Capitolo 27
«Stephanie», sussurro, facendo qualche passo indietro per lo shock.
«Ehi, Annie». Mi sorride luminosa e… normale? Sembra anche normale. Pacata e… normale. «Sentivo di dovermi scusare per l’altra sera». Sistemandosi la borsa sulla spalla, entra in casa senza aspettare il mio invito.
Non sa di me, ricordo a me stessa. Comportati normalmente! Guardo la strada, consapevole che Jack potrebbe tornare da un momento all’altro e sconvolgere la situazione.
«Come stai?», le domando per riempire il silenzio, perché non ho la minima idea di cosa dire.
«Benissimo!».
Benissimo? Sembra normale. Dice di stare benissimo. Che cazzo mi sono persa? «Fantastico…». Sorrido imbarazzata. Devo mandarla via. «Stavo giusto per uscire», dico nella maniera meno offensiva possibile.
«Oh, non ti trattengo». Mi sorride e giuro che per una frazione di secondo le cadono gli occhi sulla mia pancia. No. Sono paranoica. Lo stress mi sta giocando un brutto scherzo. «Non ti trattengo. Jack tornerà presto a casa dal lavoro».
Davvero? Rimango senza parole. «Avete sistemato le cose?». Provo a non porla come una domanda, ma la voce alta e stridula mi tradisce.
«Sì, non te l’ha detto?».
Indietreggio. Perché dice così? Perché pensa che Jack me l’abbia detto? «Non l’ho visto».
Lei sorride di nuovo, stavolta, però, con una sfumatura malvagia che certamente non sto immaginando. Non sono paranoica. «Pensi che sia stupida?», mi chiede, facendo un passo avanti.
Svuoto i polmoni con un respiro tremolante. Devo negarlo. Negare tutto. «Di che stai parlando?». Rido. È una risata nervosa e a lei non sfugge.
«Hai fatto finta di essermi amica per tutto questo tempo?».
Indietreggio ancora, consapevole di quanto sia precaria la situazione. Sembra calma, ma le sue parole raccontano un’altra storia. Ho fatto finta di esserle amica?
Sembra instabile. Mi guarda di nuovo la pancia, e si tocca la sua con una mano. Sorride affettuosamente accarezzandosi il ventre, piano, con gli occhi infossati e inquietanti.
«Sei sempre stata tu. Sei una puttana patetica, Annie», riflette piano, guardandomi negli occhi. «Non mi lascerà mai».
Mi si raggela il sangue. Non devo assolutamente confermare i suoi sospetti. Devo fare la finta tonta. Mantenere la calma. «Stephanie, non so di cosa parli».
Lei tira su col naso, osservandosi il polso. Sta decidendo dove fare il taglio.
«Non funzionerà», sbotto, perdendo il controllo della bocca e combattendo la rabbia che la sua allusione ha risvegliato. «Non un’altra volta».
Alza le sopracciglia, sorpresa. «Come scusa?»
«Me l’ha detto», confermo. È troppo tardi ora. «Mi ha detto tutto».
Storce le labbra. «Domani sarai già un lontano ricordo, puttana vendicativa. Tu e quel bastardo di tuo figlio. Un’imprudenza irrilevante. Tutto qui».
Voglio urlarle in faccia, dirle che lui mi ama, ma qualcosa mi trattiene. Non è la rivelazione improvvisa che ho a che fare con una donna che non ci pensa due volte prima di attaccare il marito, e che quindi non si farà problemi ad attaccarmi con quegli artigli. È la rivelazione improvvisa che sa della mia gravidanza. Chiudo la bocca e indietreggio. Mi ha guardato la pancia. Nessun altro sa che sono incinta. Solo Jack e Lizzy.
«Come fai a sapere che sono incinta?».
Mi lancia uno sguardo torvo. «Me l’ha detto Jack».
«No, non è vero». Jack non lo farebbe mai, non quando lei è così instabile. Non le ha nemmeno detto di me. Eppure lo sa. E sa che sono incinta del figlio di suo marito.
Mi sto scervellando, e faccio velocemente un passo indietro quando un pensiero insano e inquietante si fa strada dalle profondità della mia mente. Ricordo la sera in cui Stephanie si è presentata inaspettatamente alla mia porta, in cerca di un’amica dopo esser stata lasciata da Jack. Ha usato il mio bagno. Ha attraversato la camera per andare in bagno. La borsa grande di pelle era sul letto. Il test di gravidanza era nella borsa.
I miei pensieri sembrano assolutamente folli. Ma d’altra parte, questo è Stephanie, ed è una pazza certificata. Faccio uno scatto in salone per prendere la borsa da dove Jack l’ha lasciata, rovistando dentro alla ricerca del test. Per tutta la settimana ho usato questa borsa. Non mi pare di averlo più visto qui dentro. Dov’è?
La rivolto, svuotandone il contenuto sul pavimento ed esaminandolo. Niente test. Poi rovisto nelle tasche interne, per controllare che non si sia infilato in una di esse. Niente.
Mi manca il respiro e alzo immediatamente lo sguardo, vedendo Stephanie sulla soglia del salone, che mi guarda mentre cerco freneticamente. Sa cosa sto cercando. Non sto impazzendo.
«Mi hai rubato il test dalla borsa», lancio l’accusa tutto d’un fiato, sbalordita. «L’hai preso e gli hai detto che era tuo».
«Stai lontano da lui!», grida, sbattendo il pugno sullo stipite. L’impatto le scheggia le nocche, e la forza del colpo rimbomba nell’appartamento. «Mi senti!», ruggisce, stringendo il pugno. «Ammazzerò te e quel bastardo di tuo figlio! Non credere che non lo farei!».
Vedo i graffi sul collo di Jack. Il segno sul suo zigomo. Lo stato della sua schiena. E poi vedo tutto rosso dalla furia ma riesco a mantenere la calma prima di ricambiare il favore e farla a pezzi. «Non puoi farmi del male, e non puoi più fare del male a Jack».
Sgrana gli occhi, impazzita, e mi salta addosso, cogliendomi alla sprovvista. Mi trascina nel corridoio e mi sbatte contro il muro. Senza più aria nei polmoni, non ho la possibilità di riprendere fiato prima che la sua mano mi colpisca la guancia. Il dolore mi spezza in due, e lei continua ad attaccarmi, ancora e ancora. «Te la sei cercata!».
A ogni colpo, combatto attraverso il caos per difendermi. Tengo le braccia strette sul ventre, disposta ad accettare la sua rabbia su ogni altra parte del corpo. Ma poi le sue dita mi afferrano i polsi per provare a scoprirmi.
Vedo un bambino. Un bambino indifeso che conta su di me per essere protetto.
Con una forza improvvisa, la spingo via violentemente. Colpisce con violenza la parete opposta, ma non le do l’opportunità di riprendersi. Spalanco la porta d’ingresso e la prendo per i capelli. Il mio unico scopo è mettere una barriera fra noi. Ho un istinto omicida, e l’adrenalina mi scorre nelle vene.
«Ti ammazzo!», strilla. «Te la farò pagare per aver provato a portarmelo via!».
Io non le urlo niente contro. Non grido e non ululo, e non tento di ferirla. Mi concentro solamente sull’allontanarla da me. Mandarla via prima che faccia del male a entrambe.
Uso tutta la mia forza per spingerla fuori. Sbattendo la porta, mi accascio contro il legno, ansimando. Mi aspetto che inizi a battere i pugni, ma non sento nulla. Corro in salone e prendo il telefono prima di scattare verso la finestra. La vedo ferma sul marciapiede.
«Oh, mio Dio», sussurro quando gli occhi mi cadono sul polso sul quale tiene un coltello. «Stephanie, no!». D’istinto, corro di fuori per fermarla. «Stephanie, ferma!». Incrocio il suo sguardo e noto la determinazione nei suoi occhi blu mentre mi avvicino. Lo farà. Non ho alcun dubbio. Scatto in avanti, pronta a buttare via il coltello o ad afferrarlo; non sono sicura di quale delle due opzioni sia meglio. So solo che devo fermarla.
Non si muove, non prova a scappare. No. Al contrario, sorride e mi punta il coltello contro. Il mio cervello impiega qualche secondo di troppo a registrare cosa sta facendo, confuso dal suo sguardo pericoloso. Ordino alle mie gambe di smettere di correre, di fermarsi prima che sia troppo tardi.
Ferma!
«No!», grido, arrestandomi e arcuando il corpo, con la pancia ritirata il più possibile per evitare la lama quando lei carica.
«Puttana!», urla. «Non lo avrai!». I nostri corpi si scontrano, e io cado di lato con un grugnito. Ansimo e mi tocco il ventre, cercando il sangue. Non vedo nulla. Niente di ovvio, ma non rimango a guardare. Non ho il lusso del tempo. Torno di corsa dentro casa, più che consapevole del danno che potrebbe farmi se non riesco a sfuggirle. Chiudo la porta a chiave e corro alla finestra, respirando pesantemente.
Non c’è traccia di lei. Ricontrollo velocemente l’addome e mi blocco, in attesa che inizi il dolore. Niente. Scoppio in lacrime dal sollievo mentre prendo il telefono e chiamo Jack, tornando alla finestra per cercarla.
«Ehi, piccola», risponde felice. Contento.
«Stephanie è venuta qui!», grido con urgenza, esausta, il respiro affannato. «Jack, ha un coltello. Mi ha attaccato con un coltello».
«Cristo!», dice con la voce strozzata, e nel sottofondo il suono del motore si fa più forte quando lui spinge il pedale dell’acceleratore. «Dove sei?»
«Dentro casa. L’ho buttata fuori e mi sono chiusa dentro».
«Sei ferita?»
«Niente di grave».
«Niente di grave
«Qualche graffio, tutto qui». Mi guardo il braccio e vedo i segni delle sue unghie, proprio come quelli sul corpo di Jack. «Non è incinta, Jack. Ha rubato il test di gravidanza dalla mia borsa». Torno a guardare fuori dalla finestra, spostando lo sguardo a destra e a manca, cercandola all’esterno. Se ne è andata.
«Cosa?»
«Il test di gravidanza. Era mio».
«Ma l’ha fatto mentre ero presente».
«L’hai vista? Sul gabinetto?». Sembra una domanda stupida, ma avrebbe potuto scambiarli.
Lui rimane in silenzio prima di sussurrare: «No. Era in bagno. Io ho aspettato fuori».
Chiudo gli occhi, portandomi una mano alla guancia per premere sul bruciore. «Era mio». Ripeto piano. «Sa che sono io. E sa che sono incinta».
Lo sento fare un respiro profondo. «Chiama la polizia. Sono proprio dietro l’angolo. Non aprire la porta finché non arrivo». Attacca prima di aspettare la mia conferma, e io guardo la strada dalla finestra mentre chiamo il 112 e mi porto il telefono all’orecchio. Quando vedo la sua Audi girare l’angolo, quasi mi cedono le gambe dal sollievo.
«Emergenza. Quale servizio le serve?»
«Polizia».
Jack si fionda in un posto libero dall’altra parte della strada e salta fuori dall’auto, girando velocemente intorno alla macchina per attraversare la strada. Ma si ferma bruscamente, guardandosi le spalle quando qualcosa attira la sua attenzione. Il cuore mi si ferma mentre lui torna indietro, prestando attenzione a qualcosa. O qualcuno. Non vedo: c’è un furgoncino che mi blocca la visuale, ma non ho bisogno di vedere. Lei lo starà aspettando.
«Jack!», urlo, battendo sulla finestra. «Ha un coltello!».
Lui non si gira verso di me. Non mi può sentire. Piango mentre lascio cadere il telefono, poi corro alla porta e la apro, uscendo di corsa.
«Jack!», grido freneticamente. Lui mi guarda con la fronte aggrottata mentre mi precipito in strada proprio quando qualcuno sbuca da dietro il furgoncino. Ma non è Stephanie.
Il mio cervello registra vagamente la presenza di Lizzy con i suoi occhi spalancati che mi guarda correre verso di loro, e la mia mente frena, come le gambe, rallentando finché non mi fermo, confusa. Guardo Lizzy, poi Jack. Lui è immobile, con la bocca leggermente aperta mentre guarda un po’ più in là lungo la strada. È in quel momento che sento lo stridore degli pneumatici.
Mi volto lentamente e vedo una macchina correre verso di me.
«Annie!», ruggisce Jack. Sento le sue scarpe colpire il cemento mentre l’auto si avvicina sempre di più.
«Annie!».
Sono una statua.
«Annie, spostati!».
La supplica isterica di Jack è l’ultima cosa che sento.
Le ossa, la carne, la testa… gridano tutte al primo impatto.
Ma io non sento nulla.