Capitolo 24
Quando arrivo a casa
è già buio fuori. Vado in camera mia e butto la borsa sul letto,
rovistando all’interno finché non trovo la barretta di plastica. La
tiro fuori e guardo il piccolo display, sperando in un miracolo. Ci
sono ancora due linee che mi guardano, vibranti e fiere. Lo lancio
di nuovo nella borsa e vado in bagno, guardandomi allo specchio per
la prima volta nella giornata. Non penso di aver mai avuto un
aspetto così terribile. Ho la pelle giallastra, gli occhi verdi
opachi, i capelli flosci e i vestiti stropicciati. Abbasso la testa
per evitare di vedere l’infelicità sul mio volto, e gli occhi mi
cadono sulla pancia. La mia pancia piatta. Per la prima volta,
prendo in considerazione la domanda più importante che dovrei pormi
in questo momento. Non cosa penserà o come reagirà la gente –
dovrei chiedermi se posso farlo. Diventare mamma. Il pensiero di
liberarmi del problema non mi è mai passato per la testa, seppur
confusa. Non mi chiedo se tenere il bambino o meno.
Ho intenzione di
tenerlo.
Dopo essermi fatta una
doccia, mi preparo una tazza di tè prima di coricarmi. Non metto in
questione il sorriso stampato in faccia mentre raccolgo le carte
delle caramelle sparse intorno al divano. E non dubito del
ragionamento che mi porta a mettere su Top
Gun e ad accoccolarmi sul divano per guardarlo. Ogni tanto
sposto gli occhi dalla televisione al pavimento, ricordando me e
Jack, in un groviglio di braccia e gambe, dolci e cuscini. E vedo
una terza persona: un bambino. Io, Jack, e un figlio – metà suo,
metà mio. Mi tocco la pancia e la massaggio sovrappensiero. Entro
un anno avrò un piccolo di cui prendermi cura. Qualcuno che
dipenderà da me. Diventare mamma non ha mai fatto parte dei miei
piani, forse perché non ho mai avuto altri piani oltre alla mia
carriera. La mia vita è stata stravolta e sono stata io a volerlo.
Ora devo prenderne le redini. So che cosa dovrò affrontare, ma con
questo bambino che mi cresce in pancia, mi importa molto di meno
della reazione del resto del mondo, e di Stephanie, e molto di più
essere una buona madre. Posso farcela. Con Jack, posso fare di
tutto.
Per la prima volta oggi, vedo
la speranza fra le rovine e mi ci aggrappo con tutta la mia forza,
sdraiandomi sul divano a bere il tè. Prima di addormentarmi ricevo
un messaggio.
Da Jack.
Sono sempre stato tuo. Anche
quando non ti conoscevo. E tu sei sempre stata mia. C’è solo voluto
un po’ per trovarci. Ti amo x
Mi addormento con queste
parole in testa.
Mi sveglio infreddolita, e i
titoli di coda di Top Gun scorrono
sullo schermo della tv. Mi lamento,
non volendo muovermi per andare a letto, ma ho troppo freddo per
rimanere dove sono. Rabbrividisco e mi alzo dal divano, spengo la
tv, per poi prendere il telefono e
tirarmi la coperta sulle spalle. Alla fine mi trascino in camera,
assonnata.
Riesco quasi ad arrivare al
mio magnifico letto caldo, da cui le coperte mi chiamano, ma mi
fermo sulla soglia della camera quando qualcuno bussa alla porta.
Guardo l’ingresso, chiedendomi chi possa essere a quest’ora.
Controllo il telefono. Le dieci di sera. Non è poi così
tardi.
Lascio cadere la coperta
dalle spalle, la getto sul letto e prendo la felpa grigia dalla
sedia, infilandomela mentre mi dirigo alla porta. Penso e spero che
sia Jack. Al solo pensiero affretto il passo e apro, pronta a
gettarmi contro di lui e non lasciarlo più andare via.
Ma avverto la delusione sul
mio viso non appena mi rendo conto di chi ho davanti.
«Stephanie». Ho il respiro
corto, e cerco disperatamente di non spalancare gli occhi dallo
shock. Oh, mio Dio, che ci fa qui? Merda, che faccio? Sembra
distrutta, i capelli sporchi e tirati in una coda malconcia, il
viso arrossato e a chiazze, e il corpo ricurvo, avvolto in un
cappotto color cachi con il cappuccio di pelliccia. Lascio la presa
sulla porta quando il legno inizia a tremare leggermente.
Devo sembrare nervosa come in
effetti mi sento. Lei mi fissa con un’espressione vuota, sembra in
trance. A questo punto qualsiasi persona normale le chiederebbe se
si sente bene. Ma io so che non sta bene, e io non sono una persona
normale. Sono la donna per cui il marito l’ha lasciata, e devo
sbarazzarmi di lei prima che i nervi mi salgano a fior di pelle e
lei capisca tutto.
«Stephanie?», ripeto
gentilmente, sforzandomi di fare un’espressione un minimo
amichevole.
«Non sapevo da chi altro
andare», gracchia, con le braccia avvolte intorno al busto come per
proteggersi.
«Cosa?». Mi stupisco del mio
tono brusco e mi sforzo di ricompormi. E allora è venuta qui?
Da me?
Scoppia a piangere.
Oh, cazzo.
«Mi ha lasciato», singhiozza.
«Se n’è andato!».
Mi si attorcigliano le
budella. Sembra che nessuna parte di me sia disposta a suggerirmi
il da farsi. «Stephanie, non…».
Irrompe in casa, non
lasciandomi altra scelta che indietreggiare, e colpisce il muro.
Sento una zaffata di alcol quando mi passa davanti. Ha bevuto. «Se
n’è andato, Annie! Se n’è andato e mi ha lasciato da sola!». Si
allontana un poco e mi guarda, con un’espressione improvvisamente
seria, gli occhi spalancati e terrorizzati. «Ma ha bisogno di me»,
dice.
«Mi dispiace, Stephanie». La
mia bocca si mette in azione, ricordandomi che dovrei far finta di
essere un’estranea solidale. «Sono sicura che tornerà con
te».
«Sì, tornerà», dice, tirando
su col naso e asciugandoselo. «È confuso, tutto qui».
Annuisco con entusiasmo,
avendo bisogno che si riprenda e se ne vada in modo da poter dare
inizio al mio crollo. Non sarà spettacolare come quello di
Stephanie, ma posso garantire che includerà tante lacrime e una
chiamata in preda al panico a Jack.
Fa una smorfia e ricomincia a
piangere, questa volta più controllata, mentre tira su col naso e
ansima, tremando. «Che dovrei fare?». Pronuncia le parole
singhiozzando, con la testa abbassata fiaccamente.
Non ho nessuna risposta. Non
so cosa farà, e ciò mi spaventa tanto. «Vuoi che chiami una tua
amica?», le chiedo. «Qualcuno con cui parlare?». Devo mettere in
chiaro che non sono io la persona che può confortarla. Non lo sarei
nemmeno se non fossi innamorata di suo marito.
«Non c’è nessuno»,
singhiozza. «Non ho amici». Mi lancia uno sguardo pieno di
speranza. Temo il peggio. «Tranne te. Starò con te per un po’. Puoi
farmi una tazza di tè. Non me la so cavare da sola, Annie».
«E tua madre?», insisto, nel
tentativo di sembrare preoccupata e non disperata.
Scuote la testa. «Lei e papà
sono andati a cena fuori. Non voglio disturbarli».
Provo a inghiottire il groppo
di paura che mi cresce in gola. Non ci riesco. Lei vuole che sia
sua amica. Oppure pensa chiaramente che già lo sono. Vuole
confidare i suoi problemi alla donna incinta di suo marito. Non
riesco a immaginare una situazione peggiore. Gesù, non posso
cacciarla e passare tutta la notte a chiedermi se stia provando a
tagliarsi le vene.
«Metto su il bollitore»,
dico, chiudendo la porta. Sono completamente fottuta.
Guido Stephanie in cucina, la
faccio sedere e inizio a preparare il tè, con la mente a mille,
terrorizzata dalla direzione che può prendere la
conversazione.
«Dice che ha un’altra»,
afferma di punto in bianco con un tono decisamente divertito.
«Forse è solo un fuoco di
paglia», rispondo automaticamente, e mentre giro il tè mi rendo
conto di non aver altra scelta che chiudermi a riccio e far finta
di essere l’amica che crede io sia.
«È quello che ho detto io.
Una baldracca che apre le gambe a tutti».
Stringo i denti e le passo il
tè, sedendomi dalla parte opposta del tavolo.
«Tornerà. Voglio dire, l’ha
già fatto quando si è reso conto di aver commesso un errore. Di non
poter vivere senza di me». Ride, e io sorrido tesa. Sto cadendo a
pezzi. Non voglio ascoltarla. Si china in avanti, con le mani
attorno alla tazza, e mi sorride. «Puoi aiutarmi a farglielo
capire. Lavori con lui, lo vedi sempre. Gli puoi dire che sta
commettendo un errore. Che ne dici?».
Che ne
dico? Dico che questo deve essere l’inferno. Sorridere mi fa
fisicamente male tanta è la finzione, mentre lo stomaco continua a
rivoltarsi come per ricordarmi che ho una parte di me e una parte
di Jack che sta crescendo nella mia pancia. «Okay», rispondo
deglutendo.
«Grazie, Annie», dice,
portandosi la tazza alla bocca, pensierosa. Sembra molto più calma
ora. E proprio dopo averlo pensato, sbatte la tazza sul tavolo e
ricomincia a ululare. Non riesco a capire se questo sia il
comportamento normale di una qualsiasi donna lasciata dal marito,
oppure il comportamento normale di Stephanie. «Scusami», piange,
asciugandosi la faccia. «Hai un fazzoletto?», mi domanda.
«In bagno». Prego che vada a
prenderselo da sola e che non si aspetta che sia io a portarglielo.
Il mio cellulare è dall’altra parte della stanza accanto alla
teiera e sembrerebbe strano se dovessi prenderlo e portarlo con me.
Se è lei ad andare, posso scrivere a Jack per un aiuto immediato.
«Sai dov’è».
Struscia la sedia sul
pavimento mentre si alza, e io aspetto che Stephanie sparisca
dietro l’angolo prima di fare uno scatto verso il telefono,
scrivendo freneticamente un messaggio a Jack.
Stephanie è qui!
Mi siedo di nuovo e tengo in
mano il cellulare, sentendola soffiarsi il naso in lontananza. La
risposta di Jack è quasi istantanea.
Cosa? A casa tua?
Ho solo il tempo di
rispondere con un semplice “Sì!” prima che Stephanie ricompaia.
Infilo il telefono in tasca e mi alzo. «Okay?», le chiedo.
Lei annuisce, mettendosi in
tasca il fazzoletto. Poi si avvicina a me e mi abbraccia mentre il
mio corpo teso si rifiuta di rilassarsi, non importa quanto io
cerchi di non farle notare la mia ansia. «Sei una vera amica»,
dice, staccandosi da me e dandomi un bacio sulla guancia.
Non lo sopporto. I miei
campanelli d’allarme sono impazziti all’improvviso.
Squilla un telefono, e
Stephanie sussulta, prendendo il cellulare dalla tasca del
cappotto. La felicità sul suo volto quando guarda lo schermo basta
a mandarmi al tappeto. «È Jack!», squittisce, rispondendo alla
chiamata. «Jack?». Si volta e corre fuori dalla cucina. «Sì, sto
tornando a casa! Vieni anche tu? Parleremo. Come si deve. Starò a
sentire, te lo giuro». Sparisce in un vortice di euforia,
sbattendosi la porta d’ingresso alle spalle.
Mi lascio cadere sulla sedia
mentre l’adrenalina che mi sosteneva lascia il mio corpo e subentra
lo shock. Mi porto le mani alla testa, ma non ho tempo di far
riposare la mente esausta. Il telefono che ho in tasca comincia a
vibrare. Lo tiro fuori e rispondo.
«Annie, stai bene?». Jack
sembra impazzito dalla preoccupazione.
«Benissimo», scherzo. «Ho
appena visto tua moglie avere un crollo mentale e l’ho ascoltata
mentre mi raccontava di come ti avrebbe ripreso dalle grinfie della
puttana con cui vai a letto. A quanto pare sono una vera amica e
dovrò convincerti che hai fatto uno sbaglio. Perfetto, eh?»
«Che cosa?». Sembra
esterrefatto quanto me.
«Jack, sono
preoccupata».
«Mi dispiace tanto». Sospira.
«Non sapevo si sarebbe presentata così a casa tua».
«Stai bene?», gli domando
piano, odiando la stanchezza intrisa in ogni sua parola.
«Vorrei soltanto essere lì
con te», ammette, facendomi sorridere tristemente. «È stata una
giornata di merda».
«Già», dico piano. Non ha
bisogno di sapere cosa mi ha riservato la mia.
«Ho bisogno di vederti,
Annie. Puoi venire nel mio ufficio domani mattina?»
«Non farà alzare qualche
sopracciglio ai tuoi colleghi?»
«Sarà una riunione d’affari.
Tutto qui».
«Mi porterò dietro le mie
cartelle», gli dico, alzandomi, diretta in camera per buttarmi sul
mio tanto agognato letto. Tolgo la borsa dal bordo e la getto sul
pavimento prima di sdraiarmi e coprirmi fino al mento.
«Nel mio ufficio alle
undici?»
«Okay».
«Non vedo l’ora di
abbracciarti, Annie». Sembra così esausto. Chiudo gli occhi e mi
immagino accoccolata contro il suo petto, al caldo e al sicuro.
Insieme. «’Notte, piccola».
«Buonanotte». Attacco e fisso
il soffitto, nel tentativo di capire come dare la notizia della
gravidanza a Jack. Non sono sicura che questo pover’uomo resisterà
ancora per molto.