Capitolo 1
Mi faccio strada fra le pile di posta sul parquet, tenendo in equilibrio una scatola mentre la porta si chiude dietro di me. Le vibrazioni smuovono la polvere accumulatasi nel corso di due anni sulla mensola portafoto nel corridoio vuoto, e i granelli sottili esplodono davanti a me nella penombra e mi arrivano fino alle narici. Starnutisco – una, due, tre volte – facendo cadere la scatola ai miei piedi per strofinarmi il naso.
«Dannazione». Tiro su, spostando di lato la scatola con un calcio e attraversando il corridoio alla ricerca di un fazzoletto.
Una volta in salotto, schivo le scatole disordinate e cerco quella con l’etichetta bagno. Le probabilità di trovarla sono bassissime. Sono circondata da torri di scatole, tutte in attesa di essere svuotate. Non so da dove cominciare.
Spostandomi lentamente, osservo la mia nuova casa – un appartamento al piano terra in una vecchia casa in stile georgiano che si affaccia su un viale alberato di Londra ovest. La finestra a golfo in salone è enorme, il soffitto alto e i pavimenti originali. Mi dirigo in cucina, storcendo il naso all’odore stantio e allo strato di sudiciume su ogni superficie. La casa è rimasta vuota per due anni, e si vede. Ma non c’è nulla che una giornata passata con un paio di guanti di gomma e una bottiglia di detersivo non possa sistemare.
Improvvisamente entusiasta, immaginando come ogni cosa brillerà dopo che l’avrò assalita con una montagna di detergenti, spalanco le doppie porte che danno sul giardino per far entrare un po’ d’aria, poi vado nella camera matrimoniale. È una stanza enorme, con un bagno gigante e un elaborato caminetto originale. Sorrido, tornando in corridoio, ed entro nella seconda camera da letto, sebbene abbia altri piani per questa stanza. Immagino la scrivania sotto la finestra che dà sul cortiletto, e il mio tavolo da lavoro, ricoperto di disegni tecnici e documenti, che occupa tutta la parete di fondo. È mio. È tutto mio.
Ci è voluto un anno prima di trovare l’appartamento perfetto a portata del mio budget, ma finalmente ci sono riuscita. Finalmente ho una casa mia, con uno studio in cui lavorare. Mi sono sempre detta che avrei avuto un lavoro e una casa entro i trent’anni. Sono arrivata al traguardo con un anno di anticipo. E ora ho questo fine settimana per renderla davvero una casa.
Come a comando, qualcuno bussa alla porta. Corro lungo il mio appartamento – il mio appartamento – e spalanco la porta, trovandomi faccia a faccia con una bottiglia di Prosecco.
«Benvenuta a casa!», intona Lizzy, tirando fuori anche due bicchieri.
«Oh, mio Dio, sei una santa!». Prendo bottiglia e bicchieri e la invito a entrare, accogliendola nel nuovo appartamento. Ho un sorriso gigante stampato in faccia.
Mi sorride a sua volta ed entra, con i capelli corti e neri che le accarezzano il mento e gli occhi che le brillano dalla felicità – è felice per me. «Prima brindiamo, poi puliamo».
Sono d’accordo e mi chiudo la porta alle spalle, seguendola nel salotto in disordine.
«Porca vacca, Annie!», esclama, fermandosi sulla soglia quando nota la montagna di scatoloni. «Da dove viene tutta questa roba?».
Le passo accanto e poso i bicchieri su una scatola, per togliere la capsula di stagnola dalla bottiglia di spumante. «La maggior parte è del lavoro», dico, stappando la bottiglia e cominciando a versare.
«Di quanti libri e penne ha bisogno un architetto?», mi domanda, indicando il lato opposto del salone, dove una fila di scatole di plastica occupa tutta la lunghezza della parete. Sono piene di documenti vari, libri di testo e cancelleria.
«Gran parte dei libri sono dell’università. Micky passerà domani con un camioncino per portare la roba di cui non ho bisogno al negozio di beneficenza». Porgo un bicchiere a Lizzy e lo faccio tintinnare con il mio.
«Alla salute», dice, guardandosi intorno mentre sorseggia. «Da dove cominciamo?».
Mi unisco a lei, bevendo mentre guardo il caos della mia nuova casa. «Devo mettere a posto la camera da letto in modo da avere un posto per dormire. Il resto lo affronterò durante il fine settimana».
«Ooh, il boudoir!». Muove su e giù le sopracciglia con fare allusivo, e io alzo gli occhi al cielo.
«In questa casa sono vietati gli uomini». Butto giù un altro sorso di Prosecco e mi dirigo in camera. «A parte Micky», aggiungo, entrando nell’enorme ambiente, e mentalmente sposto il letto, gli armadi e la toletta – tutti ammassati al centro della stanza. Spero che Lizzy abbia fatto stretching per prepararsi a spostare tutta questa roba pesante.
«Nella tua vita sono vietati gli uomini».
«Sono troppo occupata con il lavoro», le faccio notare con un sorriso soddisfatto. Lo adoro. La mia nuova attività procede a gonfie vele. Non c’è sensazione più bella di quando la visione che si ha nella propria mente prende vita, un disegno diventa un edificio concreto. Sapevo esattamente cosa avrei voluto fare fin da quando avevo dodici anni. Mio padre mi comprò un coniglio per il compleanno, e, delusa dal recinto che lo accompagnava, lo convinsi a espanderlo per dare più spazio al mio nuovo amico. Lui rise e mi disse di disegnare ciò che volevo. E così feci. Non ho mai rimpianto la mia scelta. Dopo aver finito il liceo con ottimi voti, dopo quattro anni all’Università di Bath e sette anni passati a lavorare per un’azienda commerciale mentre studiavo per i tre esami da architetto, ora sono esattamente dove ho sempre voluto essere. Lavoro per me stessa. Do vita ai progetti che la gente sogna di realizzare.
Sollevo il bicchiere di spumante. «Allora, come va il lavoro?»
«Lavoro per vivere, Annie. Non vivo per lavorare. Penso alle pedicure, alla pelle e alle unghie solo quando sono al salone». Lizzy mi raggiunge sulla soglia della mia nuova camera. «E non cambiare discorso. È passato un anno, due mesi e una settimana da quando sei andata a letto con qualcuno».
«Che precisione».
Lizzy alza le spalle. «Era il mio ventottesimo compleanno».
Ricordo benissimo quella notte, tuttavia il nome di quell’uomo mi sfugge.
«Tom», mi suggerisce lei, come se potesse leggermi nel pensiero, voltandosi verso di me. «Un tizio carino che gioca a rugby. L’amico di un amico di Jason».
Le cosce di un tizio carino che gioca a rugby mi invadono la mente. Sorrido, ricordando quella sera in cui incontrai Tom, l’amico di un amico del ragazzo di Lizzy. «Era carino, non è vero?»
«Molto! Allora perché non l’hai più rivisto?»
«Non lo so». Faccio spallucce. «Non c’era niente fra di noi».
«C’erano quelle cosce!».
Rido. «Sai che intendo. Una scintilla. Un’intesa».
Sbuffa. «Annie, non ci sono mai state scintille per te da quando ti conosco».
Ha ragione. Quando apparirà un uomo che mi farà innamorare di lui? Che mi stregherà? Che mi farà pensare a qualcos’altro oltre la mia carriera? L’unica cosa che mi fa battere il cuore è il mio lavoro.
«Hai giurato di rinunciare agli uomini per sempre?». Lizzy si intromette nei miei pensieri. «Perché Jason ha molti amici di amici».
«Mi sono stufata di tutta quella storia. Di uscire con qualcuno. Dello stress. Delle aspettative. Non c’è stata mai nessuna… intesa», dico con fare sbrigativo. «E comunque, ora amo troppo il mio lavoro e la mia libertà».
Lizzy ride, sinceramente divertita, mentre gironzola per la stanza, affacciandosi alla porta del bagno. «Una libertà seriamente ostacolata da una settimana lavorativa di ottanta ore».
«Novanta», la correggo, e lei aggrotta le sopracciglia. «Ho lavorato novanta ore la scorsa settimana. E sono libera di farlo».
«E che ne è del divertimento?»
«Il mio lavoro è divertente», ribatto, indignata. «Progetto degli edifici bellissimi e li guardo prendere vita».
«Di recente non ti ho vista per niente», borbotta.
«Lo so. È stato un periodo folle».
«Sì, quella coppia snob a Chelsea si è rubata tutto il tuo tempo. Come va, a proposito?»
«Benissimo», rispondo, perché è così. È uno dei progetti più difficili che abbia mai intrapreso. Ci sono voluti mesi di piani e negoziazioni per arrivare alla fine a un compromesso con le autorità locali per costruire una casa ultramoderna ed ecoefficiente. Il duro lavoro ha ripagato ogni mio sforzo. La casa cubica sul limitare del parco ha contribuito all’acconto assurdo che dovevo pagare per la mia nuova casa.
«Si sono trasferiti venerdì scorso». Mi faccio strada verso le doppie porte sul giardino, immaginando il piccolo cortile pieno di piante, un tavolo in ferro battuto e un paio di sedie dove potrò godermi il caffè mattutino. «Non è perfetto?»
«È stupendo», dice Lizzy, seguendomi. «Io e Jason dobbiamo seriamente pensare a comprare una casa invece di affittarla».
«O di costruirne una». Le rivolgo un sopracciglio alzato, sfacciata. «Conosco un’architetta bravissima».
Lizzy sbuffa. «Non potremmo permetterci te».
Rido e torno dentro. «Mi aiuti o no a montare il letto?»
«Arrivo!», si lamenta, chiudendo le porte dietro di sé.
Tre ore più tardi, dopo una capatina al negozio per rifornirci di Prosecco, abbiamo pulito, lucidato e lavato praticamente tutto, e non abbiamo risparmiato neanche il bagno. La vecchia vasca stile impero luccica, e Lizzy ha tirato fuori tutti i prodotti per il bagno e i cosmetici mentre io rifacevo il letto. Mi sento già a casa. Sbircio nello specchio passandogli davanti, e vedo che i capelli scuri sono un pasticcio aggrovigliato. Tiro via l’elastico e li lascio cadere sulle spalle, pettinandomeli con le dita per districare i nodi. Sbatto le palpebre una o due volte, c’è qualcosa nei miei occhi verde chiaro che mi dà fastidio, perciò mi avvicino allo specchio e tolgo i granelli di polvere dalle ciglia.
«Non dimenticare che sabato prossimo usciamo», mi ricorda Lizzy, uscendo dal bagno mentre chiude una busta nera. «Jason ha da fare con il lavoro, Nat scappa da John perché ha lui il figlio quella sera, e Micky è… be’, è sempre libero. Quindi non voglio sentire scuse che devi lavorare».
Torno a letto e sprimaccio i cuscini, tirando indietro il piumino, pronta a buttarmici sotto dopo che Lizzy se ne sarà andata. «Niente scuse», confermo.
«Bene!». Lascia la busta nera sulla pila di altri sacchi vicino alla porta, strofinandosi le mani. «E la festa per la casa nuova? Dobbiamo battezzarla».
«È il sabato seguente. Ho invitato anche qualche nuovo cliente».
«Quindi niente orgia?».
Rido. «Niente orgia».
«Oh, okay. Mi occupo io del cibo. Tu occupati dei cocktail».
«Affare fatto».
Squittisce dalla gioia e mi abbraccia. «È perfetta, Annie. Hai lavorato duramente per ottenerla».
«Grazie». Ricambio l’abbraccio, assaporando il profumo del milione di candele che abbiamo acceso.
«Quanto altro tempo libero ti prenderai?», mi domanda, lasciandomi e prendendo la borsa dal pavimento.
«Solo il weekend».
«Wow, fai proprio le cose in grande, allora».
Ignoro il suo sarcasmo. «Devo terminare dei disegni per la nuova galleria d’arte del mio cliente. Chi dorme non piglia pesci».
«Ma almeno si gode la vita», ribatte Lizzy con un piccolo sorriso mentre tira fuori il cellulare dalla borsa. «Magnifico», borbotta, guardando lo schermo.
«Cosa?».
Lo rinfila nella borsa e mi rivolge un sorriso forzato. «Jason lavora di nuovo fino a tardi. Doveva venire a prendermi…». Guarda l’orologio. «…Praticamente ora».
«Puoi rimanere, se vuoi».
«Naa, prenderò la metro. Tu vai a dormire».
Mi lascia con un bacio sulla guancia ordinandomi di dormire bene. Non ho dubbi che sarà così. Nel letto nuovo di zecca, con le lenzuola e il piumino nuovi di zecca, mi addormento prima di appoggiare la testa sul cuscino nuovo di zecca.
Il mattino seguente mi sveglio quando qualcuno bussa forte e con insistenza alla porta. Mi tiro su a sedere, e, assonnata, impiego qualche momento per orientarmi, guardandomi intorno nell’ambiente a me poco familiare.
Bang, bang, bang!
Poi il cellulare comincia a gracchiare da sotto il cuscino, seguito da altri colpi alla porta, a loro volta seguiti da qualcuno che grida il mio nome. Mi copro il volto con le mani e strofino le guance prima di prendere il telefonino a tentoni da sotto il cuscino. Il nome di Micky lampeggia davanti ai miei occhi. Poi mi rendo conto dell’ora. «Oh, cazzo!». Salto fuori dalle coperte ed esco barcollante dalla camera.
Bang, bang, bang!
«Okay, okay!», urlo, saltando una scatola e sbattendo contro la porta. La spalanco e mi ritrovo davanti Micky, vivace e arzillo. «Fai sul serio?», urlo, con la testa che mi rimbomba di colpi, squilli e grida.
«Buongiorno, dolcezza!». Mi stampa un bacio sulla guancia e passa oltre, esplorando estasiato la mia nuova dimora. «Bella casa!».
Chiudo la porta d’ingresso e lo seguo, aggrottando la fronte nel notare lo chignon sulla sua testa. «Che ti è successo ai capelli?», gli chiedo, guardandolo esaminare ogni singolo angolo.
«Ti piacciono?», mi domanda, allungando una mano per toccare i capelli biondo scuro raccolti. «Cominciano a darmi fastidio mentre lavoro». Sposta una scatola con un calcio e beve un sorso dal suo bicchiere di Starbucks mentre me ne porge un altro.
Lo accetto grata e mi dirigo in camera. Indossa l’uniforme da lavoro, cioè dei pantaloncini e una t-shirt. È un personal trainer. Un personal trainer molto popolare. Nella sua lista d’attesa ci sono solo donne. «Oggi lavori?», gli chiedo, appoggiando il caffè sul comodino.
Micky mi segue e si lascia cadere sul bordo del letto. «Ho due sessioni questo pomeriggio». Mi stringe la coscia quando gli passo davanti, facendomi strillare. «Quando hai intenzione di rimetterti in forma?»
«Mai!». Rido. «Preferirei infilarmi un ferro incandescente negli occhi».
«Un po’ di squat non ti farebbe male».
Sbuffo all’allusione e mi metto un paio di jeans. «Hai abbastanza culi da ammirare, non devi per forza torturare il mio».
Lui sorride maliziosamente. «A proposito, ho appena accettato una nuova cliente».
Mi allaccio i jeans. «Sposata?», domando, togliendomi la canottiera e infilandomi una maglietta degli U2.
«No». Sorride. «Sai che limito le clienti sposate a cinque per volta. Solo un’ora al giorno, devo essere professionale. Cinque ore a settimana!».
Rido di gusto. È un donnaiolo esagerato, ma è anche uno dei migliori personal trainer di Londra. Le donne fanno la fila per essere piegate, allungate e manipolate in posizione dal mio più vecchio amico. Per altre ragioni oltre il benessere fisico. «Dev’essere estenuante».
«Lo è quando ti tentano costantemente durante ogni sessione. Una mano che mi sfiora la coscia qui, un sedere spinto in faccia là».
«Se è così difficile evitare di fissarle, dovresti fare lezione solo a donne single. O uomini».
«Ho bisogno di gestire diversi clienti. E comunque, quelle sposate si impegnano di più», dice, e io alzo le sopracciglia. Micky alza gli occhi al cielo. «Durante l’allenamento», precisa.
«Quindi non sei mai stato tentato?»
«Mai!». Scuote la testa con vigore. «Adoro troppo le mie gambe per rischiare che un marito infuriato me le spezzi, grazie mille».
Raccogliendo i capelli in una coda alta, ridacchio e mi infilo le infradito. Conosco Micky da secoli. Siamo cresciuti insieme. Abbiamo giocato a mamma e papà insieme. Ce la siamo spassata nella piscina per bambini insieme. Lui ha anche messo i chiodi nel recinto allargato per il mio coniglio quando avevamo dodici anni. I nostri genitori erano, e sono ancora, migliori amici.
«Allora, com’è andata la prima notte?», mi domanda, dando dei colpetti alla coperta.
«Penso di non aver mai dormito così a lungo». È un buon segno. «Dài. Sbarazziamoci di quella roba così riesco a capire dove sistemare tutto il resto».
Entriamo nel salotto e io inizio ad attaccare post-it gialli su tutto ciò che non voglio tenere mentre Micky mi segue, spostando tutto da un lato della stanza. «Ehi, quella la prendo io». Micky toglie il post-it da una minicassettiera che tenevo sulla toletta nella mia vecchia camera. «Devo pur mettere gli elastici da qualche parte».
Rido e continuo ad attaccare i post-it sulle cose che non voglio. «Carino lo chignon», dico, e Micky lo tocca con un sorriso. A dire la verità, Micky potrebbe rasarsi a zero ed essere ancora carino. È carino e basta. Gli occhi marrone chiaro sono sempre allegri e ha il mento sempre coperto da un po’ di barba. È fico, ma per me è solo Micky.
«Grazie». Sbatte le palpebre.
«Ehi, sabato prossimo andiamo a bere qualcosa. Vieni?»
«Certo», risponde immediatamente. «Ci sono anche Lizzy e Nat?». Muove su e giù un sopracciglio con fare allusivo.
«Non ci provare nemmeno. Sanno entrambe che sei una sgualdrina». Non può farne a meno. Io, Nat e Lizzy siamo le uniche donne in tutta Londra insensibili al fascino di Micky.
«Ahi!», ride sotto i baffi, prendendomi per il collo.
«Lasciami, coglione!». Mi libero dalla presa e mi raddrizzo, spingendolo via quando comincia a saltellarmi intorno, con i pugni alzati davanti alla faccia.
«Ehilà!». La voce di mia madre arriva fino in salone, seguita dal suono dei suoi tacchi sul pavimento di legno.
Do una botta veloce al bicipite di Micky e lui grida scherzosamente. Seguo l’eco della voce di mamma fino a che non la trovo in corridoio, attenta a non far impigliare la gonna plissé nelle scatole impilate lungo il muro.
«Oh, guarda che soffitti alti!», canticchia. «E la mensola portafoto!».
Appoggio la spalla sullo stipite della porta e la guardo con un sorriso mentre si avvicina a me. Micky mi raggiunge, accostando il petto alla mia schiena.
«Michael!», grida lei, allungando il passo per raggiungerci. «Fatti abbracciare!». Praticamente mi spinge via per arrivare a lui. «Fammi vedere che belle guance». Gli stringe il mento con forza, e io rido. «Dove sei stato? Sono settimane che non ti vedo!».
«Ho lavorato tanto, June».
Mamma gli sorride, lasciando andare la sua faccia. «Quand’è che farai della mia Annie una donna onesta?».
Micky mi guarda di traverso, proprio mentre io alzo gli occhi al cielo. «Non appena lei accetterà». Sorride perfido, perfettamente consapevole di cosa sta facendo, come sempre quando mia madre parte per la tangente riguardo la nostra amicizia.
Micky non vuole uscire con me. È troppo impegnato a saltare da un letto all’altro, e io sono troppo presa dal costruirmi una carriera. La nostra relazione è puramente platonica – ed entrambi siamo felici così. Non c’è mai stato nulla più che amicizia fra noi. Nessuna scintilla. Nessuna intesa. Niente. Spesso mi chiedo se altri uomini possano risvegliare qualcosa in me, perché se Micky Letts non ci è riuscito, allora è possibile che nessun altro uomo ci riesca. Le donne gli cadono ai piedi anche solo a un accenno di sorriso disarmante. E io? Non sento niente. Penso di essere anormale.
Mamma si sistema la borsa al braccio e tira fuori una busta di plastica piena di prodotti per la pulizia. «Sono venuta ad aiutarti!».
«Vestita così?», le domando, osservando la camicetta bianca, la gonna plissé e le scarpe col tacco.
«Bisogna sempre apparire al meglio, cara». Tira su col naso. «Tuo padre arriverà presto con la scatola degli attrezzi. Allora, da dove cominciamo?»
«Io me ne vado», dice Micky, afferrando una scatola con un post-it giallo prima di dare un bacio sulla guancia a mia madre e di uscire dalla porta, con le mani piene. Mi lancia un bacio quando mi passa davanti.
Io sorrido, e quando mi volto trovo mia madre armata di guanti di gomma gialli e una bottiglia di detersivo.
«Diamoci da fare», canticchia entusiasta.