Capitolo 11
Come si può essere così legati a qualcosa con cui si ha un così minimo contatto? La risposta è facile e insostenibile allo stesso tempo. Sento come se Jack fosse stato creato per me, e il fatto che non posso averlo è crudele. Semplicemente crudele. È proibito. Non sarei dovuta andare con lui la prima volta. E sicuramente non ci sarei dovuta andare la seconda. E sono così arrabbiata con me stessa. In quel pub sono stata ingannata, mi sono arresa alla sua potenza, ma sapevo benissimo a cosa andavo incontro ieri sera. È imperdonabile.
Rimango sdraiata a letto ad autoflagellarmi ancora, con un senso di colpa dieci volte più potente. Ho provato a non chiedermi se la totale assenza di reazioni di Jack al telefono con lei era dovuta al senso di colpa. Ho provato a non immaginarlo così remissivo di fronte alla furia di quella donna, anche se lo merita. Ma Stephanie non sa di me. Allora perché gli urla contro? Solo perché ha fatto tardi a cena?
Non ho chiuso occhio, la mente ancora sveglia, ma sono arrivata a una conclusione solida. Deve finire qui e ora. Il fatto che il loro matrimonio stia attraversando un momento difficile è irrilevante. Non c’è posto per me nelle loro vite. I loro problemi non sono i miei, e non dovrei renderli tali.
Sono meglio di così.
Arrivate le sei di mattina, ho rinunciato a dormire, perciò mi faccio una doccia e mi preparo per una lunga giornata di lavoro. Mi fermo a prendere un cappuccino grande e lo bevo mentre faccio qualche chiamata e invio un’email all’ingegnere edile per prendere un appuntamento per parlare del problema del tetto. Lui mi risponde subito dicendomi che è disponibile alle due per mezz’ora, ma poi non sarà più libero per il resto della settimana. Non ho altra scelta che accettare e riorganizzare la mia agenda.
Un’ora dopo, sto facendo dei calcoli mentre mordo il tappo della penna quando il cellulare si accende per una notifica di email. Lo prendo mentre butto giù una nota e guardo lo schermo. Il suo nome mi lampeggia davanti e riceve la solita reazione da parte del mio cuore. Poi hanno inizio i ricordi implacabili, ma questa volta ci sono scene nuove, sensazioni nuove, immagini nuove. Altre parole a cui aggrapparmi. Leggo la prima riga dell’email e capisco immediatamente che non è nulla di professionale. «Dannazione, Jack». Smetto di leggere e la cancello. Abbiamo oltrepassato il limite due volte. Non può accadere di nuovo.
«Assolutamente fattibile», dice l’ingegnere, semplicemente. «Rifarò i calcoli e te li invierò entro domani».
«Sei un santo». Unisco le mani come in preghiera. «Grazie».
Sorride e tira fuori il taccuino per prendere qualche appunto. Superando le doppie porte che conducono in giardino, intravedo Richard che indica dei rami dell’ippocastano. Lui mi nota e mi fa cenno di avvicinarmi.
«Annie, questo è Wes. Taglierà tutti quei rami».
«Ciao». Gli stringo la mano quando me la porge.
«Quali devo amputare?», chiede, alzando lo sguardo.
«Amputare?», rido.
«Uso soltanto linguaggio tecnico».
«Giusto». Vedo che anche Richard è divertito, mentre indico i rami. «Quello e quello».
«E quello», dice Jack, comparendo dall’altra parte del giardino. Rabbrividisco e distolgo subito lo sguardo prima che possa ammirare quanto sia bello con quel completo.
«Non penso sia necessario», rispondo formalmente. «Quei due dovrebbero bastare».
Wes e Richard guardano prima me poi lui. «Non sono d’accordo». Jack ci raggiunge e indica i rami più bassi. «Se rimuovessi quello lì, farai cadere quello dietro e il problema rimarrà».
Stringo le labbra con un respiro profondo per trovare la pazienza. È incazzato. Lo capisco dalla vena gonfia sul collo e dal tono tagliente. E so perché. Ho dato solo un’occhiata alle cinque email che mi ha inviato, e le ho cancellate non appena ho capito che non parlavano di lavoro. Quindi non ho risposto a nessuna di esse, e quando lui mi ha telefonato, ho rifiutato ogni singola chiamata. «E se rimuovessimo quel ramo, il giardino sarà visibile da quei palazzi laggiù», gli faccio notare.
«Be’». Storce le labbra, arrabbiato. «Ti ho inviato diverse email oggi in cui te ne parlavo, ma non ti sei presa la briga di rispondere».
Gli lancio uno sguardo scioccato e apro la bocca per dire la mia, ma mi sbrigo a chiuderla quando ricordo che abbiamo compagnia. Non mi ha scritto per parlarmi di alberi o di lavoro, e lo sa. «Ero occupata», rispondo concisamente. «Ma ora ci siamo chiariti». Mi allontano, lasciando Wes e Richard con espressioni caute e Jack con un volto irato. «Il ramo resta», dico.
Jack mi raggiunge prima che possa entrare. «Perché hai ignorato le mie email?», mi sibila all’orecchio, seguendomi da vicino. «E le telefonate».
«Perché riguardavano noi due». Mi giro di scatto, infuriata. «E la scena di poco fa era il tuo modo di punirmi per non averti risposto. Volevi farmi sembrare un’incompetente di fronte a dei colleghi, solo perché non ti ho risposto? Solo perché ho ferito il tuo ego?»
«Pensi che il mio ego c’entri qualcosa?»
«Sì!», sibilo.
«Stai delirando. Il ramo deve essere tagliato!», abbaia in modo infantile.
«Deve rimanere!».
Lui ringhia, avanzando verso di me e costringendomi a indietreggiare finché non mi ritrovo in un angolo. No. Oh, no, no, no!
«È facile ignorarmi quando si tratta di messaggi, non è vero?», dice, con la voce bassa e pericolosa. «Che fai ora, Annie?». Mi afferra la mano e se la porta sul pacco. «Che cosa ci devo fare con questo?».
È duro. È arrabbiato ed è dannatamente duro. Deglutisco, presa dall’ansia. Si sbaglia. Non è facile quando si tratta di messaggi. Non è difficile come ora, ma è comunque una battaglia che sto perdendo. Oppure ho già perso?
«E con questo?». Mi sposta la mano sul suo petto e la spinge sul pettorale. Il cuore gli batte velocissimo. Proprio come il mio. «Che ci faccio con questo?»
«Perché non chiedi a tua moglie?». Rabbrividisco internamente a questa risposta, ma Jack rabbrividisce fisicamente, lasciando la mia mano e facendo un passo indietro, con un’espressione di puro disgusto sul volto.
Fa un respiro profondo, sollevando piano un dito per puntarmelo contro. «Non hai il diritto di parlare così. Non dopo ieri notte».
«Dimentichi una cosa». Rischio di rompermi la mascella per quanto forte sto stringendo i denti. «Posso dire quello che cazzo mi pare, perché non appartengo a nessuno. E sicuramente non a te».
Fa una smorfia, ancora più disgustato, e lentamente mi mette una mano sul fianco. Sussulto non appena mi tocca, e lui sorride vittorioso. «Davvero, Annie? Continua a crederci».
«Ehm… Jack?», ci interrompe Richard, pieno di imbarazzo, e io mi scanso velocemente da Jack, camminando verso il tavolo con i disegni con le gambe tremanti.
«Che c’è?», grida Jack, facendomi alzare lo sguardo.
Richard non batte ciglio. «Dovresti venire fuori, amico». L’espressione di Richard è dispiaciuta, e quella di Jack è terrorizzata. Poi la sento: una donna che strilla.
Guardo verso l’ingresso del palazzo, chiedendomi che diavolo stia accadendo. «Jack!», urla una donna. «Jack!».
Jack si porta le mani alla testa e si tira i capelli urlando, un suono pieno di frustrazione. Mi guarda storto, con gli occhi infuocati. Io mi riduco in polvere sul posto, cercando di sparire. Poi se ne va.
Guardo Richard. Richard mi guarda. «Eviterei l’ingresso per un po’ se fossi in te».
Ovviamente, esco subito, curiosa. Troppo curiosa. Trovo Jack in mezzo al vialetto con la moglie che agita le braccia, impazzita, mentre diversi operai rimangono a guardare. Che accidenti…?
«Perché non hai risposto al telefono?», strilla lei.
Jack alza le mani per tranquillizzarla, e il linguaggio del suo corpo ora è completamente diverso rispetto a poco fa. «Ero occupato, Stephanie. Gestisco una ditta». Anche la sua voce è calma.
«Sì, esiste solo il lavoro per te! E non pensi a me? Al nostro matrimonio!».
Li guardo, rapita, e sembra che lui l’abbia calmata prima di prenderle un braccio. Lei si libera e lo spinge via con violenza, sebbene il corpo enorme di Jack non si muova affatto.
«Papà dice che dovrei essere io la tua priorità! Dice che sei egoista, e io sono d’accordo!». L’ultima scarica di insulti è leggermente strascicata. È ubriaca? “Papà”?
«Ora basta, Stephanie. Stai facendo una scenata». Jack la afferra per le braccia e la porta alla sua auto, ma lei lo spinge via di nuovo, arrancando un poco con i tacchi sulla ghiaia. È decisamente ubriaca.
«Ci entro da sola in macchina», sbotta, lasciandosi cadere sul sedile.
Jack mi guarda, con espressione stressata. Poi scuote la testa lievemente e mima con la bocca: Non è finita qui.
Faccio un passo indietro e trovo l’oggetto più vicino a cui aggrapparmi per non accasciarmi.
Faccio un salto al negozio mentre torno a casa per comprare la cena di questa sera. Mentre mi trascino per le corsie nel tentativo di decidere di cosa ho voglia, il telefono squilla per segnalare l’arrivo di un messaggio. Prendo una paella e apro il messaggio.
Dobbiamo parlare. Vediamoci. Jack
Mi si chiude lo stomaco. Non ci vuole una laurea per capire che non parleremo di lavoro. E non è neanche una domanda. Inizio a immaginare cosa mi vuole dire, e la mente si sovraccarica, a prescindere da quanto mi sforzi di non pensarci. Non è finita qui.
Ho le labbra secche e lo stomaco che fa le capriole. Cancello il messaggio velocemente prima di fare qualcosa di stupido… come rispondergli. Perché mi fa questo? Devo abbandonare il progetto di Colin. Ne morirò, ma devo. Non posso lavorare con lui. Non dovrei lavorare con lui. Accetterò altri progetti, qualsiasi cosa che occupi tutto il mio tempo e mi distolga da questi pensieri pericolosi. È questo il piano. Spero solo che funzioni, perché ogni volta che vedo Jack, il dolore che sento dentro aumenta. Così anche il desiderio, e il cuore mi si spezza quando lui se ne va, e quando mi stringe a sé, sogno un mondo in cui mi abbraccia ogni giorno, in cui mi incoraggia e ispira ogni giorno. Per la prima volta nella mia vita mi immagino con un uomo al mio fianco. Immagino di rinunciare a parte della mia indipendenza per fare spazio a Jack. Perché con lui non mi sembra di rinunciare a nulla – solo di guadagnare qualcosa. Lo immagino studiare i miei disegni, darmi dei consigli, dirmi continuamente quanto è orgoglioso di me. Ignorare tutti questi sogni mi sta prosciugando. Non riesco più a opporre alcuna resistenza.
Lascio cadere a terra il cestino della spesa, abbandonando l’idea di cenare, e corro a casa per tuffarmi nello studio e perdermi nel lavoro. Finisco dei disegni, li invio, chiamo l’ingegnere edile per chiedergli un’opinione riguardo alcuni dettagli… e butto giù un’email da inviare a Colin per avvisarlo della mia intenzione di lasciare il suo progetto, ma raccomandandogli alcuni colleghi che sarebbero felici di assisterlo e portarlo a termine.
Rispondo a una chiamata di un potenziale cliente e fisso un appuntamento. Non è niente di paragonabile al progetto di Colin, ma è un’altra cosa in cui posso buttarmi a capofitto. Sento i miei, rispondo a un messaggio di Micky dicendogli che sto bene, fin troppo bene, e pulisco perfino il bagno. È stata una giornata produttiva. L’unica cosa che la renderebbe perfetta è cliccare il tasto Invia sulla bozza dell’email per Colin.
Ma quando porto il cursore sull’icona, non riesco a convincermi di farlo. Chiudo gli occhi e cerco di spingere il tasto del mouse. Clicca. Clicca quell’icona e tutti i tuoi problemi spariranno. Mi appoggio allo schienale della sedia, fissando lo schermo per dieci minuti buoni, in cerca della forza di volontà e del buon senso per fare la cosa giusta.
Din!
Guardo il cellulare e vedo il nome di Jack, e nonostante tutto il resto mi urli di non aprire il messaggio, le mie stupide dita non esitano a premere quell’icona.
Non hai il diritto di ignorarmi ora, Annie.
Un secondo dopo, il telefono inizia a squillare, e io mi allontano con la sedia dalla scrivania per mettere più distanza possibile fra me e il cellulare. «Vattene, Jack», sussurro.
Non appena smette di squillare, chiamo velocemente Lizzy, cercando di calmare il panico con dei respiri profondi. «Ehi, che c’è?»
«Ti va un caffè?», le chiedo.
«Certo. Ho appena staccato. Al solito posto, fra venti minuti?»
«Sì, a fra poco».
Intravedo Lizzy che si fa strada fra i tavoli poco più avanti e la seguo con lo sguardo finché non occupa la sedia di fronte a me. «Come va il lavoro? Tutto bene?»
«Sì, va tutto bene. A dire il vero, lo vedo raramente», mento. Non era questo il piano. Ho bisogno di distrarmi! Non potrei mai dire a Lizzy che ci sono andata di nuovo a letto, specialmente dopo quello che le è accaduto con Jason. Non posso dirlo a nessuno. Sono una disgrazia. Una donna debole e patetica. Non posso neanche dirle che ho intenzione di abbandonare il progetto di Colin. Capirebbe il perché.
Mi pianto un sorriso in faccia, fingendo di essere normale. «E comunque, niente è meglio di una moglie per ridefinire le cose, no?».
Lizzy ride fragorosamente, e per la prima volta vedo il lato divertente. Perché è veramente esilarante, cazzo. Non sono mai stata sopraffatta emotivamente da un uomo, e quando alla fine è successo, quel bastardo è sposato.
«Ora la santità del matrimonio non significa più niente?», domando, veramente esasperata.
«Ci sono più divorzi che matrimoni». Lizzy prende il cucchiaino e me lo punta contro. «Ed è soprattutto a causa dei tradimenti. Io sono stata fortunata. Non ho intenzione di sposarmi».
«Neanch’io», concordo, sentendomi come se stessi dicendo addio inconsciamente al mio lieto fine, così come al progetto dei miei sogni.
«’Fanculo al caffè», dice Lizzy. «Ubriachiamoci. Chiama gli altri». Afferra un menù e inizia a ordinare una montagna d’alcol.
«Adesso?»
«Sì, adesso. E con un po’ di fortuna troverai qualcuno da portarti a letto».
Ha ragione. Devo tornare in sella. «Anche tu hai bisogno di una bella scopata».
Alza le sopracciglia.
«Con qualcuno che non sia Micky», preciso prendendo il telefono per chiamare gli altri due, con l’acquolina in bocca per il Mojito che presto arriverà su questo tavolo.
Le sbronze impreviste sono le migliori. Il fatto che sia un giorno lavorativo rende la situazione più eccitante. Siamo finite in una birreria all’aperto a Camden; sono le otto di sera e siamo già brille. Non ubriache, solo a un livello piacevole di ubriachezza. Abbiamo parlato di tutto e di niente, e ho la mente totalmente presa dall’alcol e da un’amica che mi sostiene.
«Mi è mancato questo», dice Lizzy, guardando un gruppo di uomini dietro di me verso il retro della birreria.
Seguo il suo sguardo e sorrido. «Ti è mancato ammiccare agli uomini?»
«No». Agita la birra tra noi. «Questo. Sei stata così occupata con la tua attività, e lo capisco, ma mi sono mancate le nostre uscite fra ragazze».
«Anche a me», confesso, guardandola stamparsi un sorriso da schianto in faccia, avendo ovviamente attirato l’attenzione del gruppo di uomini. «Ehi, dài. Ci stiamo divertendo senza uomini», le faccio notare, con uno schiaffo leggero sul braccio per riavere la sua attenzione.
Guardo dietro di Lizzy e vedo Micky entrare nella birreria. Posso praticamente sentire che tutti gli ormoni femminili nei dintorni impazziscono. Lui se ne compiace e ci raggiunge. «Merda, quanto sono rimasto indietro?», domanda, vedendoci brille.
Per tutta risposta, Lizzy rutta, e io inizio a ridacchiare. «Prendo da bere». Raccolgo la borsa e mi dirigo verso il bar. «E tenete le mani a posto mentre non ci sono». Lancio un’occhiata a Micky, e lui alza le mani in gesto di resa.
«Ti ho sentito forte e chiaro».
Vado nel bagno delle donne per rinfrescarmi un po’ prima di andare al bancone per ordinare i nostri cocktail. Tornata al tavolo, vedo che è arrivata anche Nat. Tutti esultano per il mio ritorno e si tuffano sul vassoio che appoggio sul tavolo. «Wow», interviene Nat, indicandomi con il bicchiere. «Domani si lavora e Annie non è nel suo studio. Che è successo?».
Ignoro il suo sarcasmo e le cingo le spalle con un braccio. «Bevi», ordino. «Sei indietro di tre bicchieri».
«All’essere single!», intona Nat, e tutti facciamo tintinnare i bicchieri prima di dare inizio alla sbornia della serata.
Ne avevo bisogno – dell’alcol, degli amici, dello spazio limitato utile a vietare alla mia mente di avventurarsi oltre le risate nella birreria. Mi sento di nuovo normale. Anche se sono sbronza.
Micky mi accompagna a casa con un taxi intorno alle undici, ed è chiaro quanto abbia bevuto dal modo in cui cammino a zig zag lungo il vialetto verso la porta di casa. «Ehi, Annie!», mi chiama dal taxi. «Domattina a correre?».
Sbuffo sgradevolmente e gli mostro il medio, strappandogli una risata mentre chiude la portiera e il taxi riparte. Mettere la chiave nella serratura si rivela difficile. Chiudo un occhio e prendo di mira il bersaglio, ma ogni volta colpisco il legno, scheggiando la vernice. «Entra», biascico, avvicinandomi alla porta, con la lingua di fuori per la concentrazione.
«Non te la stai cavando, vero?».
Sobbalzo e mi giro, riuscendo a malapena a mantenere l’equilibrio, e mi trovo Jack davanti.
Sorrido luminosa e lo indico con un dito. «Guarda un po’, l’uomo sposato in persona!», esclamo, poi mi tappo goffamente la bocca con la mano per zittirmi, ridacchiando come un’idiota. «Ops», dico contro il palmo. Forse è perché sono ubriaca, ma lui mi guarda decisamente male, e riesco anche a sentirmi offesa. «Mi hai appena guardato male, Jack Joseph?»
«Sei ubriaca», borbotta, avvicinandosi a me. Lo squadro fiaccamente con la vista offuscata, e lo trovo incantevole in un paio di jeans vecchi e rovinati e una maglietta grigia che gli lascia scoperti i bicipiti tesi.
«Sì». Barcollo un poco, appoggiandomi con la schiena al muro. «Sono ubriaca. E non sono affari tuoi».
Mi prende per un braccio e mi sposta, togliendomi le chiavi di mano per aprire la porta. Si diffonde un calore sulla mia pelle, spingendomi a corrugare la fronte e a guardare in basso là dove mi sta toccando. «Perché succede sempre?», chiedo al mio braccio.
«Cosa?», borbotta, irritato. È di cattivo umore. Rido istericamente fra me e me. Che c’è ora, ha litigato di nuovo con la moglie? Bene! Spero che lei abbia capito che è uno stronzo traditore.
«Mi succede roba strana quando mi tocchi». Rabbrividisco immediatamente, e lui mi guarda mentre spinge la porta per aprirla.
«Non la definirei “roba strana”».
«Allora come la definiresti?», lo sfido, liberandomi dalla sua presa, ma lui mi afferra di nuovo quando barcollo all’indietro.
«Non ho intenzione di parlarne quando sei ubriaca». Mi guida nel corridoio, seguendomi.
«No, faresti meglio a tornare da tua moglie!». Rido, riappropriandomi del braccio e afflosciandomi contro il muro.
«Smettila, Annie», mi avverte, con una mano appoggiata sul muro accanto alla mia testa, chinandosi su di me. Troppo vicino. «Perché non hai risposto a nessuna email e a nessuna chiamata?»
«Perché non voglio avere niente a che fare con te», sbotto, facendolo trasalire, scioccato. Che faccia tosta.
«Smettila di mentirmi, cazzo!».
Faccio un respiro profondo, alla ricerca di un po’ di contegno prima che cominci a prenderlo a schiaffi. Troppo tardi. Muovo maldestramente il braccio, ma manco la guancia di un chilometro e il braccio rimbalza sulla sua spalla. Lui non batte ciglio, mentre io perdo l’equilibrio e incespico goffamente. «Ti odio», esclamo quando mi raccoglie fra le braccia, imprecando sottovoce. «Ti odio, ti odio, ti odio!».
«Zitta, Annie!». Freme di rabbia, sollevandomi da terra. «Non provare mai più a colpirmi!».
«Perché?», sbotto, dimenandomi per liberarmi.
«Perché non è da te!».
Una volta entrati in camera mia, la vista del letto mi spinge a dimenarmi ancora di più, ma Jack si limita a stringere la presa. «Lasciami andare!». Inizio ad agitare le braccia, ma senza alcun effetto, mentre lui attraversa la camera con me stretta al suo corpo.
«Falla finita!», avverte, con una nota minacciosa nella voce.
«No!».
Mi mette a sedere sul letto, ma un secondo dopo io mi rialzo in piedi per affrontarlo faccia a faccia. Pessima mossa. Da così vicino, i suoi lineamenti bellissimi mi fanno girare ancora di più la testa. Chiudo gli occhi e perdo nuovamente l’equilibrio, crollando sul materasso. Sono un disastro. Inutile. Patetica.
«Vattene», lo supplico, seppellendo il viso fra le mani per nascondermi. «Lasciami in pace».
Mi si rivolta lo stomaco e la bocca mi si riempie di saliva. Oh, no. Salto giù dal letto e faccio uno scatto inumano verso il bagno, sbattendo contro tutto ciò che si trova nella mia traiettoria, che mi stia bloccando il passaggio o meno. Arrivo al gabinetto e vomito con conati lunghi e rumorosi.
«Oh, Dio», mi lamento, afflosciandomi sul water a cui rimango aggrappata con le braccia deboli.
Sento delle dita che mi tirano indietro i capelli, e una mano calda mi accarezza la schiena. Accasciata sul gabinetto, appoggio la testa sulle braccia e chiudo gli occhi. «Per favore, non odiarmi», mormora lui.
Io perdo i sensi.