Capitolo 20
Mi sveglio a causa
di forti rumori– dei colpi implacabili e causati dal terrore.
Alzandomi stordita, incespico per il corridoio fino alla porta
d’ingresso, provando a risvegliare la mente assonnata mentre scuoto
un braccio intorpidito. È tutto un formicolio, il che vuol dire che
la mia mano si rifiuta di afferrare la maniglia della porta per
aprirla. Incoraggio mentalmente i miei muscoli a svegliarsi mentre
i colpi alla porta continuano, e la testa mi fa sempre più male
dopo ogni botta al legno. «Un attimo!», grido, cambiando mano e
spalancando la porta.
Ringhio prima che i miei
occhi assonnati mettano a fuoco il colpevole. Mi sveglio subito
quando una sagoma sfocata palesa Jack. Sembra un po’ agitato. «Che
stai facendo?»
«È l’una», brontola, entrando
in casa e chiudendosi la porta alle spalle. «Non hai risposto al
messaggio con l’indirizzo del ristorante, e non ti sei proprio
fatta vedere». Mi punta un dito contro. «Ero
preoccupatissimo!».
Sbatto le palpebre un paio di
volte, assorbendo tutto ciò che mi ha appena urlato. «È l’una?»,
sbotto in preda al panico, girandomi e correndo nel salone per
cercare il cellulare. «Dovevo vedermi con Micky alle dieci!»,
grido, gettando i cuscini del divano in aria. Niente telefono.
Infilo le mani fra i cuscini, cercandolo a tastoni.
«Cerchi questo?». Jack prende
il telefonino dal mobiletto della tv e
lo tiene sospeso.
«Sì!». Gli corro incontro e
glielo tolgo di mano, scoprendo che la batteria è scarica.
«Merda!». Lo attacco immediatamente alla presa e attendo impaziente
che si accenda. Comincia a emettere suoni, un caos di squilli e
notifiche, quando si accende. Sussulto a ogni suono, vedendo le
chiamate perse e i messaggi apparire sullo schermo; non solo da
Micky, ma anche da Nat e Lizzy. Immagino che lui le abbia chiamate
per cercare di scoprire dove sono. Scorrendo fra i messaggi, leggo
che ognuno di loro mi ha scritto per sapere dove cazzo sono e se è
stata una bella scopata. Chiamo velocemente Micky, temendo che
possa essere diretto qui per rintracciarmi. «Cazzo», borbotto
quando mi risponde la segreteria. «Sono io. Mi sono svegliata ora».
Rido come una scema. «Chiamami!». Una volta terminata la
telefonata, è il turno di Nat, a cui dico la stessa scusa,
allontanandomi da Jack quando lei mi chiede a un volume un po’
troppo alto se questa mattina sono ancora in grado di camminare. Lo
guardo di nascosto, e lo vedo allargare le narici con un’aria
pericolosa. «Ti chiamo più tardi», dico, attaccando. Poi chiamo
Lizzy. Potrebbe non essere così facile liquidarla.
«Dove cazzo sei finita?», mi
saluta appena risponde.
«Ho dormito fino a tardi».
Faccio una smorfia, in attesa del suo sbuffo incredulo. Conosco
Lizzy da dieci anni e in tutto questo tempo non ho mai dormito fino
a tardi. Non così tardi, ad ogni modo. Guardo Jack e lo vedo alzare
gli occhi al cielo, segno della sua irritazione.
«Vengo lì per controllare che
tu non sia morta».
«Non ce n’è bisogno!». Lancio
uno sguardo terrorizzato a Jack mentre si accascia sul divano. «Sto
per andare a casa dei miei».
«Oh. Okay. Allora com’è
stato? Lo rivedrai? Mi piace Tom il Giocatore di Rugby!».
Volto le spalle a Jack e
rabbrividisco. «Non posso parlare ora».
«Oh, mio Dio! È ancora lì?».
Squittisce entusiasta. «Chiamami più tardi! Voglio ogni dettaglio
sporco».
«Va bene». Attacco e getto il
cellulare sul divano, esausta dopo l’enorme sessione di cazzate.
«Non posso credere di aver dormito così tanto». Non dovrebbe essere
una sorpresa. Il fabbro si è presentato alle quattro di mattina e
io sono andata a letto solo alle cinque.
«Non preoccuparti», brontola
Jack. «Non mi hai mica fatto venire un infarto o roba
simile».
«Che pensavi mi fosse
successo?», gli chiedo, diretta in cucina. «Non c’era il rischio
che il pazzo che mi ha distrutto la porta tornasse».
«È qui ora», risponde, con
voce bassa, roca e… vicinissima a me.
Mi giro e vado a sbattere
contro il suo petto. «Oh!». Mi afferra e mi solleva ad altezza
labbra, e poi mi saluta con un lungo bacio appassionato. «Mmm»,
sospiro, rilassandomi sotto i movimenti fluidi e lenti della sua
lingua. «Ciao anche a te».
«Cazzo, mi sei mancata».
Tiene le nostre labbra unite mentre mi rimette a terra.
«Sono passate solo dodici
ore».
«Ogni minuto mi sembra un
secolo», borbotta imbronciato. «Non ho chiuso occhio, sono
sopravvissuto alla mattinata in trance e ho passato tutto il tempo
in cui sono rimasto ad aspettarti al ristorante a battere la
forchetta sul tavolo». Si tira indietro e mi guarda con
un’espressione corrucciata.
Ed è solo ora che lo vedo. Un
brutto segno rosso sullo zigomo. Fisso la macchia, piena di
furia.
«Non è niente». Si copre e fa
un passo indietro, evitando il mio sguardo furioso.
«Niente?», chiedo,
sbalordita. Niente? Sento che sto
tremando a causa della rabbia crescente. Ieri sera l’ha scorticato
con le sue cazzo di unghie, e ora questo? «Tu non potrai reagire,
Jack, ma non c’è niente che possa impedire a me di farlo». Gli
passo davanti infuriata, determinata a trovare Stephanie e a
fargliela pagare per tutti i segni che ho visto su Jack
e per quello che non ho visto.
«Annie, smettila». Mi avvolge
un braccio intorno alla vita e mi solleva in aria,
fermandomi.
«Non può farti questo!»,
grido, dimenandomi per liberarmi dalla sua presa. «Te lo giuro,
Jack, le spezzo quelle cazzo di braccia così non potrà più
toccarti!».
«Annie, calmati, cazzo». La
sua voce è calma, composta, mentre mi riporta in cucina.
«Tu non farai nulla». Mi rimette a
terra e mi lancia uno sguardo di avvertimento.
Non è giusto. «Come ti
sentiresti se mi ritrovassi con uno di questi addosso?», gli
chiedo, indicando il graffio, e con una smorfia immagino la mano di
lei colpirgli la faccia. La sua bellissima faccia.
Il ringhio basso e minaccioso
di Jack mi dà la risposta che cercavo. «Non fare domande stupide,
Annie».
«Non è stupida, è una domanda
legittima. Voglio saperlo».
Ha un’espressione letale.
«Ucciderei».
«Non ho altro da aggiungere».
Stringo le labbra in una linea sottile.
Jack cerca di mostrarsi
paziente. «Non sono venuto per litigare con te. Per favore, lascia
che me ne occupi io».
Apro la bocca per
controbattere, ma lui la copre con il palmo della mano. Stringo gli
occhi, arrabbiata.
«Per favore». La supplica
trapassa la mia furia come un ago, e mi sento un groppo in gola.
Gli sto causando altro stress, dandogli un’altra cosa di cui
preoccuparsi. E sebbene voglia fare a pezzi la moglie, mi placo,
tirando via la sua mano dal volto in modo da poter parlare.
«Scusa».
«Non chiedere mai scusa per
amarmi così tanto». Mi passa le dita
fra i capelli e mi afferra la nuca. «Hai capito?». Annuisco e Jack
mi imita. «Bene. Ora fai il caffè». Mi pianta un bacio sulla punta
del naso, mi gira fra le sue braccia e mi spinge via con una
sculacciata.
Mi accingo a prepararne uno
forte e bollente, ma mi fermo prima di mettere il caffè in polvere
nella mia tazza gigante. «Dov’è lei ora?», domando,
voltandomi.
«Sta venendo qui per un
caffè», risponde lui frivolamente.
Il suo tentativo di
risollevare il morale non mi diverte neanche un po’. «Non sei
divertente».
«È andata dai suoi». Alza gli
occhi al cielo, come se dovessi saperlo. «Abbiamo…». Aggrotta
leggermente la fronte. «Be’, non è andata molto bene quando sono
tornato a casa». Indica il segno sul viso, e per la prima volta mi
chiedo perché l’abbia colpito.
Oh, cazzo, l’ha capito? Ieri
abbiamo lasciato una catena di indizi. Forse ha messo insieme i
pezzi? Oppure Jack le ha detto che la lascerà? Inizio a sudare, e
poi mi faccio forza per la domanda più importante. «Che cosa è
successo?»
«Il solito». Alza le spalle
in modo apatico. «Non le ho detto quello che voleva sentirsi dire,
quindi ha tirato fuori le unghie e ha cominciato a urlare. È andata
dai suoi. È il compleanno del padre. Sono venuti a prenderla e
l’hanno portata a casa loro per fare baldoria stasera con tutti i
parenti, amici e colleghi. L’idea di rimanere seduto lì a far finta
che la mia vita sia perfetta, a far finta di essere la coppia
perfetta non mi piace per niente. Chissà perché».
Verso due cucchiaini di
zucchero nel caffè – proprio come piace a lui – e giro,
guardandolo, mentre penso a come abbia raccontato tutto ciò con
disinvoltura. Perché ci è abituato – alle tragedie, alle liti, ai
graffi – e non è una cosa normale. Gli porgo il caffè e mi appoggio
al ripiano della cucina, avvolgendo le mani intorno alla mia
tazza.
«Comunque». Beve un sorso
veloce e si libera le mani per prendere la mia. Io oppongo
resistenza, bevendo un grande sorso di caffeina prima che possa
togliermela. Ride sottovoce quando posa la tazza sul tavolo, poi mi
afferra i fianchi, chinandosi per avvicinare il volto al mio. «Ora
basta. Dovresti essere la mia isola felice».
«Isola felice?», domando,
tirandomi lentamente indietro quando mi fa scivolare una mano sulla
vita prima di spostarla più giù e accarezzarmi l’interno coscia, a
pochi centimetri dall’inguine. Mi irrigidisco.
«La mia isola felice»,
dichiara, trattenendo un sorriso.
Io esclamo scioccata e
completamente finta. «Che sfacciato!».
Jack ride, una risata
veramente allegra che mi penetra la pelle e mi trafigge il cuore.
Si china e mi prende in spalla. Io grido, ridendo, mentre esce
dalla cucina tenendomi ferma con una mano sulle cosce. «Il caffè!»,
protesto, sebbene non me ne importi nulla, ma senta comunque il
bisogno di opporre resistenza.
«’Fanculo al caffè», sbuffa.
«Ho qualcosa di molto più gustoso per farti svegliare».
Sorrido come una scema e mi
reggo ai suoi fianchi, guardandogli il culo mentre attraversa il
corridoio per arrivare in camera. Atterro sul letto con una risata.
Jack si toglie la giacca e la butta via con noncuranza, si slaccia
la cravatta e poi si sbottona velocemente la camicia. Io rimango
ferma e contenta mentre lo guardo spogliarsi, leccandomi le labbra
con fare provocante quando si tira giù i pantaloni sulle cosce
sode. Si toglie scarpe e calzini, e infine i pantaloni, rimanendo
solo in mutande. Abbasso lo sguardo sul suo inguine. È duro, la
sagoma del cazzo, ormai ben evidente, mi chiama. Infilando le dita
nell’elastico dei boxer, li spinge giù e lo libera. Mi manca il
respiro dall’impazienza crescente.
Gli faccio cenno di
avvicinarsi con una mano, ma lui scuote la testa, tenendosi la base
in una presa lenta. «Togliti la maglietta», ordina, la voce tesa e
decisa. Io prendo subito l’orlo della maglietta e la tiro sopra la
testa, scoprendomi il seno e i capezzoli rosa e induriti. Lui
sorride, gli occhi brillanti. «Ora vieni qui». Gattono verso il
bordo del letto, gli occhi fissi sulla sua erezione finché con la
punta del naso non arrivo a toccare la punta del cazzo. Ha qualcosa
di molto più gustoso del caffè. Non si sbagliava. Tiro fuori la
lingua, impaziente e affamata, ma lui si tira indietro prima che
possa toccarlo, distruggendomi.
«Vuoi assaggiare?».
Provo a sembrare calma e
indifferente. Ci provo. Ma all’improvviso scaccio la sua mano e
avvolgo le labbra intorno alla sua carne. Gli addominali di Jack si
contraggono e lui si china per provare a sfuggire dalla mia bocca
perfida. Non glielo permetto.
«Santo cielo, Annie». Mi
mette una mano in testa e me la spinge verso di sé. «Cazzo!». Il
latrato sorpreso di piacere si trasforma presto in un gemito
profondo di estasi.
Lo guardo negli occhi mentre
mi sposto in avanti, mettendomi comoda, per gustarmi la sensazione
della pelle tesa e vellutata del suo membro che entra ed esce dalla
mia bocca. Getta indietro la testa, la gola tesa, mostrandomi ogni
sussulto che fa deglutendo. E sono molti.
Ha un sapore divino. Più
buono del caffè. Preferisco questo rispetto alla caffeina. Le mani
nei capelli si fondono con la mia testa e lui inizia a ruotare i
fianchi per venire incontro ai movimenti della mia bocca. Uso anche
la mano per raddoppiare il piacere. Poi lui fa aumentare il
mio piacere, lasciandomi andare la
testa per toccarmi il seno con entrambe le mani. Ora sono io a
gemere, e il ritmo vacilla per un momento, il tempo di abituarmi
alla sensazione delle sue carezze sulle tette mentre vado su e giù
con la testa, con la punta del cazzo che sbatte ogni volta contro
il fondo della mia gola. Sento borbottii, gemiti, grugniti di
piacere e disperazione. Mi eccitano. Facendo scivolare la mano
sulla sua pancia, scendo fra le cosce e gli accarezzo le palle con
gentilezza. Trema. «Ooohh… Diooo».
Sorrido e mi allontano fino a
liberare il cazzo, poi faccio girare la lingua intorno alla punta,
guardandolo mentre lascia ricadere la testa in avanti. Ha gli occhi
chiusi, ma pongo rimedio con un piccolo morso alla punta. Li apre
di scatto, socchiusi e pieni di desiderio.
«Meglio del caffè?», chiede.
Respira pesantemente e abbassa lo sguardo sulle mani che ancora mi
stanno massaggiando i seni. Dovrei essere io a fargli quella domanda, ma, invece di
rispondergli, inizio a muovere la mano a ritmo sostenuto e in una
morsa stretta.
«Porco…», esclama, scattando
in avanti con le gambe instabili, e la presa sulle mie tette sempre
più brutale. Faccio una smorfia ma resisto al leggero disagio,
andando avanti e indietro a un ritmo trionfale. «Merda…
Annie…».
Gli lecco la punta mentre
continuo a lavorare di mano, e quando percepisco che sta per
venire, avvolgo la bocca intorno alla punta e succhio. È la sua
fine. Esplode in un flusso di imprecazioni, e anche diversi
avvertimenti. Lo prendo tutto in bocca, sentendolo venire in fiotti
lunghi e corposi, riversandomi il suo seme in bocca.
«Oh, Gesù Cristo», ansima,
strofinando l’inguine contro la mia bocca nel tentativo di
riprendere fiato. Si libera e mi cade addosso, schiacciandomi sul
letto con il corpo pesante e sudato. Sorrido, soddisfatta, e
ingoio. «Sei incredibile», ansima, con la sua mole che mi tiene
bloccata.
«E ora ho davvero bisogno di
quel caffè».
Ride e fa uno sforzo per
tirarsi su sui gomiti per guardarmi in faccia. Io ignoro la macchia
sullo zigomo e gli rivolgo un sorriso abbagliante, piuttosto
soddisfatta di me stessa. «Ne prenoto uno per ogni giorno della
nostra vita insieme».
«Ti costerà qualcosa», lo
avverto.
«Dimmi un prezzo,
piccola».
La sua richiesta mi fa
esitare. Stavo scherzando. Non avevo niente di specifico in mente.
«Posso pensarci?»
«Sì, ma hai tempo solo fino a
domani». Si china e mi bacia la fronte, poi si sdraia supino.
Io mi alzo sui gomiti,
guardandolo. «Che succede domani?». Ha deciso che domani è il
giorno in cui dirà a Stephanie che è finita? Ancora una volta
comincio a sudare freddo, e non ha niente a che fare con lo sforzo
per il pompino fatto a Jack.
Gira la testa di lato. «Me ne
farai un altro». Si indica il cazzo semieretto, poi indica la mia
bocca.
Mi calmo un poco, sdraiandomi
accanto a lui. Solo un poco, perché una cosa di cui non abbiamo
parlato è quando intende dirglielo.
Devo saperlo. Devo prepararmi… e magari trovarmi in un altro Stato.
Non volevo chiederglielo, e non avevo certo intenzione di farlo, ma
continuare ad avere tutti questi piccoli infarti non mi farà bene.
«Jack, non te lo chiedo per farti pressione, ma potresti dirmi più
o meno quando pensi di…». Interrompo la domanda. Non so perché non
riesco a finire.
«Ci ho provato questa mattina
prima che i suoi venissero a prenderla». Scuote la testa e
distoglie lo sguardo. «Ma ogni volta che provo a pronunciare le
parole… è come se sapesse cosa sto per dire, e mi fa degli sguardi
da pazza per ricordarmi cosa mi devo aspettare».
«Sei sicuro che lo sa?»,
domando. Forse si sbaglia. Non capisco se è meglio che lei se lo
aspetti o meno.
«Oh, lo sa. Ieri notte a
letto ha…».
«Ehi!». La mia espressione è
a metà fra l’ilarità e lo sgomento, e non riesco a credere che
abbia appena detto quelle parole.
Lui gira la testa di lato e
mi guarda incredulo, stringendomi la mano. «Ascolta», mi ordina
piano, perciò mi preparo con un respiro profondo e una smorfia. «Ho
dormito nel letto degli ospiti ieri sera, per ovvie ragioni».
Chiude gli occhi e rabbrividisce. «È entrata nel mio letto nel
cuore della notte. L’ho spinta via, Annie». Jack si indica il segno
sul viso. «Lo sa». Vedo ogni tipo di emozione nei suoi occhi grigi,
e anche un pizzico di senso di colpa. E lui deve vedere la paura
nei miei, perché continua subito. «Non mi costringerà a rimanere.
Te lo prometto».
Rimango in silenzio per un
momento a pensare. Deve tirarsene fuori. Deve tirarsene fuori
subito, e la stessa cosa varrebbe anche se non ci fossi io nella
sua vita. È una situazione di merda. «Le dirai di me?», chiedo,
mordendomi il labbro nervosamente.
«Dio, no». Scuote la testa
con veemenza. «No. Voglio tenerti il più lontano possibile da lei,
il che sarà la cosa più difficile perché so che avrò bisogno di
te».
Vuole tenermi lontano dalla
linea di tiro. Vuole proteggermi dalle ripercussioni. In realtà,
però, le cose non saranno poi così diverse. Dovremmo comunque fare
le cose di nascosto perché nessuno potrà sapere di noi due, il che
mi porta a un’altra domanda. Tuttavia non la esprimo. Quanto ci
vorrà prima che possiamo anche solo… stare insieme? Quanto tempo
deve passare perché una persona vada avanti con la propria vita?
Quanto tempo deve passare perché una donna inizi a frequentare un
uomo che ha appena lasciato la moglie? Mesi? Anni?
Mi chiudo in me stessa per un
po’, chiedendomi quanto tempo devo aspettare prima che Jack sia
mio. Solo mio. Una parte di lui era meglio di niente. Non potevo
voltargli le spalle. Non posso. La mia unica via d’uscita non è per
niente tale. Mi sembra più una punizione. Quando Jack la lascerà,
la gente vedrà in che stato si ritroverà Stephanie, perché senza
dubbio cadrà in una spirale distruttiva. Giudicheranno Jack e se
verranno a sapere di me, giudicheranno anche me.
«Annie?». La voce ansiosa di
Jack mi fa distogliere lo sguardo dal soffitto. È preoccupato
mentre mi stringe la mano. Intrecciando le dita alle mie, mi tiene
stretta, come se percepisse i miei pensieri scoraggiati e temesse
che potrei alzarmi e andarmene.
«Se si venisse a sapere di
noi, darebbero la colpa a me», mormoro, tornando a guardare il
soffitto. «Per tutti, sarò stata io la causa del dolore e dello
sconvolgimento di una donna, e in pratica lo sono, Jack. Non
importa da quale parte la si guardi. Mi sento come se dovrò
scontarlo per il resto della vita».
«Ehi». Jack si gira verso di
me, sdraiandosi su un fianco mentre io rimango supina a guardare in
alto. «Non sei stata tu la causa, Annie. Sei solamente un
sintomo».
Faccio una risata leggera.
«Dài, Jack. Chi pensi che davvero ci crederà? È un mucchio di
stronzate. Se quella sera non mi avessi incontrato al pub, saresti
rimasto sposato, felicemente o no. In questo momento, sono parte del motivo per cui vuoi lasciarla. È
questo il punto. Non ho intenzione di illudermi che gli altri non
la vedranno così se si verrà a sapere di noi due».
«Ti amo». Pronuncia frustrato
le tre parole a denti stretti. «L’ho già lasciata una volta,
ricordi? Qui non si tratta di pensare che l’erba del vicino è più
verde, né di essere travolti e sconvolti da sesso fantastico e
dall’eccitazione». Mi prende il viso e lo avvicina al suo in modo
da guardarmi negli occhi. «Non mi faccio illusioni, Annie. Ho perso
la testa per te. Non mi importa cosa penserà la gente se lo
scoprisse, ma farò del mio meglio per assicurarmi che non si verrà
a sapere. Ho bisogno di tenerti lontana da tutto ciò». Jack mi dà
un bacio leggero all’angolo della bocca. «Ho una sola possibilità
su questa terra. Una sola vita. Non posso passare i miei giorni con
qualcuno con cui non dovrei stare.
Vorrei averti incontrata quindici anni fa. Ma non è successo. Non
posso tormentarmi per questo». Il suo sguardo diventa offuscato
mentre lentamente mi passa un pollice sul labbro inferiore,
seguendo il movimento con gli occhi. «Posso solo essere grato che
alla fine sei apparsa». Torna a guardarmi negli occhi lentamente, e
io sento il labbro tremare sotto il suo dito. «Siamo io e te contro
il mondo, piccola. Non arrenderti, capito?».
Faccio una smorfia di
tristezza, sentendo la gola chiudersi, e mi giro per sistemarmi sul
suo petto e affondare la faccia nell’incavo del collo, bisognosa di
vicinanza e conforto… di Jack. «Ti amo». Mi trema la voce, così
piena di emozioni, e premo il corpo contro il suo quanto più posso.
«Rimarrò al tuo fianco se tu rimarrai al mio».
«Non ti lascerò mai, Annie.
Per nulla al mondo».