Capitolo 4
La trama delle lenzuola sotto di me non mi è familiare. Né lo è l’odore del cotone. Sento di avere i muscoli tesi quando mi giro, ed emetto un lamento, sentendo dolore dappertutto mentre batto le palpebre torpidamente. Aggrotto la fronte, poi faccio subito una smorfia quando mi muovo ancora, provando a mettermi seduta. Dove diavolo sono?
Un respiro profondo e assonnato penetra nella mia confusione e abbasso lo sguardo, vedendo il corpo nudo di un uomo. Studio la distesa di muscoli, arrivando fino alla sua faccia straordinaria.
«Oh, mio Dio», sussurro. Una faccia così bella, con la barba ispida, le ciglia lunghe. Ha le labbra leggermente aperte, e un braccio perfetto e muscoloso disteso sopra la testa, lungo il cuscino bianco.
Jack.
Flashback.
Così tanti flashback. Contro la finestra, sulla scrivania, seduti sul bordo del letto, io a cavalcioni, Jack sopra di me. Lui che mi guarda. Le sue risate quando gli ho accarezzato la schiena. Le sue parole. I suoi baci. E poi ancora il sesso esplosivo – nella doccia, contro la porta del bagno, di nuovo nel letto. Mi tocco i capelli e li sento umidi, poi stringo le cosce, facendo una smorfia per l’indolenzimento.
Niente preservativo.
Che cazzo ho fatto? È un estraneo. Un perfetto sconosciuto. Il fatto che Jack mi sia sembrato tutto tranne uno sconosciuto nel tempo in cui ci siamo esplorati l’un l’altra è ora dimenticato. Quel legame è perso in un mare di pentimento.
Uno sguardo veloce all’orologio sul comodino mi dice che sono le 4:15. Il sole sta sorgendo.
Mi muovo silenziosa come un gatto verso il bordo del letto e nella luce soffusa cerco il vestito sul pavimento, e lo trovo vicino alla finestra. Cammino in punta di piedi sulla moquette, tesa dalla testa ai piedi, il che non è un sollievo per i miei muscoli dolenti. Cristo, mi sento come se fossi stata investita da un cazzo di autobus. Mi affretto a entrare nel vestito, infilando i piedi nelle scarpe con i tacchi e prendendo al volo biancheria e borsa.
Poi, come se rischiassi di essere colpita da un fulmine al minimo rumore, sgattaiolo fuori dalla stanza – la stanza per cui Jack ha pagato cosicché potessimo scopare – rabbrividendo mentre chiudo piano la porta. Corro come una pazza lungo il corridoio verso l’ascensore e premo il pulsante, e quando le porte si aprono, vengo colpita da altri ricordi. Premuta contro la parete della cabina, lui mi bacia con una passione folle, e la mia espressione è di pura estasi.
Metto fine bruscamente a questi pensieri e mi fiondo nell’ascensore.
Ho scopato uno sconosciuto del cazzo.
Entro in casa e mi faccio immediatamente una doccia. L’acqua calda che lava via le prove di quell’incontro imprudente è di poco conforto. Non posso lavare via i ricordi dalla mente. Dubito che ci riuscirò mai. I muscoli protestano a ogni movimento che faccio mentre mi insapono il corpo senza sosta, lasciando che l’acqua scorra potente, più calda di quanto riesco a tollerare di solito.
Contro la finestra. Il suo corpo enorme e vigoroso che mi toccava ovunque.
Scuoto la testa e mi insapono più forte, concentrandomi sul mio bisogno ossessivo di strofinarmi fino a sanguinare. Mi sento sporca. Mi vergogno di me stessa per essere stata così irresponsabile. Quel che è peggio, mi sento sopraffatta dal legame che abbiamo condiviso, le sensazioni ancora vive, come se potesse essere qui nella doccia con me ora.
Sulla scrivania. L’espressione nei suoi occhi grigi.
Stringo la spugna e digrigno i denti, lanciandola sul pavimento della doccia prima di afferrare lo shampoo e versarmene un po’ in mano. Mi metto le dita fra i capelli e li insapono, intensamente, velocemente e furiosamente.
Intensamente, velocemente e furiosamente. La sensazione di lui che mi prende con così tanta energia.
Strillo e mi lascio cadere con la schiena al muro, i muscoli doloranti si piegano e mi fanno scivolare fino al pavimento della doccia. Rimango seduta e rivivo ogni singolo secondo pazzesco e intenso che ho passato con Jack mentre fisso il soffione che mi riversa l’acqua addosso. Posso solo sperare che una volta aver rivissuto la scena per intero dall’inizio alla fine, la mia mente si placherà e sarà abbastanza soddisfatta da concedermi di dimenticare Jack. Di dimenticare l’uomo che per un istante mi ha dirottato dalla vita reale.
Riconosco queste lenzuola. La sensazione, l’odore. Mi giro con un sibilo. Il dolore sembra essere solo peggiorato. Il telefono segna le 9:30. Dopo essermi torturata nella doccia con l’acqua calda e i ricordi, mi sono arrampicata sul letto e mi sono abbandonata al sonno, sebbene i sogni non siano stati di molto conforto. Ho visto quegli occhi grigi, ho udito quella voce vellutata, ho sentito quelle labbra morbide e quel corpo creato per peccare. Solo una scappatella. È stata solo una scappatella.
Dalla cucina arriva il suono di uno schianto, e mi drizzo a sedere.
«Chi c’è?». Salto giù dal letto e mi infilo una maglietta.
«Merda!». L’imprecazione di Micky mi calma un poco, ma mi dà anche da pensare. Cosa ci fa qui così presto di domenica? Vado in cucina e lo trovo inginocchiato sul pavimento, intento a raccogliere il caffè macinato. In mutande.
«Che stai facendo?», domando, passando sopra al pasticcio per prendere la paletta per la spazzatura.
«È per questo motivo che vado da Starbucks», borbotta, guardandomi. Non ha più lo chignon, e i capelli biondi che gli arrivano alle spalle sono una zazzera ingarbugliata. Stringe gli occhi sospettoso da dove è rannicchiato, canticchiando fra sé e sé. «A che ora sei tornata, sporcacciona?».
Indietreggio, calpestando il caffè. «Uhm…». Deglutisco e mi guardo alle spalle, sentendomi in colpa. «Chi c’è sul divano?», esclamo incredula quando noto che qualcosa si muove sotto la pila di coperte in salone. Mi volto e vedo che Micky si sente tanto in colpa quanto me pochi secondi fa.
«Ah… be’… vedi…». Si alza e indica con la paletta, pensando intensamente.
«Ti ho dato una chiave di scorta per le emergenze!», scatto, arrabbiata. «Scopare non è un’emergenza!».
«Sono venuto per assicurarmi che fossi tornata a casa sana e salva!», ribatte, gonfiando il petto. «Allora, a che ora sei tornata?».
Faccio un breve calcolo a mente. Li ho infilati tutti in un taxi a mezzanotte e mezza. Per arrivare qui ci avrebbero messo mezz’ora. Micky e Lizzy erano ubriachi fradici; non penso l’abbiano fatto per…
Smetto subito di pensare. «Lizzy!», strillo, voltandomi di scatto. Lei alza la testa da sotto le coperte, con i capelli arruffati e gli occhi strizzati.
«Ehi», gracchia, prima di tuffarsi di nuovo sotto le coperte per nascondersi.
Stringo i denti e mi giro lentamente verso quella sgualdrina del mio amico con uno sguardo torvo. Sembra imbarazzato. Bene. «Che stronzo».
«Ieri sera non te ne fregava così tanto!», protesta, tornando a pulire il pavimento mezzo nudo e raccogliendo altro caffè. «Perché eri troppo occupata a piegarti a novanta!». Mi lancia uno sguardo disgustato e io appassisco sul posto, evitando i suoi occhi accusatori. «Vuoi dirmi a che ora sei tornata o no?»
«Alle due», mento, camminando con passo pesante fino alla credenza e aprendola di scatto per prendere una tazza – la più grande che trovo.
«Ero sveglio alle due».
«Le tre, allora. Non me lo ricordo. E non penso che tu sia il più adatto a giudicare», gli faccio notare scocciata, mettendo su la teiera.
«Sono un uomo, Annie. So badare a me stesso. Tu non avevi idea di chi fosse».
«Sono ancora tutta intera, no? E non mi pare di averti visto corrermi dietro. Oh, no! Perché eri troppo occupato a trovare un modo per farti Lizzy. Lizzy, cazzo!».
«Sì?». La sua testa sbuca dalle coperte, sbattendo le palpebre per mandare via il sonno.
«Niente», urliamo noi all’unisono, e lei si ritira nuovamente sotto le coperte con la coda fra le gambe.
«Ha appena lasciato Jason! Flirtare va bene, ma…».
«Eravamo ubriachi». Micky mi guarda di nuovo con un’espressione scocciata. Io ricambio mentre gli passo davanti e chiudo la porta della cucina, stringendo forte il manico della tazza vuota. Sto tremando, e ora che ho smesso di urlare sento di nuovo dolore. Dappertutto. Fa un male cane.
L’espressione di Micky da arrabbiata diventa preoccupata quando mi squadra da capo a piedi. «Stai bene?».
Cado a pezzi. Sbatto la tazza sul ripiano e mi copro la faccia con le mani e piagnucolo come una ragazzina drammatica. Non piango mai. Mai. Nemmeno quando so che sarebbe opportuno versare una lacrima, come alla fine dei film più sdolcinati, o quando mia madre si è messa a piangere quando partii per l’università.
Io. Non. Piango.
«Ehi!». Micky si materializza accanto a me, abbracciandomi le spalle con le sue braccia forti e coccolandomi. Non penso che l’abbia mai fatto, tranne forse una volta quando avevamo quindici anni e il mio coniglio era morto. «Che è successo, Annie? Dimmelo».
«Niente», singhiozzo, scuotendo la testa contro di lui. Non so che cosa mi sia preso. È una situazione ridicola, ma non riesco a mandare via i ricordi, né posso dimenticare le emozioni incredibili che Jack ha suscitato in me. È assurdo, ed è così frustrante, cazzo.
Micky mi dà qualche bacio in testa prima di staccarmi dal suo petto e guardarmi con le mie guance bagnate dalle lacrime. «Ti ha fatto qualcosa?»
«No», lo rassicuro. «È stato solo…». Mi interrompo, non sapendo come descriverlo. «Intenso. Non lo so. Una sorta di stupida connessione. Intesa. Come cavolo la vuoi chiamare». Mi strofino la faccia, tiro su col naso e mi riprendo dalle emozioni stupide e fuori luogo, e rido. «Gesù, ci siamo scolati un sacco di alcol ieri sera, eh?».
Micky ride piano e indica con il pollice la porta della cucina dietro di sé, nella direzione di Lizzy. «Penso proprio di sì».
Alzo gli occhi al cielo. Conosco quell’espressione. È la sua espressione da perché-cazzo-l’ho-fatto? Spero solo che Lizzy se ne penta quanto Micky e che fra tutti noi non ci sia imbarazzo. «Ho bisogno di bere caffè», sospiro, sollevando la tazza. «Per favore, fammene uno».
«Ti faccio un caffè», acconsente, prendendo la tazza e dandomi una pacca sul culo mentre mi giro per aprire la porta.
Mi avvicino al divano e alla mia amica nascosta, sedendomi sul bordo e schiacciandole i piedi, anche se non emette un suono né muove un muscolo. «Sai, sei comunque sul mio divano a casa mia, con Micky in cucina, indipendentemente da quanto tempo rimani nascosta lì sotto».
Silenzio.
Punzecchio lì dove immagino sia la sua testa.
Nessun movimento.
Alzando gli occhi al cielo, afferro la coperta e la tiro via, lasciando Lizzy… completamente nuda.
«Ehi!», strilla, riconquistando la coperta per coprirsi di nuovo.
«Scusa!». Ridacchio. «Ma non è niente che non abbia già visto, e ora non è niente che Micky non abbia già visto».
Sistema il tessuto sotto il mento, guardandomi con la coda dell’occhio mentre perde tempo e traffica con la stoffa, prendendosi tutto il suo dannato tempo. «Sei arrabbiata con me?», dice con il broncio.
Scuoto la testa, appoggiando la schiena sui cuscini. Come posso esserlo? È in lutto. «Sei una scema».
«Lo so». Concorda tranquillamente. «Allora». Inclina la testa. «Che è successo?».
Non la guardo, temendo che possa vedere l’intero incontro illecito nei miei occhi. «Ho bevuto con lui».
«Ha del potenziale?»
«No». Rido, ma smetto subito, pensierosa.
Micky entra nella stanza e mi porge la tazza gigante, lanciandomi uno sguardo. Scrollo le spalle e prendo il caffè mentre lui dà un’altra tazza a Lizzy.
«Signore», dice, tornando in cucina trotterellando. Temo il peggio quando Lizzy gli guarda il culo per tutto il tragitto. Non la biasimo. Ha un gran bel culo. E schiena. E pancia. E gambe. «E allora perché hai pianto?», mi chiede, indirizzando la sua attenzione nuovamente su di me.
«Sono stanca», mormoro. «Sbronza, ho fame e ho bisogno di caffeina». Mi sto scolando il caffè con ferocia, quando sento il telefono squillare in camera mia. Il pensiero di muovere i muscoli per alzarmi dal divano è una ragione abbastanza buona per rimanere ferma. Perciò lo lascio squillare. Dieci secondi dopo, Lizzy rovista nella sua borsa per trovare il suo. Guarda lo schermo e me lo lancia sul divano, e io vedo il nome di Nat che lampeggia minaccioso. Guardo Lizzy. Sembra compiaciuta. «Potrei aver accennato a un qualche uomo quando l’abbiamo accompagnata a casa col taxi».
Magnifico. «Perché mi guardi così?», le chiedo imbronciata. «Non pensi che voglia sentire la tua storia?». Indico la cucina e Lizzy si tuffa di nuovo fra le coperte.
«Pronto». La mia voce è vivace e allegra.
«Sputa il rospo, bellezza. E dove cazzo è Lizzy?»
«Non c’è niente da sputare», rispondo automaticamente, decidendo di non parlarne mai più. Mai più. «Ho bevuto qualcosa con lui». Tutto qui, e quando Micky mi guarda e sorride, so che manterrà il segreto. «E Lizzy ha dormito sul mio divano».
«Con?»
«Nessuno». Mento di nuovo. Non posso tirare in mezzo anche Micky ora. Nat non ne sarebbe colpita.
«Dov’è Micky?»
«A casa sua, immagino». Sto andando alla grande, ma proprio quando penso di avergli risparmiato le ramanzine di Nat, lui inciampa sul nulla e fa volare il suo caffè.
«’Fanculo!», grida, saltando in cucina. «Figlio di puttana, quanto cazzo bruci!».
Mi accascio sul divano. «A casa sua, immagini?», mi chiede Nat stanca. «Vengo lì. Dico davvero! Che cazzo avete combinato tutti quanti?»
«Portaci il caffè di Starbucks!», le urlo proprio quando chiude la chiamata.
Poltriamo tutto il giorno. Sparpagliati in salone, guardiamo programmi spazzatura e mangiamo cibo da post-sbornia. È il club del mal di testa. Seduta sul divano, accoccolata a un’estremità, con i piedi che penzolano dalle spalle di Micky seduto sul pavimento, divento sempre più frustrata dalla mia incapacità di svuotare la mente dagli eventi della notte passata. Non so quante volte ci ripenso. Ancora e ancora, volta dopo volta, finché non decido di andare a prendere un po’ d’aria.
Senza fare rumore, esco in giardino, respirando profondamente per ritrovare la ragione. O almeno ci provo. Mi chiedo a che ora si è alzato. Mi chiedo che cosa ha pensato. Mi chiedo se si è sentito sollevato quando ha visto che me ne ero andata, oppure se è rimasto deluso. Le domande mi stanno facendo impazzire.
Una scappatella. Tutto qui. So come funzionano. Ma con un uomo con cui ho parlato per mezz’ora? E in un hotel? E senza protezione? Devo aver perso la testa. Però qualcosa di Jack ha fatto sì che la perdessi facilmente. Mi ha tolto la ragione. Mi ha fatta arrendere a lui. Non è proprio da me, e per di più non lo è neanche tutta questa maledetta analisi interiore.
Guardo il cielo. Me ne sono andata da quella stanza di hotel per una ragione. Il problema è che non so quale fosse. Sono uscita in un batter d’occhio, spinta dall’istinto. Sarebbe facile da accettare se per me non ci fosse stato nulla – nessuna scintilla, nessuna connessione, nessuna intesa. Ma c’è stata una scintilla. C’è stata intesa. C’è stata una connessione profonda e inspiegabile. E mi ha spaventata. È l’unica spiegazione del perché sono scappata via.
«Datti… una cazzo… di calmata… donna», dico lentamente, colpendomi la fronte con il palmo della mano. Andarmene prima che si svegliasse è stata la decisione migliore. Niente imbarazzo mattutino. Niente domande sul futuro. Semplice. E allora non capisco perché la mia mente stia cercando di rendere il tutto una complicazione inutile.
Devo smetterla con questa sciocca ossessione, perché a nessuna donna farebbe bene un uomo così dotato e così bello. È per questo che sono scappata.
Torno dentro casa e corro in bagno per controllare lo stato della mia faccia, strofinandomi le guance. Sono ancora arrossata. Sembra perfino che abbia appena scopato. Scuotendo la testa, vado a prendere la borsa dal letto per tirare fuori il cellulare, e mentre lo cerco esito quando poso la mano su qualcos’altro. La tiro fuori e fisso il tappo di bottiglia di Budweiser al centro del palmo.
Qualcosa per ricordarmi di lui.
La notte scorsa passerà veramente alla storia. Alla mia storia. È stata una notte memorabile, e mi rattrista il fatto che ora questo è tutto ciò che mi resta per non dimenticarla. Ricordi. E un tappo di bottiglia.