Capitolo 10
La tensione nello spazio ristretto dell’auto di Jack è palpabile. Per tutto il tragitto, mi ritrovo ad agitarmi sul sedile, nel tentativo costante di dissuadermi dal commettere qualcosa di stupido. Come tuffarmi dall’altra parte della macchina e prendermi ciò che so per certo è capace di darmi. Ciò che so che vuole. Oppure dire qualcosa di stupido, ad esempio quanto pensi a lui. O come sto combattendo contro il mio istinto di lasciare che mi prenda.
Quando parcheggia di fronte a casa mia, mi tuffo letteralmente fuori dall’auto e salgo di corsa le scale verso la porta, armeggiando con la serratura per entrare. Sono percorsa da brividi. Il bisogno di correre indietro da lui è troppo forte.
È sposato!
Sbatto la porta e corro in cucina, togliendomi il soprabito e le scarpe, e decido che mi serve un bicchiere di vino per provare a calmarmi. Vino, e forse un bagno. Niente lavoro stasera. Niente più pensieri.
«Porca puttana!», strillo, afferrando la porta della cucina, e per poco non mi arrampico sul legno. «Oh mio Dio!».
Sento tutto il colorito svanire dalla mia faccia mentre fisso un paio di occhietti che mi guardano dal pavimento della cucina – occhi che appartengono al topo più grande che abbia mai visto in vita mia. Il cuore mi batte a mille nel petto e io, aggrappata alla parte superiore della porta, cerco di tenere i piedi sollevati dal pavimento. Mi fissa soltanto, del tutto indisturbato e con una faccia tosta del cazzo.
«Oh mio Dio, oh mio Dio, oh mio Dio!».
Siamo in una situazione di stallo a fissarci, io appesa alla porta, il topo della stazza di un elefante pronto a difendere la sua posizione al centro della cucina. Poi, quando all’improvviso si muove, urlo, guardandolo con orrore mentre si dà alla fuga e sparisce dietro una credenza.
«Topo!», strillo, staccandomi dalla porta e correndo come un fulmine in corridoio verso la porta d’ingresso. La spalanco e sento nell’aria notturna l’eco dell’impatto quando il legno sbatte forte contro il muro. Poi incespico per le scale e corro in strada, il più lontano possibile dal mio appartamento. Topi! Oh, Dio, odio i topi, cazzo! Ho il respiro affannato. Sto andando in iperventilazione.
Rabbrividisco da capo a piedi e mi guardo intorno nella via. E ora?
«Annie?». La voce preoccupata di Jack attira la mia attenzione alla mia destra, dove lo vedo in piedi vicino all’Audi dall’altro lato della strada. È ancora qui?
Indico la porta di casa. «Topo», farfuglio docilmente.
Sembra stupito. E poi ride. Ride, cazzo. Non so perché. La situazione è divertente come una brutta infezione. Lo guardo, con un cipiglio di proporzioni epiche, e riesco a vedere oltre la nube di paura e irritazione che sta morendo dal ridere: con una mano si tiene addirittura la pancia. È così dannatamente bello. Quasi divino. Il solo fatto che è qui basta a causarmi un altro crollo nervoso. Con il suo sorriso contagioso e il suono della risata, sono nei guai. Jack… e un topo. Due crisi di nervi probabilmente mi ucciderebbero.
Mi guarda, tutta tremante, dall’altra parte della strada, con un sorriso luminoso e il volto pieno di felicità, e il mondo comincia a girare senza controllo.
Grido dentro di me. Sto decisamente crollando, e il topo è solo in parte responsabile. Jack, il topo… e quella familiare scarica elettrica che rimbalza fra i nostri corpi. Alla fine trova la forza di volontà per smettere di ridere, e dal suo volto capisco che ha compreso la situazione. Lui da un lato della strada e io dall’altro. Ci fissiamo. Tensione. Desiderio.
Il silenzio si protrae dolorosamente. Non lo sopporto, ma prima che possa dire qualcosa per smuovere le cose, Jack parla. «Dove dovrei guardare in cucina?».
Il mio sollievo per il fatto che stia affrontando la situazione con un certo distacco è palese. Faccio un respiro profondo. «È sparito dietro la dispensa accanto alle doppie porte».
«Tu starai bene qui fuori da sola?», domanda. Vedo nei suoi occhi tutte le cose che vorrebbe dire, e in silenzio lo supplico di non farlo.
«Penso che per me sia più sicuro rimanere qui», rispondo piano, sapendo che capirà ciò che realmente intendo. Un topo in casa basta a tenermi lontana. Se ci aggiungessi Jack, la casa diventerebbe la zona più pericolosa al mondo.
Rimango dove sono mentre lui si avvicina lentamente alla porta aperta e attraversa impavido il corridoio senza esitare.
Quella schiena.
Solida e larga.
Le mie unghie affondate nella sua carne mentre entra…
Mi prendo la testa fra le mani, stringendo, come se così facendo potessi schiacciare questi pensieri. È in casa mia. Do le spalle alla porta e guardo piuttosto il cielo mentre cerco disperatamente di evitare che la mia forza d’animo si disintegri. Questa settimana è stata a dir poco estenuante. Vorrei che finisse presto così da poter passare il weekend a ubriacarmi e a ricaricare velocemente la forza di volontà prima di crollare. Prima di addentrarmi in un territorio proibito.
Mi sembra di rimanere ore in attesa. Ore che passo aggrappata alla mia coscienza. Ore che passo ferma dove sono a tenere sotto controllo i miei pensieri. Ore che passo a considerare ogni motivo per cui non devo toccarlo. Né pensare a lui. O ammirarlo.
Mi avvolgo le braccia intorno al corpo e mi giro verso l’entrata dell’appartamento, ascoltando attentamente qualsiasi rumore che possa indicare la sconfitta del topo. Non sento nulla. Rimango in piedi per strada, con un vestitino estivo senza nemmeno le scarpe ai piedi. La temperatura si è abbassata di qualche grado, abbastanza da farmi tremare.
Alla fine Jack riappare sulla soglia. «Andato», dice semplicemente, ma la notizia non mi fa rilassare come dovrebbe, perché c’è ancora un altro pericolo in agguato.
«L’hai ucciso?».
Annuisce, tenendomi inchiodata con uno sguardo duro.
«Grazie», dico piano, osservandolo, e percepisco che è assorto nei suoi pensieri. Non fare domande, non fare domande, non fare domande. Devo tornare dentro casa senza interagire con lui, cosa che potrebbe risultare complicata dato che sta bloccando il passaggio e sembra non avere intenzione di spostarsi per farmi passare.
Attraverso la strada con passi lunghi e disinvolti, nella speranza che scelga l’opzione più saggia e si sposti prima che io arrivi alla porta. Rimane fermo. Anzi, pianta i piedi, occupando tutta l’entrata. «Grazie per l’aiuto», dico con gentilezza, sforzandomi di guardarlo negli occhi per fargli vedere la determinazione nel mio sguardo. Come sempre, è uno sbaglio, ma mi impegno a mantenere il controllo e a ignorare il suo bel viso.
«Annie», sussurra. «Sto facendo una fatica immane».
«Non ho intenzione di parlarne». Deglutisco, spingendolo per riuscire a passare. Mi afferra il braccio e mi tiene ferma. «Lasciami, Jack».
«Ti ho già detto che non posso. Annie, annaspo. Sto impazzendo, e più tempo passo con te, più questa situazione di merda peggiora. Ascoltarti, parlarti, condividere con te una passione che va molto oltre la nottata che abbiamo passato a letto insieme».
«Devi dimenticarla!», grido, consapevole che la rabbia è l’unica soluzione. Devo arrabbiarmi con lui. Lasciare che essa mi domini e mi controlli, perché l’alternativa mi spaventa a morte.
Mi spinge nel corridoio e si chiude la porta alle spalle, costringendomi a indietreggiare. «No», dice, sincero. «No», ripete, facendo un altro passo avanti, ma questa volta non mi muovo. Perché non posso. Perché mi ha immobilizzata con quegli occhi grigi, e ora sono tornati in tutta la loro gloria. Brillano, anche se di rabbia. Solleva le mani e comincia a sbottonarsi la camicia prima di sfilarsela e gettarla a terra, scoprendo il petto che mi tormenta.
Abbasso rapidamente lo sguardo sul tessuto ammonticchiato, con la mente scossa. Quel petto. Quel petto dannatamente perfetto. «Che stai facendo?»
«Non ne ho la più pallida idea». Mi posa una mano sul collo e mi tira a sé. I nostri petti si incontrano e la mia determinazione a respingerlo svanisce sotto il peso della nostra intesa. Ciò che è sbagliato diventa giusto. Il conflitto diventa desiderio.
«Non riesco a smettere di pensare a te, Annie». Mi tocca la fronte con la sua, e con il palmo mi massaggia i muscoli tesi del collo, fino a farmi rilassare nella sua presa. «Ti voglio ancora, e non riesco a trovare la forza per preoccuparmi di quanto poi ti vorrò ancora di più». Sento il suo respiro addosso. «Ho rivissuto quella notte in continuazione. Ho sognato di tenerti fra le braccia ancora una volta. Ho desiderato sentire il suono della tua voce, le carezze, le tue labbra morbide sulle mie. So che non dovrei volerti. Ma ti voglio. Niente prima d’ora mi ha mai fatto impazzire così tanto. Niente prima d’ora ha occupato così tanto spazio nella mia testa. Non posso farne a meno, Annie». Il suo sguardo grigio si riversa su di me, e il mio battito si stabilizza a un ritmo costante. La sua testa comincia a tremare leggermente e le mani a muoversi sulla mia nuca, afferrandomi per i capelli. «Non voglio farne a meno», ringhia. «Ti voglio. Non mi importa quanto sia sbagliato». Stringe di più il pugno, tirandomi bruscamente le ciocche. «So che anche tu hai pensato a me da quando ti ho scopata furiosamente in quella stanza d’hotel. Smettila di negarlo. Non insultarmi dicendomi che non desideri rivivere quella sensazione magnifica. Te lo leggo negli occhi ogni volta che li guardo. Tu. Mi. Vuoi».
Sono io a muovermi per prima. Solo io. Balzo in avanti e premo le labbra contro le sue, cedendo a una forza magnetica. Alle sue parole. A Jack. Al mio cuore. Lo persuado ad aprire la bocca con baci duri, bramosi. Ho perso la testa per un desiderio troppo potente da sconfiggere. E, come Jack, non mi importa quanto sia sbagliato.
Sono perduta.
Eppure, quando mi guida a ritroso finché non colpisco il muro con la schiena, mi sento ritrovata.
Grido, e Jack geme. Siamo goffi e affamati. Mi spinge al muro con la forza dei suoi baci, poi si stacca e mi porta con sé finché non si ritrova lui con le spalle al muro. Proprio come nell’ascensore. L’aria è elettrica. Sono in preda alla passione. Mi tira su, stringendomi a sé, e mi porta in camera da letto. Io mi concentro su di lui. Solo su di lui e sul ritorno di quelle sensazioni che sogno a occhi aperti da quella notte indimenticabile. Il senso di colpa mi ha abbandonato, e io lo lascio andare, non permetterò che nulla mi impedisca di prendere ciò che è proibito.
Mi fa scendere a terra, continuando a baciarmi, e inizia a sbottonarsi i pantaloni mentre io tiro la cinta, nel disperato bisogno di toglierli di mezzo.
«Con calma», borbotta contro le mie labbra, incredibilmente più tranquillo di prima, forse perché ora sono sua. Vogliamo entrambi la stessa cosa. Nessuno dei due è pronto ad accontentarsi di quell’unica volta. Ci ha resi insaziabili. Ci ha provocato. Ha intensificato il desiderio e la trepidazione, perché ora sappiamo cosa aspettarci. Ora sappiamo che rimarremo entrambi a bocca aperta nel migliore dei modi. Ora sappiamo che lui più me uguale incredibile. Non posso resistergli. Ci ho provato; ci ho provato così tanto. Lo voglio. Ho bisogno di lui.
Prendendomi le mani con delicatezza, le frappone tra noi e interrompe il bacio, e io sono costretta ad alzarmi in punta di piedi per provare a mantenere il contatto. Gli brillano gli occhi, pieni di desiderio e voglia incontenibile.
«Voglio andare piano», mormora, tirandomi su il vestito e gettandolo via. «Voglio fare le cose con calma e godermi il fatto che ti ho di nuovo». Mi bacia delicatamente la spalla, e migliaia di lampi di piacere corrono verso il mio inguine.
Emetto un gemito forte, con gli occhi chiusi, mentre lui continua a baciarmi la pelle nuda. Fa scivolare le mani sui miei fianchi, posandole sulla vita.
«Ho fatto una promessa a me stesso, Annie. Mi sono promesso che se il destino ti avesse riportata da me, non ti avrei lasciata andare». Mi prende in braccio e mi porta fino al letto, fissandomi, con le mie braccia attorno al collo. «E ora sei qui».
Si china e mi fa sdraiare sul letto, poi si raddrizza, in piedi davanti a me mentre si toglie i pantaloni, mettendoci una vita per mettere alla prova la mia pazienza. Ho censurato ogni pensiero che prova a entrarmi in testa. Ho paura che il senso di colpa, ora assente, e la mia coscienza torneranno in qualsiasi momento e mi impediranno di prenderlo.
«Per favore, sbrigati», sussurro, guardandolo scoprirsi lentamente. Mi rilasso sul letto, rapita da ciò che vedo, e viaggio con lo sguardo lungo il suo corpo, assorbendo ogni minuscolo dettaglio. Se c’era ancora una speranza di respingere Jack Joseph, è stata appena distrutta. Ho intenzione di fotografarlo mentalmente e di riporre le fotografie in un angolo della mia mente. La sua figura nuda è sospesa sopra di me, il cazzo dritto che pulsa visibilmente.
Fa un respiro profondo e posa un ginocchio sul materasso, seguito da una mano chiusa a pugno vicino alla mia testa per sostenersi. Mi guarda fra le gambe e comincia a tremare leggermente, deglutendo. Per un attimo temo che abbia cambiato idea, ma poi mi mette l’altra mano tra le cosce e spinge per allargarle, incoraggiandomi ad aprirmi a lui. «Metti le braccia sopra la testa», ordina piano, lanciandomi uno sguardo.
Obbedisco senza discutere, nonostante senta il bisogno di toccarlo, del suo contatto. Si porta una mano fra le gambe e si prende il cazzo, e io lo seguo con lo sguardo, affascinata, mentre strofina qualche volta il membro vellutato. Una goccia di liquido compare già sulla punta, e io mi lecco le labbra. «Guarda», sussurra Jack, strofinando in cerchio la punta bagnata contro il mio sesso. Grido, il corpo improvvisamente inarcato. «Guarda, Annie».
Inizio a gemere quando si strofina contro di me, aumentando l’eccitazione. «Jack!», urlo, sforzandomi di tenere le braccia sopra la testa.
«Guarda», ripete, e abbasso lo sguardo fra le mie gambe, sulla sua erezione tenuta saldamente. «Guardami mentre affondo dentro di te». Procede, entrando dentro di qualche centimetro. «Perché conosciamo entrambi che cazzo di sensazione fantastica si prova quando sono dentro di te».
Emetto dei lamenti tormentati, uno dopo l’altro, e sento di essere scossa da violenti tremiti, urlando perché mi penetri completamente. «Jack, per favore…».
Mi guarda negli occhi, l’espressione piena di desiderio sfrenato. «Dimmi quanto mi vuoi».
«Jack!».
«Dimmelo, Annie». Si ritira e con una mossa tattica strofina la punta del cazzo da un lato all’altro della mia carne sensibile. Grido ancora, iniziando a perdere la ragione. Jack annuisce, prendendo atto del mio tormento. «Devo sentirti dire quanto mi vuoi. Dimmelo e poi puoi avermi».
«Ti voglio!», urlo, con la fronte coperta da gocce di sudore. «Jack, ti voglio. Terribilmente. Più di qualsiasi altra cosa».
«Quindi non sono pazzo?»
«No!».
«Lo sapevo, cazzo». Serra la mascella mentre si allinea e si avvicina, entrando dentro di me con una lunga spinta. «Merda», singhiozza, appoggiandosi sui gomiti, con gli occhi chiusi. Trema terribilmente, tanto da scuotere tutto il corpo.
«Stai bene?», gli domando e, sfidando il suo ordine di tenere le braccia in alto, gliele poso sulle spalle e lo tengo stretto. Sembra come se ne avesse bisogno.
Lo sento deglutire, mentre si riprende. «Sto bene», sussurra, voltandosi per baciarmi teneramente su una guancia. «Mi fai sentire così vivo».
Non posso fare a meno di sorridere, anche se con una punta di tristezza. Perché quando ci si sente così vivi, si può andare in un’unica direzione.
Mi cade lo sguardo sui graffi che ha sul collo e il volto della moglie comincia a farsi strada nella mia mente. Deglutisco, nuovamente sopraffatta dai pensieri. «Non pensarci», dice, interrompendo le mie supposizioni. «Per favore. Non pensare a nulla se non a questo momento».
Cerca le mie labbra e mi bacia lentamente, ruotando i fianchi e affondando dentro di me, per poi tirarsi fuori e spingersi di nuovo dentro. Ansimo e trattengo il respiro mentre Jack prende un ritmo preciso che presto porta via i pensieri che macchiano il momento, prova del fatto che è in effetti possibile. Fra le sue braccia, sotto il suo sguardo ardente, è possibile.
I nostri corpi si muovono in perfetta armonia, come se l’una conoscesse perfettamente l’altra anima, le nostre lingue si accarezzano pigre. Rotola sulla schiena e mi porta con sé, seduta a cavalcioni, poi borbotta e scuote la testa quando ruoto i fianchi intensamente, e sento le sue spinte. Le sue dita forti mi artigliano le cosce, e gonfia le guance quando posa gli occhi su di me che lo cavalco lentamente. Mi mette una mano sul collo, tirandomi giù verso la sua bocca. Mantengo il ritmo, muovendo i fianchi e baciandolo come se non ci fosse un domani. Combattere l’idea che questo domani non ci sia veramente è più difficile di quanto voglio ammettere, perché ciò significherebbe affrontare la realtà. Non mi appartiene. Sto prendendo una cosa che non mi appartiene.
«Annie», ringhia, come se mi avesse letto nel pensiero, facendomi sdraiare supina e penetrandomi subito. Ha un’espressione severa, la mascella serrata. «Smettila». Esegue una spinta perfetta e rimane fermo sopra e dentro di me, guardandomi mentre mi sciolgo sotto di lui. «Concentrati sul presente. Su questo. Su di noi».
Grido per la frustrazione, inarcando la schiena sul letto mentre cerco di scacciare i pensieri indesiderati. «Fammi dimenticare!», urlo, gettandogli le braccia sulle spalle per graffiargli la schiena, nascondendo il volto contro il suo collo.
«Dannazione, Annie». Accelera il ritmo, seppellendo la mia coscienza tormentata in un mare di piacere inenarrabile. «Eccoti», mormora Jack, poi mi fa girare la testa e sbatte la bocca contro la mia, inghiottendo i miei gemiti. Dopo aver affondato i denti nel mio labbro inferiore, si allontana e mi fissa. «Dovresti vedere la tua faccia».
«Jack», sospiro, sentendo il piacere che sta aumentando e tenendolo stretto. «Più veloce».
Accelera il ritmo e fa affondi vigorosi, cosicché i nostri movimenti si fanno frenetici mentre entrambi rincorriamo l’orgasmo. «Oh, merda!», grida lui, alzandosi sulle braccia per ottenere maggior forza per le sue spinte. Ha il viso coperto di sudore, gli occhi grigi spalancati dalla meraviglia.
Lo sento ingrandirsi dentro di me, e la pressione diventa troppa. Jack getta la testa all’indietro e grida rivolto al soffitto, fermandosi all’improvviso. Poi fa un movimento secco e il pulsare del suo cazzo, seguito da un gemito basso e rozzo, indica che ha finito. Dopo un respiro profondo, fa una smorfia mentre scivola fuori e poi rientra lentamente, una mossa calcolata con cura per portarmi verso l’estasi con lui. Avvolgo le gambe intorno al suo corpo e lo spingo giù verso di me, stringendo i miei muscoli interni a un ritmo lento e costante. I nostri gemiti sono pieni di soddisfazione, e durano un’eternità finché entrambi ci rilassiamo e, con il respiro affannato, cerchiamo di riprendere fiato.
Mi sento completamente sopraffatta, quasi sollevata che questa volta sia stata esattamente come ricordo la prima. Potente, emozionante e sconvolgente. Simili pensieri mi fanno male. Non dovrei sentirmi sollevata. Dovrei essere nel panico, perché la sola idea di lasciarlo andare è più dolorosa che mai.
Affondo il naso sul suo collo e gli stringo le braccia attorno alle spalle, aggrappata a lui. È così naturale, giusto, e quando lui reagisce, sospirando scoraggiato e stringendomi a sé, comincio a piangere lacrime disperate.
«Basta», sussurra Jack, sopraffatto dall’emozione tanto quanto me. «Per favore, non piangere».
Scuoto la testa contro di lui, nel tentativo di trattenermi, ma mi sento così fragile, insicura e vulnerabile. Sono emozioni nuove per me, e non ho idea di come gestirle. Senza dubbio ho appena reso la mia situazione molto più difficile. So che avrei dovuto resistergli, mandarlo via e rimanere ferma nelle mie convinzioni, ma integrità e ogni scrupolo morale crollano di fronte a lui. Il mio desiderio, e forse anche la mia avidità, rendono insopportabile il pensiero di respingerlo quando è così vicino. Non che lui me lo lasci fare. Sono caduta in un buco nero di disperazione e sebbene sappia di doverne uscire prima di perdermi per sempre, temo che non sarò mai capace di allontanarlo. Ho paura di diventare dipendente da Jack e il fatto che non lascerò che qualcosa si frapponga tra me e ciò che voglio mi spaventa ancora di più. Non il mio senso morale, né la coscienza… e nemmeno sua moglie.
Il silenzio si protrae per troppo tempo, e nel silenzio non posso fare altro che torturarmi. Posso allontanarmi. Posso porre fine a tutto ciò in questo momento. Eppure non lo lascio andare finché lui non si alza, staccando il corpo dal mio e sollevando i fianchi lentamente. Il cazzo quasi eretto si libera e lui si sdraia supino accanto a me, e io rimango lì sentendomi abbandonata e ferita. Lo guardo e vedo che sta fissando il soffitto, un braccio allungato sulla testa, l’altro poggiato sulla pancia. Voglio sapere cosa sta pensando. E non voglio saperlo, perciò prima di lasciare che la mia curiosità abbia la meglio, mi alzo dal letto e vado in bagno, chiudendo la porta.
Mi osservo nuda allo specchio, e con una mano mi tocco le guance bagnate. I capezzoli sono ancora arrossati dall’eccitazione e l’interno delle cosce luccica, bagnato dai nostri orgasmi. Sollevo lo sguardo sul riflesso del mio viso, e vedo i miei occhi verdi scoraggiati. Vedo anche delle parole formarsi nell’aria intorno alla mia testa. Adultera. Debole. Immorale. Puttana senza cuore. Afferro il bordo del lavandino e abbasso la testa, incapace di affrontare me stessa. Non conosco quella donna. Che cosa sono diventata?
Un colpo leggero alla porta del bagno interrompe i miei pensieri pieni di disprezzo verso me stessa e mi fa alzare la testa pesante. «Annie?». La voce delicata di Jack è la prova che sa perfettamente cosa sto facendo qui dentro. Mi sto autoflagellando. Mi sto facendo a pezzi. «Posso entrare?».
Il groppo che ho in gola non mi permette di parlare, perciò annuisco come un’idiota, nonostante non possa vedermi. È un’idea stupidissima invitarlo a entrare, ma sembra che non possa fare a meno di non fare cose stupide. La porta si apre in silenzio e lui infila la testa bellissima guardandosi intorno nervosamente, cercandomi. I capelli scuri sono un groviglio disordinato, gli occhi grigi sono ancora luminosi. Non lo vedo che da pochi minuti, ma è come se lo stessi vedendo per la prima volta. Questo dicono il battito del mio cuore, la temperatura del mio corpo che sale. Lo fisso nel riflesso dello specchio, riluttante a distogliere lo sguardo. O incapace. La comprensione sul suo volto rischia di distruggermi. Apre completamente la porta e mi raggiunge con determinazione, facendomi voltare e tirandomi a sé in un abbraccio stretto.
Le mie emozioni sono troppe per contenerle tutte. «Non sono io questa». Piango contro il suo petto, trovando conforto nell’odore pulito del suo sudore. È un’altra cosa che mi fa tornare alla notte che temo mi perseguiterà per sempre.
«Neanche io, Annie».
«Allora perché siamo qui?».
Mi avvicina a sé e mi avvolge fra le sue braccia. «Perché so che dovrei essere qui», sussurra, quasi solennemente.
Ho una fitta dolorosa al cuore. Penso che chiunque altro al mondo non sarebbe d’accordo con Jack. Dovrebbe stare con la moglie. Non qui con me, e l’idea mi fa male. Non so cosa stia succedendo. È una situazione assurda. È praticamente ancora uno sconosciuto, ma il pensiero di non vederlo più è insopportabile. Ho la domanda “E ora?” sulla punta della lingua, ma qualcosa mi impedisce di parlare. È la paura.
«Vieni», mormora, prendendomi per mano. «Ho bisogno di caffeina». Mi guida attraverso la casa, trovando la cucina senza bisogno di indicazioni, e fa un gesto verso la credenza. «Le tazze?».
Sorrido, nel tentativo di ignorare quanto sia perfetto, nudo nella mia cucina. «Sì».
Lui ricambia il sorriso, tirandone giù due. «Chiedimi perché lo sapevo».
«Perché sei entrato di nascosto e hai rovistato nelle credenze e nei cassetti?».
Fa una risata lieve, allungando una mano verso il mobile in cui tengo il caffè. «Lo sapevo perché io le avrei messe esattamente in quella credenza. E anche il caffè». Fa per aprire il cassetto dove tengo le posate. «E i cucchiai sono qui, giusto?»
«Giusto. E, stranamente, il latte è in frigo».
Chiude il cassetto con un movimento del sedere, battendosi il cucchiaio sul palmo mentre mi osserva. Fa un passo avanti. Io uno indietro. Sorride. Sorrido. Poi si lancia in avanti con fare minaccioso, e io strillo quando mi prende, avvolgendomi un braccio attorno, e mi fa il solletico con la mano libera. «Jack!», esclamo, piegandomi contro di lui. È inutile; il suo peso e la sua forza vinceranno sempre. «Jack, basta!».
«Mi prendi in giro per la mia straordinaria conoscenza delle credenze?»
«No, adoro la tua conoscenza delle credenze!», dico ridendo, assaporando la sua allegria, il suo corpo nudo contro il mio, e il fatto che anche lui avrebbe messo le tazze da caffè in quel mobile.
Finalmente mi lascia andare dalle sue grinfie e mi dà una pacca sul culo. «Finisci di preparare il caffè, bellissima. Io vado in bagno». Esce dalla cucina. «Scommetto che so dove tieni i rotoli di carta igienica».
Ridacchio e preparo il caffè, prima di andare a cercarlo. «Jack?»
«Sono qui», risponde. Seguo il suono della sua voce fino alla soglia del mio studio. Trovo il corpo nudo di Jack chino sul mio tavolo da lavoro e lo raggiungo: è intento a guardare i disegni dell’ampliamento dell’edificio di Colin. Solleva lo sguardo e sorride. «Annie l’architetta».
Rido piano, e ricordo che la notte del nostro incontro mi ha chiamata così. «Jack il simpaticone».
Anche Jack ride, ha gli occhi che brillano. «Ti è piaciuta la mia battuta».
Non posso negarlo, perciò non lo faccio. «Che cosa guardi?»
«Mi stavo solo chiedendo perché hai scelto i mattoni scoperti per il muro interno dell’ampliamento».
«L’arte di Colin è molto moderna. Quasi industriale. L’edificio è dei primi anni del Novecento, e ho pensato…».
«Che il contrasto fra il vecchio e il nuovo potrebbe far colpo», finisce la frase, come se mi avesse letto nel pensiero.
«Esatto». Ho un tuffo al cuore quando Jack mi guarda negli occhi, sorridendo.
«Tra geni ci si intende».
«Già», rispondo piano, porgendogli il caffè. Non sono solo i nostri corpi a muoversi in perfetta armonia, ma anche i nostri pensieri. Mi spaventa pensare a quanto lui sia perfetto per me. A quanto sia stimolante, oltre all’intesa sessuale.
Jack prende il caffè, apparentemente assorto. Mi chiedo se stiamo pensando le stesse cose. Ma non apro bocca.
Gli chiedo, però, qualcos’altro. «Perché?». Lo distolgo dai suoi pensieri, e non ho bisogno di aggiungere altro.
«Sinceramente?», domanda, e io annuisco. Jack aggrotta la fronte e per qualche secondo beve il caffè in silenzio. Qualcosa mi dice che sta prendendo tempo nel tentativo di scegliere se essere sincero. «Dovevo sfogarmi un po’», mi dice. Per poco non sputo il caffè, costringendolo a continuare velocemente. «Non intendo in quel senso. Intendo dire, ubriacandomi. In modo da dimenticarmi di…». Si interrompe e guarda altrove con un sospiro mentre sposta lo sguardo sul tavolo da lavoro.
Indietreggio, studiando l’atteggiamento improvvisamente avvilito. «Sei felice?»
«Quando sono con te, lo sono alla follia. Te l’ho già detto».
«Sai che non intendo quello».
Sorride, ma è un sorriso triste. «No, non lo sono. Ma renderebbe più accettabile il fatto che non posso smettere di pensare a te?».
La domanda mi fa esitare, nonostante la risposta sia facilissima. Facile, ma dolorosa. «No», ammetto, evitando di guardarlo. Niente renderebbe la situazione più accettabile.
In meno di un secondo, Jack mi toglie la tazza dalle mani e mi abbraccia forte. È così bello, così confortevole, come se non portassi il fardello della colpa da sola. Mi rilasso con un sospiro, pensando a come vorrei rimanere così per sempre.
«Il telefono», borbotta Jack piano, lasciandomi andare con riluttanza. Sento il suono della suoneria e lo guardo sparire nell’altra stanza. Lo seguo in camera da letto per cercare la vestaglia. Jack si china e raccoglie i pantaloni, rovistando nelle tasche per tirare fuori il cellulare. So chi è prima che lui guardi lo schermo e incurvi le spalle. Anch’io mi sento prosciugata.
«Stephanie», dice quando risponde alla chiamata. Tiene il telefono fra l’orecchio e la spalla mentre si infila i boxer e i pantaloni e va in corridoio per prendere la camicia, con la mascella serrata. In quel momento sento la voce urlare dall’altra parte della linea. Mi tengo in disparte, come se stessi cercando di fuggire da quella conversazione privata. Jack allarga le narici e stringe brevemente gli occhi. «Scusa. Arrivo il prima possibile», risponde piano e con calma. «Di’ ai tuoi che mi dispiace del ritardo».
Chiude la chiamata, e io rimango in silenzio sulla soglia mentre si abbottona la camicia, la mente a mille. Non ha nemmeno ribattuto alla filippica. Non c’era niente in lui. Nessuna emozione. Abbasso lo sguardo sui miei piedi, fissando la moquette, mentre le domande si moltiplicano. Non posso far altro che arrivare a una sola conclusione, ed è una conclusione che mi spaventa perché potrebbe mandare a puttane quel poco di coscienza che mi è rimasta.
Odio sua moglie.
Il modo in cui gli ha parlato poco fa, la odio per questo. Ma non ho il diritto di odiarla. Ho scopato suo marito. Due volte.
Una volta pronto, Jack rimane in silenzio per un momento, guardandomi dall’altra parte del corridoio. Il mio cuore lo implora di non andarsene. Ma il cervello lo sta già buttando fuori dicendogli di lasciarmi in pace. «Vediamoci domani», dice, e non è tanto una domanda quanto un’affermazione.
Io lo guardo soltanto, restia e incapace a rispondere. Quello che voglio fare disperatamente è chiedergli tutto del suo matrimonio, ma so che non dovrei addentrarmi in quell’argomento. È ridicolo. Come se non stessi già camminando sul filo del rasoio. Eppure ho paura che qualsiasi cosa Jack mi dica diventerà solo un altro motivo utile per giustificare le mie azioni. Sapere che la loro situazione non era delle migliori prima che lo incontrassi non aiuta. Contribuisce solo a supportare il mio ragionamento. È una situazione di merda. Non posso vincere. Perciò faccio la cosa più saggia e tengo la bocca chiusa. Meno so, meglio è.
«Annie», sussurra. «Rispondimi».
Guardo il pavimento, e gli occhi mi si riempiono di lacrime. «Non mi sembrava una domanda», ribatto piano. Ho bisogno che se ne vada, perché non voglio che mi veda crollare nuovamente. Sono sull’orlo del precipizio e inizio a tremare per lo sforzo di trattenermi.
Quando sento il rumore dei suoi passi avvicinarsi, chiudo gli occhi e cerco di farmi forza. Mi accarezza la guancia con delicatezza per qualche secondo prima di chinarsi per baciarmi la fronte. Poi si gira ed esce.
E io crollo a terra e piango come non ho mai pianto prima.
Perché ha detto che se il destino mi avesse riportata da lui, non mi avrebbe lasciata andare.
E lo ha appena fatto.
Per raggiungere la moglie.