Capitolo 28
Bip. È l’unica cosa che sento. Questo suono maledetto ha messo radici nel mio cervello – i picchi di rumore brevi, acuti e ripetitivi mi assaltano le orecchie. Sono sicura che non ascolterò altro per l’eternità.
Il mio mondo è nero e non posso muovermi. Il corpo mi sembra pesante – tanto pesante, e il dolore alla testa è terribile. Mi sento come se il cervello stesse rimbalzando contro il cranio. Mi fa male tutto – la testa, le ossa… anche la pelle.
Perché sento così tanto dolore? Dove sono? L’oscurità in cui sono immersa non mostra segni di voler sparire. Non ci sono luci da nessuna parte, e non importa quanto cerchi di convincere me stessa a muovermi, non ci riesco. Gli occhi non vogliono aprirsi e non posso parlare. Non riesco a fare nulla.
La mente va nel panico, e questo si trasforma velocemente in una paura nuda e cruda. Nella mia testa sto cadendo a pezzi, isterica e spaventata. Piango, ma non sto piangendo. Mi agito, ma non mi muovo. È il mio inferno personale, e inizio a chiedermi se è proprio lì che mi trovo. Sono morta?
Bip!
Questo suono. È insopportabile.
Bip!
Vengo sorpresa da uno spasmo della palpebra, e rimango in attesa, domandandomi se me lo sia immaginato. Spingo via la paura e aspetto un altro po’. Un altro spasmo, stavolta di entrambe le palpebre. Mi concentro sui muscoli degli occhi, spronandoli ad aprirsi.
Sono piena di speranza quando rilevo un altro spasmo – piccolo, ma chiaramente presente. Vedo un bagliore di luce, che mi spinge a continuare. Ne voglio altra. Non posso più sopportare questa oscurità. Metto da parte il dolore e raccolgo la determinazione e la forza.
Bip!
Mi si aprono gli occhi, e sembra che i polmoni si risveglino di conseguenza. L’aria entra dentro di me a fiotti e mi riempie il corpo. Chiudo velocemente gli occhi quando sobbalzo. È troppo difficile tenerli aperti con la combinazione di luce intensa e dolore lancinante che mi attraversa il corpo.
Non posso urlare. Non posso muovermi per mettermi in posizione fetale e arginare l’agonia. Le lacrime si accumulano dietro le palpebre, e dagli angoli degli occhi mi scendono lungo i lati del viso fino alle orecchie. Provo a regolare il respiro, inspiro ed espiro, e il dolore si riduce un poco.
Poi riapro gli occhi, un po’ per volta, strizzandoli per proteggerli dalla luce. Vedo l’ambiente intorno a me più definito. Non riconosco nulla. Sembra una stanza d’ospedale.
Bip!
Se riuscissi a far funzionare qualcosa, mi metterei a sedere. O scenderei dal letto per trovare qualcuno che mi dica che diavolo sta succedendo. Provo a girare la testa e il movimento scatena un’ondata di dolore che mi assale. Grido nella mia testa. Oh, Dio, non ho mai sentito un tale dolore. Le lacrime aumentano, offuscandomi la vista.
Bip!
E poi lo vedo.
È accasciato sulla sedia accanto a me, addormentato, con la testa sostenuta da una mano e il gomito sul bracciolo. Sembra tormentato, anche nel sonno. Il grigiore della pelle è simile al colore dei suoi occhi, e la barba è più lunga di quanto l’abbia mai vista. Indossa jeans vecchi e una maglietta bianca, con una coperta sulle gambe.
Il mio Jack.
All’improvviso, il dolore non mi sembra così brutale.
Mi tiene la mano senza stringerla. Vedo un braccialetto. Ha due ciondoli. Io & Te.
La vista di Jack e del braccialetto spalanca le porte della mia mente. Chiudo gli occhi, andando volontariamente incontro ai ricordi. Sono in un bar con Jack a bere tequila. Lui mi lecca. E io lo fisso, confusa e completamente meravigliata. Sono in piedi dalla parte opposta della strada. Lui mi spinge contro un muro ruvido, e poco più tardi contro il vetro liscio di una finestra in una stanza d’hotel. Mi sveglio in un letto con la sua bellezza sdraiata accanto a me. Corro. Rivivo ogni momento della settimana a seguire, ricordo di essere stata ossessionata dall’intensità del nostro incontro e di rimpiangere di non avergli lasciato alcun modo per contattarmi. Vedo il suo volto quando apro la porta di casa la sera della festa. Sento il vetro che si rompe ai miei piedi. Sento le sue carezze e tutte le sue parole, rivivo ogni bacio e ogni pensiero doloroso. Sento le sue braccia che mi circondano quando lo travolgo dopo che mi ha dato una soluzione per il problema del tetto. Lo vedo seduto dall’altra parte del tavolo della sala riunioni intento a guardarmi come se fosse l’uomo più orgoglioso al mondo. Vedo un test di gravidanza. Vedo la moglie e lo sguardo pazzo negli occhi. E alla fine vedo un’auto che corre verso di me.
Bip!
Spalanco gli occhi e annaspo, gonfiando il petto. Altro dolore, ma questa volta è peggiore. Questa volta so perché mi fa tutto male.
«Annie». Sento Jack in lontananza e giro gli occhi, vedendolo sospeso sopra di me con un’espressione grave. «Annie?». Allunga un braccio sopra la mia testa e sbatte la mano contro qualcosa prima di riportare l’attenzione su di me e guardarmi agonizzare nel letto.
Mi accarezza la faccia mentre lo guardo con gli occhi spalancati e terrorizzati. «Gesù, piccola». Singhiozza, spingendo di nuovo il bottone con forza. «Andiamo!». Si guarda alle spalle quando irrompono nella stanza per attività frenetiche, spalancando la porta. «È sveglia ma penso che abbia le convulsioni».
Un’infermiera appare sopra di me, allontanando Jack. «Annie?», mi chiama forte. Troppo forte. Tira in giù la palpebra inferiore, osservando da vicino. «Annie, mi senti?».
Annuisco, sforzandomi di riprendere il controllo per frenare il dolore. Qualcuno mi mette una maschera d’ossigeno e io respiro voracemente. La botta di ossigeno mi dà un sollievo istantaneo, allargandomi le vie respiratorie e cacciando via il panico.
«Sta bene?», domanda Jack, comparendo al fianco dell’infermiera. Ha un aspetto terribile – consumato, stanco e ansioso.
«Senti dolore, cara?», mi chiede l’infermiera, ignorando Jack.
Annuisco ancora, e lei guarda immediatamente dall’altra parte del letto. «Controlla la cartella clinica e dimmi quando è stata l’ultima volta che le hanno dato la morfina. Per via endovenosa».
«Alle otto di stamattina», risponde una voce femminile. «Proprio dopo la prima trasfusione».
«Dalle un’altra dose».
«Subito».
«Annie, ti daremo altro antidolorifico, cara. Non ci vorrà molto, okay?». L’infermiera si sbriga ad appendere alla flebo un’altra sacca di liquido e io chiudo gli occhi, accogliendo l’infusione fredda nel mio corpo, nella speranza che intorpidisca non solo il corpo spezzato, ma anche la mente. La porta si chiude in silenzio e io provo a rilassarmi, concentrandomi sulla presenza di Jack. È qui. Andrà tutto bene perché lui è qui.
«Annie, mi senti?».
Avverto il suo tocco sulla punta delle dita e costringo gli occhi ad aprirsi, con la testa reclinata comodamente di lato. Jack avvicina la sedia al letto e si siede sul bordo, chinato in avanti per prendermi la mano fra le sue, stringendomela leggermente.
«Ciao, bellissima», sussurra, con un’espressione piena di trepidazione. Non ha importanza quanto sia terribile il suo aspetto. Scommetto che mi trovo in condizioni peggiori. Fletto un poco la mano nella sua, il mio modo di rispondere, e lui sorride con le labbra tremanti mentre fa un lungo sospiro e lascia cadere la fronte sul nostro groviglio di mani sul letto.
Io gli fisso la nuca per un’eternità, raccogliendo le forze per parlare, calmata grazie alla morfina che mi allevia il dolore. «J… ack». Pronuncio il suo nome con la voce spezzata, e scopro di poter sollevare di poco la testa ora che il dolore non mi impedisce ogni movimento.
Lui alza il capo di scatto, molto più velocemente di me. «Non ti muovere, piccola», si sbriga a dire, spingendomi con gentilezza la testa sul cuscino. «Non ti muovere».
«Sono rigida», mi lamento, sentendomi come se dovessi riassestare ogni osso nel corpo, specialmente nel bacino.
«Non ti devi muovere». Jack si avvicina e traffica con il cuscino, senza fare molta differenza, ma io lascio comunque che si prenda cura di me.
Il braccio mi sembra di piombo e quando abbasso lo sguardo vedo che è nascosto in un’ingessatura, dalla punta delle dita fino alla spalla. È dritto come un fuso. Guardo Jack, che mi osserva mentre io esamino i danni. O meglio, uno di essi. Mi tiene il volto ispido vicino, gli occhi grigi offuscati. Mi bacia delicatamente all’angolo della bocca, e io riesco a fare un piccolo sorriso.
«Meglio?», domanda, osservandomi la faccia in cerca di qualche segno di fastidio.
Annuisco. «Come stai?», gli chiedo mentre lui praticamente crolla sulla sedia, chinandosi in avanti per poggiare le braccia sul letto e tenermi la mano.
Fa un piccolo sbuffo divertito. «Non chiedermi come sto quando sei tu quella che sembra essere stata investita da un autobus».
«Era una macchina, vero?», rispondo semplicemente e senza emozioni, facendo raddrizzare Jack.
«Te lo ricordi?»
«Chi la guidava?».
Inizia a sistemare le lenzuola intorno alle mie cosce, fuggendo il mio sguardo. «Non ne parliamo ora». Sta cercando di evitare la conversazione che prima o poi dovremo affrontare, ma preferisco toglierla subito di mezzo. «Per ora pensiamo a farti guarire».
«È stata lei, non è vero?». Non intendo permettere alle emozioni di trapelare dalla mia voce, e mi odio con tutta me stessa quando non ci riesco, perché l’espressione di Jack è una maschera di pura sofferenza.
«È stata arrestata sul posto», sussurra. Io distolgo lo sguardo, stringendo le labbra per bloccare urla disperate ed evitare di ferirlo ancora. «Ha detto di non averti visto sulla strada».
«Mi ha visto», dico piano, guardandomi la pancia, e non voglio fargli la domanda che più mi preme. Nel mio campo visivo appare la mano di Jack, appoggiata leggermente sulle coperte sul mio ventre. Lo guardo, gli occhi pieni di lacrime pronte a cadere. «Nostro figlio?», mormoro, posando la mano sulla sua, sperando e pregando che il mio corpo malridotto abbia protetto mio figlio non ancora nato. «Per favore, dimmi che nostro figlio sta bene».
Lacrime rigano le guance di Jack quando scuote la testa. E il mio cuore si spezza in due. «Non posso». Deglutisce, con il volto distorto dal dolore. «Non posso, Annie. Mi dispiace», sussurra. «Mi dispiace così tanto».
Vengo scossa da un pietoso pianto singhiozzante, e di conseguenza tutto il corpo sobbalza. Sono in agonia. «No», gemo, con gli occhi pieni di lacrime che, a loro volta, fanno aumentare quelle di Jack. «No». Il corpo comincia ad avere spasmi incontrollabili, e il mio mondo esplode in una nebbia di devastazione. «No, no, no!».
Jack si alza immediatamente dalla sedia e si china sul letto, avvicinandosi il più possibile per confortarmi. «Mi dispiace», singhiozza, nel disperato tentativo di consolarmi mentre piangiamo l’una fra le braccia dell’altro. «Mi dispiace».
Scuoto la testa, per nulla pronta ad accettarlo, e nascondo il volto nel suo collo. «Ha ucciso nostro figlio».
Jack non dice nient’altro – non si scusa, non prova a calmarmi. Ha solo l’energia per abbracciarmi e piangere a dirotto con me.
L’oscurità ritorna, e così il dolore. Ora, però, è un’agonia. Lei ha provato a uccidermi ed è riuscita a uccidere nostro figlio. Questa è la mia punizione. Per tutte le decisioni sbagliate che ho preso, per aver toccato ciò che era proibito, questa è la pena estrema.
Non riuscirò mai a perdonarmi.