo», dichiara, un po’ avvilito. Come sempre quando è così esausto, mi chiedo cosa abbia dovuto affrontare per apparire così scoraggiato. Solo per un secondo, però, perché cerco di non pensare alla moglie e di concentrarmi sul fatto che posso farlo sentire meglio. È stata una settimana lunga e indaffarata per entrambi, e purtroppo siamo rimasti divisi, al lavoro o fuori. Ha fatto davvero schifo. Non è stata poi così lunga, ma sembra che sia passato un milione di anni. È un problema di cui sto cominciando ad avere paura. Lo voglio ogni giorno. Ogni ora. Ogni minuto. «Riesci a venire all’Hotel St James per le quattro e mezza?», mi chiede speranzoso.
«Sì», confermo, come se esistesse un’altra risposta. «Mi arrampicherò sul muro e installerò il tetto io stessa se sarò costretta».
Fa una risata leggera, un suono basso e sensuale, come sempre, facendomi sorridere. Le risate di Jack sono come cioccolato fuso – morbide, e creano dipendenza. Non ne posso fare a meno. «Non ce ne sarà bisogno». Batte le mani forte e fa un fischio a Bill, indicando in fondo alla via.
Mi guardo alle spalle e sussulto. «La gru!», strillo, vedendola girare l’angolo. «È arrivata la gru!».
«Montiamo questo tetto, piccola», dice Jack piano, muovendosi verso la gru.
Sorrido fra me e me, perché diventa autoritario, gridando ordini mentre cammina. Dio, cosa farei per averlo da solo in questo preciso momento. Guardo lo schermo del cellulare e inizio a contare i minuti che mancano alle quattro e mezza.
Salgo di corsa i gradini dell’albergo, facendo un cenno con la testa al fattorino mentre passo, controllando sul telefono il numero della stanza che Jack mi ha inviato. Una volta raggiunta la porta, busso con foga, poi mi sistemo i capelli e il vestito nero. Non ho avuto molto tempo per sistemarmi prima di correre qui. La porta si apre e Jack mi afferra il polso per trascinarmi dentro la camera, sbattendosi la porta alle spalle. Grido sorpresa mentre mi tira a sé. Non l’ho ancora visto per bene data la velocità dei miei movimenti.
«Sei in ritardo di due minuti». Prende la borsa e la getta di lato, poi si china e, mettendomi le sue mani sotto le cosce, mi solleva contro il suo petto. Faccio un altro urlo, ma presto si trasforma in una risatina quando lui attraversa di corsa il piccolo salotto e ci lancia entrambi in aria.
«Jack!», urlo, delirante, affondando le unghie nelle sue spalle, che, noto solo ora, sono nude. Atterriamo sul letto più morbido su cui mi sia mai sdraiata, e le nostre bocche si incontrano immediatamente. Non sono ancora riuscita a guardare il suo volto, né ad apprezzare il fatto che è nudo, ma quando sento le sue labbra sulle mie, lascio perdere tutto. Avvolgo ogni arto intorno a lui e lo bacio con tutta me stessa, respirando tutto il suo profumo. Affondo nel materasso con un sospiro contento, spostando le mani sulle sue guance barbute e tenendogli ferma la testa.
«Dannazione, mi è mancato», dice contro la mia bocca, spostando le labbra sulla guancia e dandomi dei bacetti fino all’orecchio.
Muovo i fianchi e sento la sua erezione contro la coscia. «Lo sento». Mi morde il lobo dell’orecchio e si mette in ginocchio, togliendosi le mie braccia dal collo per spingerle sopra la mia testa, tenendole ferme, con il torso sospeso sopra di me. E ora lo guardo in faccia. È come se dietro quegli occhi grigi stiano esplodendo dei fuochi d’artificio, e il suo sorriso potrebbe infrangere ogni record nella categoria dei più luminosi.
«Ciao», dice semplicemente, anche se piano e con tono roco, pieno di desiderio. Una semplice parola.
Ci fissiamo negli occhi per un’eternità, Jack sopra di me, con le cosce che mi cingono la pancia e le mani che mi tengono fermi i polsi. E ci sorridiamo, entrambi felici di ammirarci per un po’. Quando solleva le sopracciglia, io alzo le mie. Quando spinge l’inguine sulla mia pancia con fare provocante, io rispondo sollevando i fianchi. E quando si lecca le labbra, io lecco le mie. Entrambi sorridiamo ancora di più.
«Ben fatto con il tetto, piccola», dice, tenendomi ferma.
Sorrido. «Non è bellissimo?»
«Fantastico».
«Però non sono venuta qui per parlare di tetti», dico senza mezzi termini. «Per quanto puoi rimanere?»
«Per quanto mi vuoi?».
Stringo gli occhi e sulla punta della lingua mi ritrovo le parole “per sempre” in attesa di essere pronunciate. Tuttavia, mi trattengo, riluttante a rovinare il tempo prezioso che passiamo insieme con il dolore dell’ignoto. D’altra parte, sono sicura che già lo sa. «Quanto basta per scoparti».
Fa un piccolo cenno con la testa. Penso che sia un cenno di comprensione, non solo per la risposta a cui ho dato voce, ma anche quella che ho taciuto. «Prima di iniziare a scopare, ho qualcosa per te». Mi stampa un bacio casto sulle labbra e mi libera le braccia, scendendo dal letto diretto verso la zona del salottino. Io mi tiro su reggendomi sui gomiti e lo seguo con lo sguardo, rapita dalla schiena larga e nuda e dal culo perfetto. «Vieni», mi chiama.
«Ma sono comoda qui», mi lamento, mettendo su il broncio.
Jack mi guarda stravaccata sul letto e sorride, e con un cenno silenzioso della testa mi ordina di seguirlo. Mi alzo, curiosa di sapere cosa ha per me. Raggiungo il salottino a piedi scalzi e lo trovo seduto sul divano. Dà delle pacche sul posto accanto a lui e io mi siedo, con uno sguardo interrogativo. Tira fuori una busta di Selfridges e me la porge.
«Che cos’è?», chiedo, accettandola con cautela.
«È per te». Si mette comodo. «Aprila».
Sorrido e sciolgo il fiocco, spostando lo sguardo fra Jack e la busta gialla. Una volta aperta, guardo dentro e scopro qualcosa avvolto nella carta velina. Lo tiro fuori, poso la busta e mi metto il pacchetto in grembo, poi inizio a staccare gli adesivi che lo tengono chiuso. Apro la carta velina e vedo un mucchietto di pizzo nero.
«Mi hai comprato un completo intimo?», gli domando, tirando su il reggiseno.
«Ti piace?». Sembra preoccupato.
Guardo l’indumento bellissimo, il pizzo nero e delicato del reggiseno a balconcino che pende dalle mie mani. «È stupendo».
«E le mutandine?». Le prende e le solleva in aria, mostrandomele. Sono degli slip brasiliani a vita bassa con un ciondolo dorato al centro dell’elastico.
«Le adoro», confermo.
Sento il suo sollievo, e arrivo alla conclusione che Jack non ha mai comprato completi intimi per una donna prima d’ora. Il pensiero mi riempie di soddisfazione. Non mi importa se non mi stanno, o se lo stile non mi si addice. Jack li ha comprati per me. «E ora questo». Tira fuori una scatoletta da dietro la schiena e me la porge.
Mi mordo il labbro quando la vedo. «È per un’occasione speciale?», domando, con gli occhi fissi sulla scatola.
«Sono passati quattro mesi da quando ti ho trovata ubriaca in un pub e ti ho leccata».
Lo guardo negli occhi. «Davvero?». Non so perché sembro così scioccata. Il tempo è volato via, sì, ma mi sembra che sia passato molto più tempo. È come se lo conoscessi da sempre. «E non ero ubriaca».
Ridacchia, con un luccichio negli occhi. «Ovviamente. Apri». Spinge la scatola verso di me e io la prendo, delicatamente come ho accettato la busta dell’intimo.
«Non ti ho preso niente», dico, sentendomi un po’ in colpa.
«Sei tu il mio regalo, Annie». Mi accarezza la guancia.
Mi si scioglie il cuore e mi tuffo fra le sue braccia, incapace di resistere al desiderio di stringerlo forte. «Grazie».
Fa una risata leggera, dandomi un bacio dietro la testa. «Non sai nemmeno cos’è. Potresti detestarlo».
«Non lo detesterò», ribatto quando mi lascia e mi spinge dalla mia parte del divano. Slaccio il fiocco e apro lentamente la scatolina, battendo gli occhi quando da essa escono schegge di luce brillante. Trattengo il respiro per un istante quando prendo il braccialetto. Brilla sullo sfondo nero del cuscinetto di velluto, e al centro ci sono scritte due parole tempestate di diamanti. Una è io e l’altra è te. Le parole sono separate da un piccolo cuore. Stringo le labbra mentre lo fisso, cercando di non piangergli addosso. Mi sento un po’ sopraffatta.
«È platino e diamanti», dice piano.
«È bellissimo», sospiro, passando il dito lungo la fascia di metallo prezioso.
«Ho fatto rinforzare la chiusura con una sicura». Indica il fermaglio minuscolo che lo chiude. «Così non lo perderai». Lentamente e con cura, mi mette il braccialetto sul polso destro e lo allaccia. È della misura perfetta, né troppo largo né troppo stretto, ma abbastanza lento da poter infilare due dita fra la pelle e il platino. Mi viene in mente una cosa, e lo guardo negli occhi. «Mi stavi misurando il polso», dico, ma senza tono di accusa. «La settimana scorsa quando eravamo a letto, continuavi ad avvolgere le dita intorno al mio polso».
Solleva la mano e fa incontrare il dito medio con la punta del pollice, formando un cerchio. «Circa cinque centimetri più corto di così».
«Come sei subdolo», esclamo, abbracciandolo di nuovo. «Lo adoro».
«Io e te, Annie», sussurra, stringendomi fra le braccia. «Io e te».
Le lacrime di felicità che stavo trattenendo vincono la battaglia e mi scendono sulle guance, finendogli sulla spalla. Spero che non le senta, ma quando interrompe l’abbraccio, ho paura che se ne sia accorto. Non ho tempo di asciugarle, dato che mi tiene i polsi. Abbasso gli occhi nel vano tentativo di nasconderle.
«Perché sei triste?», mi chiede, sinceramente preoccupato.
«Sono solo così felice», confesso, scuotendo la testa, arrabbiata con me stessa. Perché ora la mia mente sovraccarica si sta addentrando in pensieri che mi sono ripromessa di non contemplare. Se sono così felice ora che mi accontento di una sola parte di lui, allora non oso immaginare quanto sarei felice se lo avessi tutto. Eppure non riesco ancora a chiedergli quando sarà possibile. Non voglio metterlo sotto pressione. Cammino sul filo del rasoio e tutto intorno a me è sfocato. Il mio mondo intero è distorto, e ho la mente confusa. Non sono sicura di cosa sia meglio per chi o quando.
È proprio questa la ragione per cui provo a non pensarci. Mi rovina l’umore e mi manda in corto circuito la mente. Non gli chiedo mai di Stephanie o della sua vita a casa. Non voglio saperlo, e so che nemmeno Jack vuole che lo sappia. Tutto ciò che so è che Jack ha degli orari di lavoro ridicoli e non smette mai di sorridere quando siamo insieme. Quello che accade quando siamo divisi non è qualcosa a cui posso pensare.
Mi solleva il mento e mi costringe a guardarlo negli occhi. Poi si avvicina e preme le labbra sulle mie. «Mettiti il nuovo completo», ordina. Sorrido fra me e me, grata per il suo intervento. Non abbiamo mai abbastanza tempo a disposizione. L’ultima cosa che voglio quando ho tempo è parlare della nostra situazione di merda. Così è facile. La nostra felicità privata che nessuno può distruggere con i giudizi e con la devastazione. O con i tentati suicidi.
Raccogliendo la nuova biancheria, gli do un bacio sulla guancia e attraverso la camera per andare in bagno. La stanza è in marmo nero e la vasca enorme, piena di acqua fumante e bolle di sapone, ha una televisione integrata nel muro su un lato più corto. Ci faremo un bagno. La pelle nuda e bagnata di Jack sulla mia. Ho i brividi dalla trepidazione mentre mi spoglio e indosso reggiseno e mutandine nuovi, che mi stanno a pennello. All’improvviso nel bagno risuona la musica e io sorrido, ascoltando l’introduzione della Sonnentanz di Klangkarussell.
«Cazzo», sospira Jack, comparendo nello specchio alle mie spalle. I suoi occhi sembrano tizzoni ardenti. «Hai un culo stupendo».
Sporgo il sedere in fuori sfrontatamente e grido quando lui mi dà una sculacciata sulla chiappa sinistra. «Ahi!». Mi afferra, mi fa girare e mi sbatte contro lo specchio. Mi tira i capelli, mi assale le labbra. Fondo il corpo con il suo, aprendo le gambe quando solleva un ginocchio per premerlo fra le mie cosce. Mi solleva per la vita, facendomi scivolare facilmente la schiena sul vetro, reso scivoloso dalla condensa.
Il bacio di Jack è implacabile e famelico, i suoi gemiti e grugniti sono disperati. Mi scosta le raffinate mutandine, si allinea e mi penetra inesorabilmente, spingendomi sullo specchio con un grugnito. Io gli afferro i capelli, consapevole di aver bisogno di un supporto. Sentirlo così profondamente in me fa vorticare il mio mondo. È troppo voglioso per andare piano. Come me. Lo bacio con forza e lui si lascia andare, urlando ogni volta che dà una spinta. Gli mordo le labbra, gli tiro i capelli e grido a ogni affondo violento. Siamo rumorosi e frenetici, appassionati e caotici. La profondità a cui arriva è piacevole e dolorosa. Getto la testa all’indietro e grido al soffitto, le sue dita sono come artigli conficcati nelle mie cosce. Con la schiena colpisco ripetutamente lo specchio, e la pelle scivola sul vetro quando lui si ritira, prima di schiantarsi ancora contro di me. Chiudo gli occhi e mi concentro sull’orgasmo che sta nascendo, sulla pressione che si accumula rapidamente.
«Dio!», grido dopo una spinta particolarmente brutale.
«Vuoi che mi fermi?», mi chiede, senza rallentare il ritmo, continuando a sbattere contro di me come un pazzo depravato.
«No!», urlo, abbassando la testa e aprendo gli occhi. I suoi sono feroci come i movimenti che compie. Per poco non ringhio mentre gli tiro i capelli con forza.
Sorride e accelera il ritmo, affondando ancora di più le dita nelle mie cosce. «Stai per venire?»
«Sì!». L’orgasmo mi coglie di sorpresa, ed esplode fra le mie gambe togliendomi il respiro. Tutto il corpo è in preda a un tremore incontrollabile, e l’udito viene disturbato dal battito del cuore. Mi cedono i muscoli del collo e lascio cadere la testa sulla sua spalla, assalita dalle onde spietate di un orgasmo intenso. È quasi insopportabile. Mi accascio contro Jack, che mi spinge ancora sullo specchio mentre il calore del suo seme mi riempie fino a che non arriva a muoversi dolcemente contro di me, con il respiro affannato.
«Cristo, è stato intenso», ansima, accasciandosi sul pavimento e portandomi giù con sé. Mi adagio su di lui, la guancia appoggiata al petto, la mano su un pettorale. Rimaniamo sul pavimento duro del bagno per un’eternità, le braccia e le gambe intrecciate, entrambi con il fiato corto. Mi sento stordita e privata di ogni energia.
«Un bagno?», mi domanda con il respiro pesante, giocherellando con una ciocca dei miei capelli scuri. Mormoro un assenso senza entusiasmo. Non riesco a muovermi. «Vieni». Mi tira su da terra e mi tiene con un braccio, togliendomi la biancheria con l’altro. Poi mi solleva e mi fa entrare nella vasca, e io affondo subito nell’acqua, con un sospiro riconoscente. Il calore è un sollievo immediato per i miei muscoli. «Fatti più in là», dice Jack, entrando in acqua.
Mi sposto e aspetto che lui si sistemi dietro di me prima di appoggiarmi sul suo petto. Apre le gambe e mi cinge con le braccia, abbassando il naso sul mio collo. «È stato bello».
Annuisco, ancora assorta nel tentativo di riprendere fiato. Ride piano e si allunga all’indietro, incoraggiandomi a sdraiarmi con un palmo sulla fronte. Fa scivolare le dita lungo le mie cosce bagnate, sulla pancia e su, verso i seni. I capezzoli si induriscono al solo contatto.
«Contenta di vedermi?», mi provoca, stuzzicandoli lentamente.
«Sono sempre contenta di vederti». Un brivido mi attraversa, e io poso le mani sulle sue cosce, accarezzando i peli scuri. «È una bella sensazione», rifletto piano, con gli occhi chiusi. È rilassante e mi tranquillizza. Sono in paradiso. «Grazie per i regali».
«E grazie a te per il mio», ribatte, strappandomi un sorriso. «Pensavo una cosa».
«Cosa?»
«Di passare l’intero fine settimana con te».
Spalanco gli occhi. «Come?», gli chiedo, cercando di non farmi prendere dall’entusiasmo. Un intero fine settimana con Jack? Il solo pensiero mi fa girare la testa.
«Il prossimo weekend c’è una conferenza sull’edilizia. Mi sono iscritto, ma non ho davvero bisogno di andarci».
Mi giro fino a ritrovarmi prona sul suo petto. Deve vedere l’euforia nel mio sguardo. «Dove?»
«A Liverpool. Da venerdì sera fino a lunedì mattina. Pensi di poter venire?». Mi accarezza la guancia e toglie qualche ciocca di capelli dal viso. Controllo mentalmente la mia agenda: non mi viene in mente nulla di importante. Posso dire a Micky e alle ragazze che ci sarà una mostra di architettura o qualcosa di simile. Non andranno a controllare, e certo non si proporranno di accompagnarmi.
«Che faremo?», domando, pianificando tutto nella mia testa. Saremo come una coppia normale. Non ci nasconderemo né ci guarderemo alle spalle. Divento sempre più eccitata ogni minuto che passa.
«Andremo a mangiare fuori, a fare compere». Imita il mio sorriso. «Staremo insieme».
Mi sento come un bambino alla vigilia di Natale. Mi nasconderei volentieri in un hotel per due giorni interi se Jack fosse con me. «Un sacco di effusioni?».
Scoppia a ridere, infilando le mani sotto le mie braccia per tirarmi su. I nostri nasi si incontrano, così come gli sguardi. «Tantissime effusioni».
«Allora ci sto». Siglo l’accordo con un bacio, incapace di togliermi il sorriso enorme dalla faccia. «Non vedo l’ora».
«Nemmeno io, bellissima». Jack succhia il mio labbro inferiore prima di lasciarlo andare. «Richard sa di noi due». La dichiarazione è un fulmine a ciel sereno, sebbene me lo sia chiesto anch’io quando l’ho sorpreso mentre ci guardava.
Sento un tuffo al cuore, improvvisamente preoccupata. «Gliel’hai detto?»
«Non ce n’è stato bisogno».
Abbasso lo sguardo sul mento di Jack. «Non siamo stati attenti».
Jack mi tira su il viso e sorride. «Ci lavoro a stretto contatto, Annie. Non posso nascondere la felicità quando sono con te».
Io imito il suo sorriso, solo un po’ più smorzato. Sono preoccupata. «Non lo direbbe a nessuno, vero?»
«Dio, no». Ride al solo pensiero. «È una brava persona, e sa…». Jack si interrompe, ma non ha bisogno di terminare la frase. Richard sa com’è Stephanie. Stava per dire questo. Ricordo un paio di occasioni in cui Richard ha fatto un commento o ha borbottato qualcosa sottovoce quando la moglie di Jack si è presentata in cantiere dando in escandescenza.
Jack sospira e mi bacia il naso. «Il nostro segreto è al sicuro. Ora, raccontami della tua settimana».
Il nostro segreto. Vorrei tanto che non fosse un segreto. Lascio che Jack mi giri di nuovo prima di cingermi le spalle con gli avambracci, il viso vicino al mio. Rimaniamo così per oltre un’ora mentre gli faccio un riassunto dei miei progetti. Lui svuota la vasca ogni tanto e la riempie di nuovo di acqua calda. Mi ascolta e mi fa domande, e non sembra annoiato nemmeno per un istante. Adoro il fatto che mi lasci parlare senza sosta delle strutture e di roba tecnica e che mi ascolti, dicendo la sua quando ha qualche suggerimento o opinione. E viceversa. Potrei stare ad ascoltare Jack parlare per ore, solo per sentire il suono della sua voce. Solo per sapere che è abbastanza vicino da poterlo sentire.
Una volta usciti dalla vasca e asciugati, ci vestiamo e l’atmosfera cambia visibilmente. Non chiacchieriamo più con altrettanta facilità. Lo guardo mentre mi asciugo i capelli con il phon. È seduto sul divano ad armeggiare con il cellulare, ma la sua concentrazione è altrove e ha un’aria sconfortata. Mi chiedo a cosa stia pensando mentre fissa il vuoto ogni tanto, assorto.
Quando ho fatto e ho raccolto tutte le mie cose, lo raggiungo. «Pronto?».
Si alza lentamente. Lo sforzo è evidente, e il suo corpo sembra appesantito da qualcosa. «Pronto», conferma, infilandosi il telefonino in tasca. Colma la distanza fra noi e mi abbraccia, forse uno degli abbracci più stretti che mi abbia mai dato. «Odio questa parte», sussurra.
Sorrido tristemente. Ha quasi raggiunto il bivio? È sul punto di fare la mossa che getterà la nostra bolla di segreti e beatitudine in un mare di angoscia e dolore? Quello che abbiamo ora è facile. A parte il tempo limitato insieme, è tutto molto facile. Troppo, forse, il che rende ancora più complicato fare il passo che senza dubbio cambierà la situazione. Non so se sono pronta per le ripercussioni.
Quale donna sana di mente sceglie volontariamente una tresca? Quale donna con un minimo di amor proprio e integrità si addentrerebbe in un’esperienza del genere? Una donna innamorata. Ecco chi. Si dice che al cuor non si comanda. Ora ci credo con tutta me stessa.
Ricordo quanto faceva male combattere queste emozioni, allontanare Jack e chiudersi a riccio. Sono così spaventata dall’idea che dica a Stephanie che vuole lasciarla. Mi spaventa che lei lo convincerà a rimanere e a migliorare il loro matrimonio. Che i suoi ricatti emotivi avranno la meglio su di lui. È questo che mi terrorizza più di tutto il resto.
La vedo nella mia mente, isterica e devastata, che lo implora di non andarsene. Ha un coltello in mano, e lo tiene sopra il polso. Mi sento in colpa. Jack si sentirà in colpa. Il rimorso riesce a influenzare le decisioni. È più facile soccombere al senso di colpa e ignorare ciò che dice il cuore.
«Ci vediamo venerdì all’inaugurazione di Colin», dice sottovoce. «Poi andremo da qualche parte, sì?».
Annuisco contro la sua spalla, senza riuscire a sentirmi entusiasta. Venerdì sembra così lontano.
Jack mi tiene fra le braccia, a quanto pare non ancora pronto a lasciarmi andare, quindi mi distacco delicatamente da lui e gli prendo la testa fra le mani, dandogli un bacio sulla guancia. «Ci vediamo», dico, e poi me ne vado, sentendo il suo sguardo fisso su di me finché non mi chiudo la porta alle spalle.
Mantieni la calma, dico a me stessa. Respira. Esco in strada e trovo velocemente un muro a cui appoggiarmi per riprendermi. Non so quanto a lungo posso vederlo soffrire così. Quanto a lungo posso continuare ad andarmene.
«Annie?».
Guardo alla mia destra e vedo Lizzy che si avvicina. «Ehi!». Mi raddrizzo, troppo velocemente, e sembro troppo contenta di vederla. Mi guardo intorno, in preda al panico. «Che ci fai da queste parti?».
Lei mi guarda preoccupata, e io fingo un sorriso per nascondere l’espressione colpevole. «Ho un appuntamento per cena».
«Qui?», le chiedo. Fra tutti gli hotel del cazzo di Londra, ha un appuntamento qui? Proprio a quest’ora?
«Sì, qui». Sorride nonostante l’espressione sempre più corrucciata. «Che ci fai tu qui?»
«Un incontro con un cliente», dico, facendo spallucce. Mi sto comportando stranamente, e lei l’ha notato.
«Stai bene?»
«Sì, sto bene». Oh, cazzo, deve entrare nell’albergo. Che possibilità ci sono che incontri Jack? Non lo so, ma non posso rischiare. Eppure non ho la minima idea di cosa fare.
Proprio in quel momento, vedo Jack scendere i gradini dell’hotel, e nella mia testa gli urlo di girare i tacchi e tornare dentro. Alza lo sguardo e sorride quando mi vede a pochi metri di distanza. Sposto velocemente lo sguardo, nel tentativo silenzioso di dirgli di prestare attenzione a chi è con me.
Inciampa e perde il sorriso. Ma non si accorge in tempo del mio tentativo di avvertirlo, e Lizzy si volta. «Jack?», esclama.
L’espressione di Jack è memorabile. È così dannatamente ovvia, e Lizzy deve aver capito. Come cazzo faccio a cavarmela stavolta? È una coincidenza troppo assurda che sia io che Jack ci troviamo qui, anche se lavoriamo insieme. Perché dovremmo incontrarci qui?
Jack si riprende velocemente. «Ciao, Lizzy. E c’è anche Annie! Andate a mangiare da qualche parte?».
Sono completamente sbalordita dalla sua calma. Come fa? «No», risponde Lizzy lentamente, guardandomi. Io faccio un sorriso teso. «Ci siamo appena incontrate per caso». Mi lancia uno sguardo d’accusa, e io muoio dentro. «Che probabilità ci sono di trovarvi entrambi nello stesso hotel?». Piega la testa da un lato, curiosa.
Io alzo le spalle e con un colpo di tosse mi costringo a racimolare un po’ di energia per sembrare calma. «Come ho detto, mi sono appena vista con un cliente».
Jack si abbottona la giacca. «Scusatemi un momento». Si volta verso il fattorino dell’albergo e gli passa una banconota. «Mia moglie, la signora Joseph, sta per uscire. Per favore, le chiami un taxi quando è pronta».
«Sì, signore». Il fattorino annuisce.
«Grazie». Jack si gira verso di noi, con un sorriso radioso. È così finto. La moglie sta per uscire? Certo, è una bella pensata. Ma non sta per uscire. Lui tira fuori il cellulare dalla tasca e guarda lo schermo. «È stato un piacere rivedervi». Portandosi il telefono all’orecchio, sorride ancora, indietreggiando. «Oh, e siamo ancora nei tempi con i lavori della galleria, Annie. Colin mi ha detto di riferirtelo».
Annuisco mentre Jack si gira per andarsene. Non perdo tempo e cerco di cambiare argomento. «Allora, con chi è l’appuntamento?», cinguetto, iniettando una tonnellata di entusiasmo nel mio tono.
«Oh, farei meglio ad andare. Sono in ritardo». Lizzy, improvvisamente imbarazzata, sale in fretta e furia le scale dell’hotel.
«Ma con chi è l’appuntamento?», le urlo dietro.
Lei mi ignora completamente, non che me ne importi molto. Devo andarmene di qui il prima possibile. «Ti chiamo più tardi!», mi risponde.
Io mi affloscio sul marciapiede, ma mi riprendo subito quando lei si gira. «Venerdì prossimo usciamo», dichiara.
Io avvizzisco, nonostante non sia dispiaciuta di non poter andare, ma ho bisogno che Lizzy lo pensi. «Ho un cocktail party nella nuova galleria di Colin. Se riesco a liberarmi prima ti chiamo». Potrei andarmene in anticipo senza problemi, ma incontrarmi con i miei amici significherebbe non vedere Jack. Posso uscire con loro quando voglio, mentre le opportunità di passare del tempo con Jack sono limitate. Nulla mi farebbe rinunciare a un’occasione del genere.
«Okay, chiamami!». Entra di corsa nell’hotel e io barcollo verso la strada principale, del tutto esausta.
Non so davvero quanto a lungo potrò resistere.