Capitolo 23
Lo sconforto che mi
assale non appena apro gli occhi potrebbe farmi perdere di nuovo i
sensi se glielo permettessi. Jack se ne è andato. Mi giro nel letto
e fisso il cuscino sul quale si è riposato la scorsa notte, il
calore del suo corpo è ancora intrappolato nel letto. Faccio
scivolare la mano lungo le lenzuola e sul cuscino, sentendo il suo
calore e ricordando a me stessa che è uscito da poco. La parte di
me bisognosa d’affetto lo odia per essersene andato senza
svegliarmi. La parte più ragionevole, però, sa che ha fatto la
scelta migliore. Non penso che lo avrei lasciato andare. Glielo
dirà oggi.
Sarebbe facile nascondermi
sotto le coperte per tutto il giorno, ma me le tolgo di dosso e
scendo dal letto. Vedo un biglietto appoggiato alla lampada sul
comodino. Lo prendo con due dita e leggo.
Non andare da nessuna parte
x
Non intende letteralmente,
nel senso di non uscire di casa. Intende dalla sua vita. Mi porto
il foglio al naso e inspiro, promettendogli silenziosamente che non
andrò da nessuna parte. Poi lo poso sul comodino e vago per
l’appartamento, determinata a bermi un caffè prima di farmi la
doccia e affrontare la giornata. Il mio piano è semplice: chiudermi
nello studio per tutto il giorno e perdermi nel lavoro.
Dopo essermi infilata un paio
di jeans strappati, la maglietta degli U2 e le infradito, entro nel
mio ufficio e mi siedo alla scrivania. E fisso lo schermo vuoto.
Per un’eternità. Giocherello con la penna per dieci minuti poi mi
metto a scarabocchiare su un foglio. Inizio a scrivere almeno una
decina di email e provo a rispondere ad altre venti. Scarabocchio
ancora un po’ e alla fine poso la penna, poggiando i gomiti sul
tavolo, con il viso fra le mani. Non può funzionare. Afferro il
portatile e la custodia, mi metto un foulard intorno al collo e
chiamo Lizzy mentre esco di casa. Mi risponde dopo due squilli.
«Ehi», mi saluta mogia.
«Ehi», dico altrettanto,
arrivando al marciapiede. «Come stai?», le chiedo, non sapendo che
altro dire. È evidente la tensione fra noi, e lo detesto.
«Non ho dormito molto»,
ammette con franchezza. «Nat mi ha fatto compagnia per un’oretta.
Chiedeva di te».
«Gliel’hai detto?»
«No. Non spetta a me, Annie.
Questa situazione non mi piace, ma so che è molto delicata. Il tuo
segreto è al sicuro».
Raggiungo la strada
principale e chiudo brevemente gli occhi, vergognandomi di me
stessa. Fa sembrare quello che c’è fra me e Jack una cosa oscena, e
non posso controbattere. «Grazie».
«Dove sei?»
«Vado da Starbucks».
«Di già? Sono le otto di
domenica mattina».
«Dovevo uscire», ammetto,
senza trattenermi. «Oggi Jack dirà a Stephanie che tra loro è
finita. Non so quando, ma non posso stare a casa tutto il giorno a
pensare».
«Capisco», dice con un tono
piatto. «Le dirà di te?»
«No».
«Allora che intende dirle?
Vorrà una spiegazione».
Mi guardo i piedi, odiando la
sua freddezza, ma consapevole che non posso aspettarmi di più. Mi
avrà anche abbracciato quando sono crollata ieri sera, ma non era
segno che sarebbe stata felicissima per me. «Il matrimonio era già
finito prima che arrivassi io, Lizzy», dico con la voce
tremante.
«È ovvio, Annie. Altrimenti
Jack non sarebbe andato in cerca di altro».
«Non cercava nulla»,
controbatto, senza malizia ma con quanta più fermezza riesco a
trovare.
«Sarà. Il punto è che molti
matrimoni sono in crisi, ma la promessa di matrimonio è nella buona
e nella cattiva sorte. Si rinuncia a tutti gli altri».
Mi fermo in mezzo alla
strada. «Esiste anche un voto che dichiara tollerabile l’abuso
fisico? Bisogna promettere di non graffiare il proprio marito o
prenderlo a ceffoni in faccia?».
Non mi risponde, e io
sospiro.
«Lizzy, non ti ho chiamato
per parlare di questo».
«E io non ti ho risposto per
darti delle rassicurazioni», replica, facendomi trasalire. Mi fa
anche riempire gli occhi di lacrime. Le asciugo bruscamente e provo
a non tirare su col naso e piagnucolare per farle sentire la mia
tristezza. Non cerco compassione; ho solo bisogno della mia amica.
E non penso che lo sia più.
«Capisco», sussurro,
chiudendo la chiamata. Il telefono mi scivola via dall’orecchio
nella mano e il braccio mi cade lungo il fianco. Le lacrime
scendono libere sulle guance mentre riprendo a camminare, e
percepisco su di me lo sguardo di alcune persone mentre
passo.
E accetto che il mio mondo
con solo una parte di Jack deve essere demolito lentamente prima di
essere ricostruito. Con lui. Con tutto
lui.
Con un caffè in mano, cammino
fino a Hyde Park. Percorro l’intero perimetro prima di entrare da
un cancello su Park Lane, diretta verso il Serpentine. Vedo Micky
in lontananza, accovacciato in cima a una collinetta, intento a
urlare incoraggiamenti a un tizio che sta facendo le flessioni con
uno zaino in spalla. Mi siedo su una panchina e guardo l’intera
sessione di allenamento, poi rimango dove sono per un’altra ora a
guardarlo mettere alla prova un’altra cliente – stavolta è Charlie.
Quando hanno finito, lei lo abbraccia e lui ricambia il gesto.
Sembra così affettuoso, qualcosa che non si addice a Micky. Non
quando si tratta delle sue conquiste, ad ogni modo. Non può essere
già riuscito a portarsela a letto. Sta battendo la fiacca; sono
mesi che la fa allenare ormai.
Non ho intenzione di attirare
la sua attenzione, ma quando si gira, diretto verso di me, mi rendo
conto che probabilmente si era accorto fin dall’inizio della mia
presenza. È tutto sudato, i muscoli delle braccia lucidi sotto il
sole di metà mattinata mentre si avvicina a me. Con un sorrisetto,
mi si siede accanto senza dire una parola. Rimango in silenzio
anch’io. Sono spaventata a morte che si ripeta il dialogo avuto con
Lizzy. Perderò tutti i miei amici
mentre lotto per avere Jack?
Sento che mi prende la mano e
me la stringe gentilmente, e vedo che fissa un punto davanti a sé.
Abbasso lo sguardo sulle nostre mani strette nel suo grembo. Non
parliamo per un’eternità, fissando entrambi i prati verdi di Hyde
Park mentre il mondo va avanti.
Dopo un’era di parole taciute
fra noi, si alza in piedi e si china per baciarmi la fronte. «Sono
qui», dice, e io lo guardo negli occhi: non sono in grado di
sorridere o ringraziarlo, ma mi assicuro che vi legga tutta la mia
gratitudine. Sono nuovamente pieni di lacrime, e lui sospira mentre
ne asciuga una. Poi se ne va, lasciandomi da sola sulla
panchina.
Nell’ora seguente tre persone
si siedono accanto a me. Un signore anziano per riposarsi, un altro
uomo per mangiare un panino, e infine un corridore per fare
stretching. Si fermano tutti e poi se ne vanno per continuare le
loro vite. Probabilmente vite semplici. Vite non macchiate
dall’inganno e dal dolore e dal senso di colpa.
Una donna sulla panchina
opposta mi sorride mentre sistema il figlio nel passeggino. Io
ricambio il sorriso prima di alzarmi e incamminarmi. Non so dove
sto andando, ma tengo un passo sostenuto. Poi rallento, e così la
mia mente, finché non mi fermo in mezzo al sentiero. Mi giro
lentamente, guardando la donna spingere il passeggino verso di
me.
La possibilità che sia
successo mi colpisce come un fulmine che mi attraversa e mi fa
rivoltare lo stomaco dal terrore. Rovisto nella borsa con le mani
tremanti, in cerca del cellulare. Quando alla fine lo trovo, premo
le icone sbagliate una dozzina di volte in preda al panico, nel
tentativo di aprire il calendario. Impiego pochi secondi per
contare le settimane. Poi vengo assalita dalla nausea.
All’improvviso ho caldo e mi sento girare la testa. Vado in
iperventilazione – il respiro si riduce a un alito, e l’ambiente
circostante diventa un vortice sfocato.
«Stai bene?».
Guardo di lato con sguardo
assente, e vedo che la donna col passeggino si è fermata accanto a
me. Sembra sinceramente preoccupata. Gli occhi mi cadono sul
bambino, che dorme tranquillo. Mi si contrae lo stomaco e mi piego
in due per vomitare ai miei piedi.
«Oh santo cielo!», strilla
lei, accarezzandomi la schiena con la mano.
Riesco a sollevare la mano
mentre vengo scossa dai conati e per lo sforzo mi si riempiono gli
occhi di lacrime. Oppure stavo già piangendo? «Sto bene», gracchio,
accettando la salviettina che lei mi porge per pulirmi la bocca.
«Grazie». Mi raddrizzo e corro via, troppo preoccupata per sentirmi
umiliata dall’aver vomitato in pubblico.
Alla fine mi ritrovo in un
bagno pubblico. Non mi sarei mai immaginata di trovarmi in questa
situazione, e in ogni caso, non mi sarei mai aspettata di farlo su
un wc impersonale che hanno usato
forse in milioni. Eppure eccomi qui, seduta sul gabinetto a fissare
un test di gravidanza.
Positivo.
Le due linee brillano,
deridendomi, urlandomi in faccia che sono una stupida stronza
distratta. “Distratta” non è la parola che la gente userà.
“Disonesta” forse, o ancora “manipolatrice”, “subdola”,
“calcolatrice”. Non c’è niente che possa fare o dire per cambiarlo.
È qualcosa con cui dovrò imparare a convivere, insieme ai giudizi,
per aver rubato il marito di un’altra donna.
Il dolore schiacciante è
amplificato dal fatto che non posso chiamare l’unica persona che
sono certa non l’abbia fatto di proposito. Non posso telefonargli
né vederlo. Non ho nessuno a cui rivolgermi, nessuno che anziché
annientarmi, mi dia invece il conforto di cui ho bisogno.
Il mio mondo non si sta
sgretolando lentamente. Mi sta crollando addosso, e mi sento come
se tutto fosse fuori controllo. Non sento nessun senso di vittoria
mentre guardo il test positivo. Non sento nemmeno un barlume di
entusiasmo nella confusione in cui mi ritrovo. È senza dubbio la
cosa peggiore che potesse capitare. Questo cambia tutto.
Infilo il test in borsa, esco
dal bagno, mi lavo le mani ed evito lo specchio. Non ho bisogno che
il mio riflesso mi dica che sembro un fantasma. Ho freddo, mi
sembra di essermi dissanguata, e ho il fiato corto. Mi sento come
l’ombra di una donna, e so che il mio aspetto rispecchia come mi
sento.
Penso di aver attraversato
praticamente ogni parco di Londra quando il sole comincia a
tramontare. Mi fanno male i piedi, ma non è niente in confronto
alla testa, lo stomaco e il cuore. Nessuna notizia di Jack. Mi
chiedo se ha dovuto portarla all’ospedale perché ha fatto qualcosa
di avventato. Mi chiedo se gliel’ha detto. Mi chiedo se è coperto
di graffi. Non posso tornare a casa e rimanere seduta lì. Non posso
affrontare i miei genitori né i miei amici. Non ho dove andare. Non
mi sono mai sentita così sola.
Mentre mi trascino in una
caffetteria, mi squilla il cellulare, facendomi schizzare il cuore
in gola. Tiro subito fuori il telefono dalla borsa e guardo lo
schermo. Non ho nemmeno la forza di sentirmi in colpa quando mi
affloscio per la delusione perché non c’è il nome di Jack. Per
qualche istante prendo in considerazione l’idea di ignorare la
chiamata di Lizzy, temendo che altra negatività possa farmi
accasciare sul pavimento qui e ora, ma dietro la paura c’è un
barlume di speranza, perciò rispondo.
«Mi dispiace tanto»,
singhiozza lei, con voce tremante. «Sono solo tanto preoccupata per
te, Annie. Sto provando a sperare che tu sia felice, muoio al
pensiero di non riuscirci. Ti meriti molto di più di questa merda.
Ti meriti il finale da favola. Perché ti sei dovuta innamorare di
un uomo sposato?»
«Non l’avevo programmato». Mi
siedo a un tavolo vicino. «Non volevo affatto che succedesse tutto
questo. Ho provato a evitarlo; devi credermi».
«Non ha molta importanza ora,
non è vero? Sei nella merda fino al collo».
Fisso il vuoto. Non ne ha la
minima idea. «Lo amo», dico semplicemente. Potremmo continuare così
per anni, a litigare sui perché e i percome. Eppure torneremo
sempre a quelle due semplici parole. «Non ci posso fare niente»,
dico piano, rubandole le parole senza vergogna.
«Lo so». Sospira. «Si è fatto
sentire?»
«No», ammetto, chiedendomi di
nuovo dove sia. Che cosa stia facendo. Che cosa stia
succedendo.
«Che hai fatto per tutto il
giorno?»
«Ho passeggiato».
«Da sola? Tutto il giorno?
Perché non sei venuta qui da me?», mi domanda, turbata.
«Non sei stata esattamente
calorosa questa mattina al telefono», le faccio notare gentilmente.
«Non volevo darti fastidio».
«Annie, non vuol dire che ti
voglia meno bene. Hai fatto una cosa che non condivido, ma non ti
volterei mai le spalle».
«Buono a sapersi», rispondo
automaticamente. «Perché sono incinta». Mi scappa di bocca, e non
sono nemmeno scioccata. Mi sento vuota.
«Come hai detto?», mi chiede,
con voce alta e preoccupata.
«Sono incinta», ripeto,
sebbene sappia che mi ha sentito benissimo la prima volta.
«Oh, Cristo», sussurra,
sconvolta. «Oh, mio Dio».
«Lo so». È l’unica cosa che
riesco a dire. Nessuna spiegazione. Nessuna supplica di pietà o
comprensione. Per oggi ho chiuso. Forse per sempre.
«Dove sei?»
«In una caffetteria vicino
Regent’s Park».
«Perché?»
«Perché non voglio tornare a
casa. Perché non so se Jack ha già detto a Stephanie che la vuole
lasciare. Perché non si è fatto sentire e io sto impazzendo. Perché
non posso chiamarlo. Perché…».
«Vieni qui», mi ordina senza
esitare. «Per favore».
Sorrido, arrivando
stranamente alla conclusione che voglio solamente stare da sola.
Senza nessuno che mi parli o che pontifichi sulla mia situazione di
merda. Sto facendo un lavoro magnifico anche da sola. «Sto bene»,
le assicuro.
«Annie, per favore».
«Lizzy, fidati, sto bene.
Devo solo metabolizzare il tutto». O meglio, tormentarmi un po’ di
più. «Torno a casa presto, te lo prometto».
Rimane in silenzio per
qualche momento, ma poi alla fine cede. «Chiamami se vuoi che ti
venga a prendere, okay?»
«Okay». Attacco, ma prima che
possa mettere il telefono a posto, squilla di nuovo. Questa volta
è Jack, e il mio cuore inizia a
battere forte. Mi sbrigo a rispondere. «Jack?»
«Ehi, piccola». Sembra
distrutto, e non so se sia un buono o un cattivo segno. Ci ha
ripensato? Lei l’ha implorato di non andarsene? Forse ha insistito
per farlo rimanere? «Dove sei?», mi domanda.
Non glielo dico. Non voglio
che si preoccupi per me. «Da Lizzy», mento. «Tu stai bene?»
«No», risponde velocemente e
con onestà. «Nessun uomo dovrebbe vedere una donna andare in pezzi
ai suoi piedi».
«Mi dispiace».
«Le ho detto che ho
un’altra».
«Cosa?»
«Non mi voleva ascoltare,
Annie. Ero disperato».
«Le hai detto che sono
io?»
«Gesù, no», sospira.
È una magra consolazione. Le
ha dato un’informazione. Ora lei sarà ossessionata e andrà in capo
al mondo per scoprire chi è. «Dove sei?»
«Da Richard. Stiamo bevendo
una birra per cercare di calmarmi. È stata…». Lascia morire la
frase. Non ha bisogno di dirmi che è stata una giornata
intensa.
«Okay», dico, incapace di
protestare e, stranamente, senza sentirmi ferita dal fatto che
abbia bisogno di qualche birra e un po’ di tempo con un amico. Io
ho bisogno del mio spazio per assorbire la notizia che deve ancora
travolgere Jack. Devo pensare a come dirglielo e quando.
«Ti amo», esclamo, anche solo
per ricordargli la ragione per cui stiamo affrontando tutto questo
casino.
«Non ne ho mai dubitato,
Annie». Fa un sospiro pesante, stanco. «Fatti una bella dormita,
piccola, e domani mattina ti chiamerò».
«Va bene».
«Ti amo, bellissima. Più di
ogni altra cosa».
La sua dichiarazione mi fa
sorridere. «Più delle fragole giganti?»
«Più delle fragole giganti. E
sai che le amo tantissimo».
«Lo so. Ti amo
anch’io».
Chiudo la chiamata e mi
incammino verso casa. Mi piacerebbe pensare che la parte più
difficile sia appena passata, ma non sono stupida.
Questo è solo l’inizio.