Capitolo 19
Non chiedetemi cosa
sto facendo perché non sarei in grado di dirvelo. È un po’ la
storia della mia vita ultimamente. So solamente che dentro di me
sto agonizzando, soprattutto perché nel profondo so che non ho
alcun diritto di sentirmi tradita. È una sensazione stupida. Forse
è il karma. Forse il destino ha scelto che Annie Ryan non merita di
essere felice. Non merita di avere ciò che vuole disperatamente
perché ha mentito e ha barato per provare a ottenerlo.
Scendo dal taxi davanti casa
mia, con Tom che mi segue da vicino. Chiude la portiera e il rumore
rimbomba nell’aria notturna. C’è stato un momento fuori dal locale,
niente di troppo spinto, ma è stato abbastanza per chiedermi se
volessi compagnia, abbastanza perché rispondessi di sì. Risalendo
il vialetto, metto in dubbio le mie azioni e che cosa ne uscirà di
buono. Non ho risposte. Mi sto vendicando perché sono oltremodo
ferita e ora sto assumendo un comportamento autodistruttivo. Infilo
la chiave nella serratura, apro la porta e lascio che Tom mi segua
dentro.
«Bella casa», dice,
chiudendosi la porta alle spalle. «Vivi qui da molto?»
«Solo da qualche mese»,
rispondo, diretta in cucina. «Tè, caffè, alcol?»
«Quello che prendi tu».
La risposta mi fa esitare un
istante mentre sposto lo sguardo fra la teiera e i calici di vino.
Sembra stupido che qualcosa di così semplice come scegliere cosa
bere possa aprire la strada al resto della serata. «Va bene
bianco?», gli chiedo, tirando giù due bicchieri.
«Per me va bene». Raggiunge
le doppie porte che danno sul piccolo giardino. «Mi piace questo»,
dice, aprendo le porte mentre io verso da bere. «Vivo al quinto
piano di un palazzo. Niente spazi aperti».
Prendo i bicchieri e lo seguo
in giardino. «Tieni». Gli porgo il vino e lui solleva il bicchiere
prima di bere un sorso. «Alla salute», rispondo.
Si dirige verso il salice
piangente e tira indietro dei rami, sbirciando nel mio posto
segreto. «È davvero fico».
«È il mio angolo di pace»,
dico, ricordando inaspettatamente gli strazianti gemiti di piacere
di Stephanie. E poi il grugnito di Jack. Li risento a ripetizione.
Ancora e ancora, sempre più forti. Faccio una smorfia, chiudendo
gli occhi, ma Tom interrompe il mio tormento interiore. «Non mi hai
ancora detto che lavoro fai».
«Sono un’architetta».
«Bello. Hai progettato
qualcosa che potrei conoscere?»
«Come la Scheggia o qualcosa
di altrettanto inconfondibile?», gli chiedo con un sorriso
scherzoso.
Tom ride. «So che il tizio
che ha progettato la Scheggia era un italiano. Tu non sei italiana,
e non sei un uomo». Mi fa l’occhiolino, facendomi ridere.
«Si chiama Renzo Piano.
Sfortunatamente, non sono affatto al suo livello, ma forse un
giorno…». Alzo le spalle.
Tom sorride e fa un passo
avanti, colmando la distanza fra noi fino a lasciare solo una
manciata di centimetri. Alzo gli occhi e vedo lo sguardo indagatore
e dolce. «Spero di non aver capito male».
Si avvicina e io trattengo il
respiro, in attesa che le sue labbra incontrino le mie, e quando
succede, riprendo a respirare e mi rilasso, accettando il bacio. Ha
le labbra morbide e tenere, e muove lentamente la bocca sulla mia.
Mi si svuota la mente. È un sollievo. Un momento di tregua. Non
posso perdere l’opportunità di liberarmi dalle catene mentali con
cui mi sono legata. Anche se solo per un momento.
Con il bicchiere di vino in
una mano, uso il braccio libero per posarlo sulle sue spalle
larghe, ricambiando il bacio. La mia disponibilità lo spinge ad
accelerare il ritmo. Mi aspetto che questo mi faccia dimenticare il
dolore, ma capisco di avere torto quando l’oscurità si riempie
improvvisamente di immagini di Jack. Provo a scansare il suo volto
bellissimo, e sento che Tom mi sta facendo scivolare il vestito
dalle spalle, scoprendo le bretelle del reggiseno. Il reggiseno che
mi ha comprato Jack. Io persevero, aumentando l’intensità del bacio
nella speranza di superare quest’impasse, ma un rumore forte ci
interrompe e Tom si stacca velocemente, guardando verso la
porta.
«Che cosa è stato?», chiede,
un po’ stordito.
«Non lo so». Mi muovo verso
la casa per indagare, e non appena entro in cucina vedo Jack
venirmi incontro di corsa dal salotto. Mi blocco, scioccata. Sembra
esagitato, gli occhi feroci. Mi fissa, gonfiando il petto sotto la
giacca, con la camicia fuori dai pantaloni, il gilè sbottonato e il
nodo della cravatta allentato. È un disastro, e quando sposta
l’attenzione su quello che c’è dietro di me, serra la mascella fino
quasi a spezzarla, perché ha visto che non sono sola.
Temo che Jack possa esplodere
da un secondo all’altro e attaccare il mio ospite. Non posso permetterglielo.
Mi volto verso Tom. «Mi
dispiace, penso sia meglio che te ne vada». Gli tolgo il bicchiere
di vino dalla mano e lo poso sul tavolo, e non mi piace il cipiglio
che rivolge a Jack.
«Chi è questo?», domanda Tom,
con gli occhi fermi sull’apparente squilibrato sulla soglia della
mia cucina. Sento Jack prendere un respiro e aspetto che dica
qualcosa, ma rimane in silenzio. Che cosa può dire? Che è l’uomo
sposato che mi scopa?
«Un amico», dico io,
prendendo Tom per un braccio. «Ti accompagno alla porta».
Guidandolo verso l’ingresso, guardo Jack con la mascella tesa come
la sua. Lui si sposta per farci passare, allargando le narici con
fare aggressivo. Capisco che si sta trattenendo dal non saltare
addosso a Tom per picchiarlo a sangue.
«Non credo sia un bene
lasciarti da sola con lui», dice Tom quando raggiungiamo la porta.
È aperta, e la serratura è circondata da schegge di legno.
Scuoto la testa fra me e me.
«Non è pericoloso», borbotto piano, cercando di sorridere.
«La tua porta dice
tutt’altro». Accigliato, Tom indica il legno distrutto.
Mi sento così in colpa per
averlo trascinato in questa situazione. «Mi dispiace tanto».
«Un ex?», domanda Tom,
alzando un sopracciglio, e io annuisco soltanto, perché che altro
potrei dire? «Non penso ti abbia dimenticata», ride. «Spero che
sistemiate le cose». La sua sincerità triplica il mio rimorso.
Chinandosi, mi dà un bacio sulla guancia. «Però se non succede,
ricordati di me, okay?».
Gli stringo un braccio.
«Grazie per il vino e la chiacchierata».
«Di nulla. Ci vediamo,
Annie».
Tento più volte di chiudere
la porta, ma non ci riesco. I danni sono enormi: mancano pezzi di
legno, altri sono a terra. Ha dato un calcio alla porta per
aprirla? Ha davvero dato un calcio alla porta e ha fatto irruzione
in casa mia come se avesse qualche diritto su di me?
Torno in cucina e lo trovo
appoggiato al muro, con la testa all’indietro, il respiro ancora
pesante e i pugni stretti. Quando mi sente entrare, si stacca dal
muro e mi guarda con una smorfia sulle labbra.
«Dov’è Stephanie?», gli
chiedo, imitando la sua posizione minacciosa.
«Non me ne frega un cazzo!»,
sbraita, facendomi indietreggiare quando si raddrizza e mi indica.
«Non mi importa quanto sia irragionevole, non ti vedrai con altri
uomini! Come cazzo hai potuto farmi questo?».
Come ho potuto fargli questo?
Come ho potuto io fare questo a
lui? «Stronzo egoista!». Do una botta
al calice sul tavolo, facendolo volare per la cucina e poi
schiantare sul muro. Il rumore del vetro infranto riempie l’aria,
riecheggiando all’infinito. «Pensi che mi sia piaciuto sentire te e
lei insieme?».
Jack trasalisce, gli occhi
spalancati e guardinghi. «Ci hai sentito?»
«Nel bagno alla galleria!»,
grido. «Non potevi nemmeno aspettare di tornare a casa per
scopartela!». Mi devo coprire le orecchie per provare ad attenuare
i suoni che ricorrono nella mia testa. Sento le mani di Jack
attorno ai miei polsi che cercano di tirare via le mani dal viso.
«Non mi toccare!». Cerco di scacciarlo, turbata e isterica, in
preda a un pianto incontrollabile.
«Annie, per l’amor del
cielo!». I suoi tentativi di calmarmi si fanno più vigorosi e mi fa
girare per bloccarmi le mani dietro la schiena, spingendomi contro
il muro. Si preme contro di me per tenermi ferma, il fiato corto
come il mio. «Calmati».
Stretta come sono fra il muro
e il suo corpo non potrò scappare, ma ciò non impedisce a me di
tremare incontrollabilmente, né a fiumi di lacrime di bagnarmi le
guance. «Vattene», singhiozzo. «Vattene».
«Non vado da nessuna parte»,
promette, spostando la presa sui miei polsi per tenerli solamente
con una mano. Chiudo gli occhi, cercando l’oscurità che possa
riempire il mio mondo, ma non posso fare a meno di urlare
disperata. Jack attende che i singhiozzi diminuiscano prima di
parlare, tenendomi immobilizzata. «L’ho portata al bagno per farla
calmare, Annie. Inciampava ovunque, aveva cominciato a urlare e a
dire cose sempre più offensive e volgari».
«L’ho sentita gemere e ho
sentito te grugnire, cazzo. Ti stava dicendo di toglierle il
vestito. L’hai fatto? Le hai tolto quel cazzo di vestito,
Jack?».
Mi fa girare, tenendomi le
mani dietro la schiena, strette contro il muro. La barba sulla sua
mascella serrata si muove per la rabbia. «Stava provando a
spogliarmi. Era ubriaca, Annie. Io ho solo cercato di togliermi
quelle cazzo di mani di dosso. Non stavo grugnendo, stavo
sussurrando perché avevo sentito qualcuno entrare in quel cazzo di
bagno!».
Poggio la nuca sul muro, nel
tentativo di sfuggire alla furia sparata dai suoi occhi
arrabbiati.
«Mi stai ascoltando?», mi
ruggisce in faccia. «Hai sentito una cazzo di parola di quello che
ti ho detto?».
Annuisco, con il mento
tremante e il viso che mi brucia.
«Se fossi rimasta
un minuto in più in quel bagno,
avresti sentito la litigata. Mi avresti visto andarmene incazzato.
Avresti visto Stephanie dare uno schiaffo a una cameriera per
avermi guardato il culo».
Ingoio il mio terrore, e mi
riesce impossibile essere sollevata o grata. «Che cosa?».
Ride sardonicamente. «Oh sì,
è stata uno spettacolo epico stasera».
«Avresti dovuto dirmelo»,
sussurro.
«Non me ne hai dato la
possibilità». Jack chiude gli occhi, rilassandosi contro di me, poi
si scansa e si tira su la camicia, dandomi le spalle. Mi copro la
bocca con una mano quando vedo lo stato della sua schiena: rossa,
scorticata e gonfia. Sono inorridita.
«Ogni volta che la guardo,
Annie», dice lui piano, «vedo la minaccia nel suo sguardo. Sa che
nella mia testa l’ho già lasciata». Stringe fortissimo i denti
mentre lascia ricadere la camicia e si gira verso di me, con gli
occhi grigi che scavano profondamente nei miei. «Non mi renderà le
cose facili, anche senza sapere di te».
Tiro su col naso, sentendomi
assolutamente in colpa. Sta attraversando tutto questo da solo –
affronta Stephanie e le sue manipolazioni ogni giorno, e io ho
seppellito la testa nella sabbia.
«Sei l’unica cosa che mi fa
andare avanti mentre cerco di sistemare questa situazione di merda.
Non rinunciare ora, piccola. Per favore». Jack abbassa lo sguardo
sulla mia spalla e io lo guardo stringere di nuovo i denti. Con una
mano percorre delicatamente la spallina del reggiseno. Non è un
gesto d’affetto.
Capisco cosa lo ha fatto
infuriare non appena mi rivolge uno sguardo disgustato. «Indossi il
completo che ti ho regalato», sussurra. Sta provando a calmarsi.
Non ci riesce per niente. Prendendomi per le spalle, mi
immobilizza. «Indossi la biancheria che ti ho regalato e saresti
andata con un altro uomo?».
Scuoto la testa
docilmente.
Lui indietreggia. «L’hai
baciato? Dimmi che non l’hai baciato».
Entro subito in modalità
difensiva. «Ho passato gli ultimi mesi ad accettare il fatto che tu
vai a letto con lei ogni notte. Non
con me. Con lei». Una nuova ondata di
lacrime sgorga libera. «Dovrei esserci io al suo posto». Tossisco
mentre piango, guardando altrove.
Jack emette un sibilo e mi
lascia andare facendo un passo indietro. «Tutto questo è tossico»,
borbotta, passandosi una mano fra i capelli, frustrato.
Senza lui a sorreggermi, mi
cedono le gambe e scivolo giù lungo il muro. Lui si strofina
duramente gli occhi con le nocche, lasciando cadere la testa
all’indietro.
«So che hai paura delle
ripercussioni, Annie», dice, stavolta con calma. «Fidati, ho paura
anch’io, ma ho chiuso».
Il cuore mi batte forte nel
petto quando lui si inginocchia di fronte a me, prendendomi per
mano e avvicinandosi. «Annie, ascoltami». Mi stringe le mani, con
un’espressione estremamente seria. «Se continuo a rimanere in
quell’inferno, di me non rimarrà nulla». Mi lascia le mani e mi
afferra le guance, tenendomi il viso mentre io continuo a versare
lacrime. «Sono perdutamente innamorato di te, donna, e odio questa
situazione incasinata che ci tiene lontani. Non mi importa delle
conseguenze. Non posso permettere che mi manipoli. E non mi importa
di ciò che la gente penserà di me quando la lascerò». Mi bacia la
fronte e tiene la bocca lì, e io gli stringo le spalle. «Abbiamo
camminato con la testa fra le nuvole per troppo tempo, piccola. Non
mi accontenterò più di un amore part-time. Voglio stare con te.
Ogni giorno in cui temporeggio è un giorno che potevo passare al
tuo fianco. È un altro pezzo di me che perdo».
Crollo fra le sue braccia,
sentendomi come se tutto stesse precipitando. Penso al dolore e
alla devastazione all’orizzonte, ma so che sarà peggio di quanto io
possa immaginare. «Non voglio perderti», mormoro debolmente,
consapevole che Stephanie ha la possibilità di manipolare Jack, di
farlo sentire in colpa e di influenzare la sua decisione. Come può
essere felice sapendo quanto lui è infelice?
«Non mi perderai, lo giuro su
Dio». Fa un respiro profondo quando stacca le labbra dalla mia
fronte e mi guarda negli occhi, assicurandosi che io ricambi lo
sguardo. «Non sarà facile, ma finché saprò che alla fine sarai mia,
posso sopportarlo». Gli tremano voce e labbra. «Ho una paura matta
che deciderai che non varrà la pena di soffrire e mi
lascerai».
«No!», grido, afferrandogli
le mani sul mio viso. «Non potrei mai lasciarti. Ti amo troppo».
Odio il fatto che sembri sollevato, come se ne dubitasse. Non
gliel’ho detto a parole, ma gliel’ho fatto capire in ogni altro
modo. Non mi sarei mai messa in questa situazione se non fossi
guidata dall’amore. Quello che fa andare avanti. Quello che fa
respirare e dà vita. Jack è la mia vita. È colui che mi fa battere
il cuore. È tutto.
Lui annuisce e mi accarezza
la testa prima di portarmi una mano sul collo e massaggiarlo.
«Allora lo faremo insieme. Troveremo una soluzione».
Crolla a sedere e mi trascina
a sé, tenendomi stretta come non mi ha mai tenuto prima. Il cuore
gli batte forte, l’emozione è resa evidente dal modo in cui
continua a deglutire. «Ti amo. Non mi pentirò mai di non essermene
andato quella sera», mi dice piano.
Sorrido nonostante la mia
penosa condizione, stringendolo forte per sottolineare senza parole
i miei sentimenti. «Attraversare quella strada per raggiungerti è
stata la mossa migliore che abbia mai fatto».
Continua a baciarmi la testa,
toccandomi ovunque mentre mi accoccolo fra le sue braccia,
calmandomi al suo tocco. «Andrà tutto bene». Allontanandosi da me
con delicatezza, fa un sorriso pieno della preoccupazione e della
paura che sento anch’io. «Dovrei andare», dice a malincuore,
proprio quando gli squilla il telefono. Con un respiro esausto,
guardiamo entrambi lo schermo. Il nome di lei ci fissa e porta con
sé un’altra ondata di sconforto.
«Dov’è?»
«A casa. Sono uscito quando
mi ha graffiato».
Sussulto, ma vengo colpita da
una fitta di rabbia. Quanto prima lui se ne va, tanto meglio. Si
alza e mi tira su in piedi, scostandomi i capelli dal volto
bagnato. «Devo ripararti la porta prima di andare». Prendendomi per
mano, mi guida all’ingresso dove la porta è letteralmente
scardinata. Jack non può ripararla. Sarebbe bloccato qui tutta la
notte.
«Chiamerò un fabbro».
«Non ti lascio qui con la
porta sfondata».
«Allora non avresti dovuto
sfondarla», borbotto.
«Allora non avresti dovuto
portare un uomo…». Gli metto velocemente una mano sulla bocca, e
lui spalanca gli occhi. Poi apre la bocca, si sposta un po’ e mi
morde la mano.
«Ahi!», urlo, ritirandomi
velocemente, ma mi toglie ogni possibilità di vendicarmi quando mi
afferra per la vita e mi tira a sé. Prende le mie braccia e se le
mette sulle spalle, e si avvicina fino a toccarmi il naso con il
suo. Lo guardo con un’espressione corrucciata. Lui ridacchia
lievemente. Non ho idea del perché. Questa sera è stata divertente
quanto un film horror. «Perché diamine stai ridendo?», gli chiedo
indignata.
«Perché se non ridessi, mi
renderei ridicolo piangendo come un cazzo di bambino».
Sospiro. «Faresti meglio ad
andare».
I suoi occhi perdono subito
la loro brillantezza. «Non voglio lasciarti».
«Non hai altra scelta», gli
faccio notare, staccandomelo di dosso e spostandomi verso la porta
prima che inizi a implorarlo di restare.
«Possiamo vederci domani?»,
mi chiede Jack. «Sono in ufficio tutto il giorno, ma posso uscire
per l’ora di pranzo».
Mi sforzo di tenere le mani
ferme lungo i fianchi quando mi si ferma davanti con lo sguardo
speranzoso. Dopo tutto ciò che è successo stasera, voglio solo
fiondarmi addosso a lui, gettarlo sul pavimento e accoccolarmi sul
suo petto. E nasconderlo da lei. «Sei
in ufficio? Ma è sabato».
«Devo recuperare delle
cose».
Ed è un modo per allontanarsi
da casa. «Dove?», chiedo.
«C’è un locale dietro al
molo».
«È piuttosto vicino al tuo
ufficio, no?»
«È sabato. Non ci sarà
nessuno dell’ufficio».
«Okay», accetto senza
esitare. Se a Jack sta bene, allora non ho alcuna ragione per
rifiutare. «A mezzogiorno? Mi vedo con Micky per un caffè alle
dieci. Non dovrei dilungarmi troppo».
«A mezzogiorno», conferma
lui, fermandosi davanti alla porta e osservando nuovamente il legno
rovinato. «Chiama subito il fabbro e fammi sapere quando arriva».
Si gira e mi guarda severo.
Sospiro. «Non posso mandarti
un messaggio».
«Sì, puoi e lo farai. Non
riuscirò a dormire finché non saprò che è riparata».
Sta diventando forse un po’
troppo indulgente? Tutti i segnali indicano in quella direzione. Mi
sfonda la porta, mi dà appuntamento per pranzo, mi dice di
scrivergli quando sarà a letto. So che ha preso una decisione, ma
deve comunque muoversi cautamente, oltre a pensare a quando e come
fare ciò che deve. Al solo pensiero, il sangue mi si raggela.
Dopo un bacio sulla guancia,
scende lungo il vialetto. «Ti scrivo l’indirizzo del
ristorante».
«Okay. Ci vediamo domani».
Chiudo la porta come meglio posso, poi vado a cercare il telefono
per chiamare un fabbro. Non sono in grado di darmi un orario
preciso, perciò, una volta avvertito Jack, non ho altra scelta che
rimanere seduta sul divano ad aspettare, quando l’unica cosa che
vorrei fare è buttarmi a letto e spegnere la mente. Ho perso le
speranze, però. Lui la lascerà. Verrebbe da pensare che sia la cosa
che ogni donna innamorata di un uomo sposato vorrebbe sentirsi
dire, ma dato tutto ciò che so, sono piena di paura anziché di
euforia.
Paura per Jack.
Il mio Jack.