Capitolo trentunesimo
Fu tutto perfetto. Anche troppo, forse
Quella sera stessa mi
telefonò Menshiki. Erano già le nove passate, quindi si scusò di
avermi chiamato cosí tardi. Non era riuscito a farlo prima a causa
di un impegno che lo aveva tenuto occupato. Gli dissi che non
andavo mai a dormire tanto presto, e che non doveva farsi scrupolo
per l’ora.
– Allora? Com’è andata?
Stamattina ha lavorato bene, è contento? – mi chiese.
– Sí, sono abbastanza
soddisfatto. Ho completato alcuni disegni di Marie. Domenica
prossima verrà con la zia alla stessa ora.
– Mi fa davvero piacere!
A proposito, che atteggiamento ha avuto la zia nei suoi confronti?
Amichevole?
Amichevole? Strano che
usasse quella parola.
– Sí, mi è sembrata una
signora molto cordiale. Non so se si possa definire proprio
amichevole, ma… in ogni caso, non ha mostrato alcuna
diffidenza.
Gli spiegai brevemente
come si era svolta la mattinata. Menshiki mi ascoltava quasi col
fiato sospeso. Come se volesse cogliere ogni implicazione contenuta
nelle mie parole, senza lasciarsi sfuggire nemmeno il dettaglio piú
insignificante. Era tutt’orecchie, a parte qualche breve domanda
ogni tanto, per il resto del tempo non aprí bocca. Gli riferii ogni
cosa: con che mezzo erano venute Marie e Shōko, che aspetto
avevano, com’erano vestite, cos’avevano detto. Poi gli parlai dei
disegni che avevo fatto. Non gli raccontai però che Marie si
angustiava per il seno troppo piccolo. Quella era una cosa che
doveva restare fra lei e me.
– Forse la settimana
prossima è un po’ troppo presto perché io mi presenti a casa sua,
cosa ne pensa? – mi chiese Menshiki.
– Be’, questo dovrebbe
saperlo lei. Non è una decisione che spetti a me. Per quel che mi
riguarda, non ci vedo alcun inconveniente, può benissimo venire la
settimana prossima.
– Ci devo riflettere, –
disse Menshiki dopo una pausa.
– Non è obbligato a
decidere adesso. Tanto ci vorrà ancora un bel po’ di tempo, prima
che finisca il quadro. Avrà altre occasioni. Per me, ripeto, la
settimana prossima andrebbe bene, ma anche quella
dopo.
Era la prima volta che
Menshiki tentennava prima di agire. Fino ad allora l’avevo sempre
visto prendere qualunque decisione in un batter d’occhio, senza la
minima perplessità.
Pensai di chiedergli se
il mattino ci avesse osservati col binocolo. Se fosse riuscito a
vedere bene Marie e sua zia. Poi cambiai idea. Se non me ne parlava
lui, meglio non fare domande. Anche se in fin dei conti era in casa
mia che si permetteva di spiare.
Di nuovo mi
ringraziò:
– La disturbo sempre con
le mie richieste strampalate, mi deve scusare, –
disse.
– No, guardi che io per
lei non sto facendo proprio nulla, – replicai. – Non è con
quest’intento che ho iniziato il ritratto di Akikawa Marie. È un
lavoro che faccio solo perché mi interessa. Sia ufficialmente che
in sostanza, le cose ormai hanno preso questa piega. Di conseguenza
non ha alcun bisogno di ringraziarmi o di scusarsi.
– Eppure le sono grato,
– disse Menshiki. – In molti sensi.
In molti sensi? Cosa
voleva dire, adesso? Ah, chi lo capisce quell’uomo! Però non gli
chiesi nulla. Era tardi. Ci augurammo la buonanotte e riattaccammo.
Appena messo giú il ricevitore, mi balenò in mente il pensiero che,
quella notte, Menshiki non sarebbe andato a dormire e sarebbe
rimasto sveglio fino al mattino. C’era troppa tensione nella sua
voce. Di sicuro aveva troppe cose su cui arrovellarsi per riuscire
a riposare.
Quella settimana non
successe nulla di speciale. Il Commendatore non comparve, la mia
amante sposata non mi chiamò. Furono giornate molto tranquille. I
boschi intorno alla casa andavano accendendosi degli splendidi
colori autunnali. Il cielo era altissimo, l’aria trasparente, le
nuvole tracciavano eleganti linee bianche che sembravano dipinte
col pennello.
Diverse volte presi in
mano i tre disegni di Marie che avevo fatto per osservarli bene. Di
ognuno, studiavo la postura, l’angolazione… erano molto
convincenti. Ma non volevo usarli come base per il ritratto. Lo
avevo detto anche a lei: quello che volevo, con quei disegni, era
comprendere che tipo di ragazza fosse, farmene un’idea chiara.
Creare con lei una sintonia.
A forza di concentrarmi
su quei fogli, riuscii a dare corpo alla sua immagine. Un’immagine
che a poco a poco venne a confondersi con quella di mia sorella
Komi. Non sapevo valutare se fosse una suggestione sensata o meno.
Eppure da qualche parte − probabilmente in un luogo profondo in cui
io non avevo il diritto di entrare − quelle due ragazzine della
stessa età erano ormai unite da un legame spirituale, e nell’una
riconoscevo l’eco dell’altra.
Mercoledí ricevetti una
lettera da mia moglie. La prima, da quando a marzo me n’ero andato
di casa. Sulla busta, il nome e l’indirizzo del destinatario e del
mittente erano tracciati nella sua bella grafia che conoscevo tanto
bene. Lei usava ancora il mio cognome. Forse le era piú comodo
cosí, almeno finché non fosse arrivata la dichiarazione ufficiale
di divorzio.
Aprii la busta con
attenzione, usando le forbici. All’interno trovai una cartolina con
la fotografia di un orso polare in piedi su un ghiacciaio. Sul
retro, un paio di semplici frasi di ringraziamento per aver firmato
e rispedito subito i moduli.
Come stai, bene? Quanto
a me, tiro avanti, niente di speciale nella mia vita. Abito ancora
nella stessa casa. Ti sono grata di aver rimandato immediatamente i
documenti, grazie davvero. Ti terrò informato dell’avanzamento
delle pratiche.
Fammi sapere se hai
bisogno di qualcuna delle cose che hai lasciato qui. Te le spedisco
per corriere. In ogni caso, spero che sia tu che io d’ora in poi
riusciamo a gestire bene, ognuno per conto proprio, la nostra nuova
vita.
Yuzu
Lessi e rilessi quella
cartolina un’infinità di volte. Cercandoci ogni volta qualche
intenzione o significato recondito. Ma era troppo breve perché ci
trovassi qualcosa di diverso da quello che c’era scritto. Tutto
quello che lei voleva dirmi era chiaramente esposto in quel
messaggio.
C’era una cosa tuttavia
che non capivo: perché ci voleva tanto tempo per completare le
pratiche di divorzio? In sé non era una procedura complicata.
Inoltre per lei, prima annullava il vincolo coniugale con me,
meglio era, probabilmente non desiderava altro. Ma da quando me
n’ero andato di casa, erano già passati sei mesi. Cos’aveva fatto
in tutto quel tempo? Cos’aveva pensato?
Poi osservai bene l’orso
polare della foto. Anche in quello però non riuscii a coglier alcun
significato sottinteso. Perché aveva scelto un orso polare? Mah,
forse aveva usato la prima cartolina che le era capitata fra le
mani. Sí, le cose erano sicuramente andate cosí. Oppure quell’orso
cui non restava che abbandonarsi alla corrente del mare, in piedi
su un piccolo ghiacciaio alla deriva, stava a indicare me? Ma no,
figuriamoci, cosa mi saltava in testa?
Infilai la cartolina con
tutta la busta nel primo cassetto della scrivania. Quando lo
chiusi, ebbi la vaga sensazione che quella storia avesse fatto un
passo avanti. Quel bel rumore secco mi aveva fatto salire di un
gradino. Non era un percorso che facevo io di mia volontà. Qualcuno
(o qualcosa) aveva programmato una nuova fase per me, e io mi
adeguavo a questo suo desiderio.
Mi tornarono in mente le
parole che avevo detto domenica a Marie, riguardo alla vita dopo il
divorzio: «Uno cammina su una strada che crede sia la propria,
quella giusta, e tutt’a un tratto la strada gli viene a mancare
sotto i piedi. Cosí deve avanzare nel vuoto, senza sapere dove va,
senza avere alcun appiglio. Ecco cosa si prova».
Una corrente marina
dalla direzione ignota, una strada che veniva a mancare… l’una o
l’altra, che importanza poteva avere? Tanto si trattava solo di
metafore. Io invece avevo in mano l’originale. Ero nel mezzo di una
vicenda che mi stava inghiottendo. Che bisogno avevo di metafore,
non ci mancavano che quelle!
Avessi potuto, avrei
scritto a Yuzu una lettera in cui le esponevo per filo e per segno
in quale situazione mi trovavo. Non sarei mai riuscito ad
accontentarmi di generiche banalità come: «Quanto a me, tiro
avanti, niente di speciale nella mia vita». Perché nella mia,
invece, di cose ne succedevano fin troppe! Ma se avessi iniziato a
raccontare tutto quello che mi era capitato da quando ero venuto ad
abitare in quella casa, di sicuro avrei finito per dire piú di
quanto fosse opportuno. E tanto per cominciare, cosa stava
avvenendo, intorno a me? Questo era il problema principale. C’erano
diversi fatti che non riuscivo ancora a spiegarmi. Tanto meno sarei
riuscito a parlarne in maniera coerente.
Cosí decisi di non
rispondere a Yuzu. Perché o le scrivevo tutto, dall’inizio alla
fine (infischiandomene della coerenza e della logica), o non le
scrivevo affatto. Optai per la seconda soluzione. Era vero: in un
certo senso io non ero altro che un povero orso abbandonato su un
ghiacciaio alla deriva. Intorno a me, ovunque guardassi, non
c’erano buche delle lettere. L’orso polare non aveva modo di
spedire nulla.
Ricordavo bene il
periodo in cui avevo conosciuto Yuzu e iniziato a uscire con
lei.
La prima volta avevamo
cenato insieme, parlato di tante cose, e mi era sembrato che lei
avesse una certa simpatia per me. Aveva accettato di rivedermi. Fin
dall’inizio, fra noi due si era creata, senza una ragione precisa,
una specie di intesa.
Ci volle però un po’ di
tempo perché la nostra diventasse una vera relazione sentimentale,
perché Yuzu già da due anni era legata a un altro uomo, senza
tuttavia amarlo davvero.
– È un bel ragazzo. Un
po’ noioso, forse. Ma tant’è… – mi disse all’epoca.
Un uomo bello ma noioso…
non conoscendo nessuno che avesse quelle caratteristiche, non
riuscivo a immaginarmi che tipo di persona fosse. Tutto quello che
mi veniva in mente era del cibo che sembrava appetitoso, ma poi non
sapeva di niente. E a chi poteva piacere, della roba
cosí?
– Sai, ho sempre provato
attrazione per i bei ragazzi, – aveva continuato Yuzu con l’aria di
rivelarmi un gran segreto. – Davanti a un uomo con un bel viso,
perdo la testa. Non posso farci nulla, anche se mi rendo conto che
può costituire un problema. Non è una cosa che riesca a
controllare. È il mio punto debole.
– Una malattia
cronica.
Lei annuí.
– Sí, può darsi che tu
abbia ragione. Uno stupido, incontrollabile disturbo
cronico.
– In ogni caso, non è
una notizia incoraggiante, per me, – dissi. Purtroppo la bellezza
non era qualcosa che pesasse a mio favore sul piatto della
bilancia.
Lei non osò dire che non
era vero, semplicemente rise divertita. Se non altro, in mia
compagnia non sembrava annoiarsi. Conversava con brio e rideva
spesso.
Di conseguenza attesi
pazientemente che la sua relazione con il bel ragazzo si
deteriorasse (lui non era solo bello, si era laureato in
un’università prestigiosa, lavorava in un’azienda importante e
guadagnava bene. Doveva riscuotere tutta la simpatia del padre di
Yuzu). Nel frattempo lei e io parlavamo, ci confrontavamo sul
mondo, andavamo in tanti posti. Cosí finimmo per avvicinarci molto.
E per capirci davvero. Ci baciavamo, ci abbracciavamo, ma non
facevamo veramente sesso. Lei non voleva avere quel tipo di
relazione con piú di un uomo allo stesso tempo.
– Sai, in queste cose
sono un po’ all’antica, – mi disse. Quindi non mi restava che
aspettare.
La situazione non variò
per circa sei mesi. Li trovai molto lunghi. A volte mi veniva
voglia di buttare tutto per aria. Invece non mollai. Avevo la ferma
convinzione che prima o poi Yuzu sarebbe stata mia. Infatti la sua
storia con il bel ragazzo finí catastroficamente (è solo una mia
congettura, perché al riguardo non mi fu data alcuna spiegazione) e
lei scelse me come fidanzato, che non ero bello e avevo modeste
prospettive di ricchezza. Non passò molto tempo che decidemmo di
sposarci.
Nella mia memoria, il
ricordo della prima volta che avevamo fatto l’amore era ancora
vivissimo. Andammo in una piccola stazione termale in provincia, e
passammo lí la nostra prima notte insieme. Fu tutto perfetto. Anche
troppo, forse. La pelle di lei era bianca, morbida, liscia. A darle
quella morbidezza forse era anche l’acqua termale un po’ vischiosa,
e la luce candida della luna d’inizio autunno. Quando strinsi fra
le braccia il suo corpo nudo e per la prima volta entrai dentro di
lei, la udii gemere vicino al mio orecchio, sentii la punta delle
sue dita sottili premere contro la mia schiena. E poi c’era il
canto allegro degli insetti, il rumore di un fresco ruscello di
montagna… Questa donna non la lascerò piú andar via, non farò mai
nulla che possa mettermi a rischio di perderla, fu la promessa che
feci a me stesso quella sera. Quello è stato, forse, il momento piú
luminoso della mia vita. Finalmente Yuzu era mia.
Dopo aver ricevuto la
lettera, continuai a pensare a lei. Al nostro primo incontro, alla
notte d’autunno in cui per la prima volta avevamo fatto l’amore… A
tutto. L’amavo ancora. I miei sentimenti per lei non erano mutati e
non volevo perderla, dovevo ammetterlo. Il divorzio che andava
avanti non c’entrava. Eppure la tenacia del mio sentimento non
aveva impedito che Yuzu, a un certo punto, si staccasse da me. E
andasse lontano − molto lontano. In un luogo dove non sarei
riuscito a vederla nemmeno con il binocolo piú potente del
mondo.
Forse, senza che io ne
sapessi nulla, aveva trovato un altro − un uomo bello − da amare. E
come le capitava sempre, aveva «perso la testa». Quando nel letto
lei aveva cominciato a respingermi, avrei dovuto accorgermi di
qualcosa. Perché non era il tipo da avere rapporti sessuali con piú
di un uomo nello stesso tempo. Se ci avessi riflettuto un momento,
l’avrei capito.
Una malattia cronica,
pensai. Uno stupido, incontrollabile disturbo cronico.
Un’irragionevole tendenza innata.
Quella notte (la notte
di un piovoso mercoledí), feci un lungo sogno cupo.
Nella piccola città
costiera della prefettura di Miyagi, ero al volante di una Subaru
Forester bianca (adesso era la mia macchina). Indossavo un vecchio
giubbotto di pelle nera, in testa avevo un berretto da golf nero
con il logo della Yonex. Ero alto, avevo la faccia cotta dal sole,
i miei capelli erano corti, molti quelli grigi. Insomma, ero l’uomo
con la Subaru Forester bianca. Seguivo di nascosto l’utilitaria
(una Peugeot 205 rossa) sulla quale erano saliti mia moglie e il
suo amante occasionale. La strada costeggiava il mare. Li guardavo
entrare in un vistoso love
hotel un po’ fuori città. Il mattino
dopo mettevo mia moglie con le spalle al muro e le stringevo la
cintura dell’accappatoio intorno al collo bianco e sottile. Ero un
uomo robusto, abituato ai lavori pesanti. Mentre strangolavo mia
moglie mettendoci tutta la forza che avevo, gridavo qualcosa.
Qualcosa che io stesso non capivo, forse era soltanto un urlo privo
di significato. Una collera violenta, quale non avevo mai provato
in vita mia, si era impossessata del mio corpo e della mia mente.
Gridando, vedevo il mio fiato bianco salire nell’aria. Vedevo le
tempie di mia moglie pulsare mentre cercava disperatamente di
inspirare. La lingua rosa dimenarsi nella sua bocca. Le vene
azzurre affiorare sulla pelle come una mappa tracciata con
l’inchiostro simpatico. Sentivo l’odore del mio sudore. Un miasma
pestilenziale che emanava dal mio corpo intero, come vapore in una
sorgente termale. Ricordava il tanfo di una bestia
pelosa.
«Lascia il quadro cosí
com’è!», dicevo rivolto a me stesso. Era un ordine. Puntavo con
forza l’indice contro la mia immagine che vedevo riflessa in uno
specchio e gridavo: «Non devi aggiungere piú nulla al mio
ritratto!»
A quel punto mi
svegliai.
E capii cos’avevo temuto
quella volta, nel letto di quell’albergo sulla costa: di finire,
all’ultimo momento, per strangolare sul serio quella donna (una
ragazza di cui non sapevo neanche il nome). Ecco cos’era a farmi
veramente paura, nel profondo della mia coscienza. «Basta che fai
finta», mi aveva detto lei. Ma sarei riuscito a cavarmela con cosí
poco, ne ero sicuro? Poteva anche darsi che la cosa non si
concludesse con una «finta», che avesse un esito ben piú
drammatico. Perché obbediva a un mio impulso
interiore…
«Pure a me piacerebbe
capirmi. Ma non è facile».
Erano le parole che
avevo detto a Marie. Mi tornarono in mente mentre mi asciugavo il
sudore con un asciugamano.
La domenica mattina la
pioggia era cessata, il cielo era di nuovo sereno. Per calmare
l’agitazione dovuta alla nottataccia, feci una passeggiata di
un’ora nei dintorni. Entrai nel bosco, passai dietro al tempietto,
ispezionai il luogo dopo tanto tempo. In quell’inizio di novembre
il vento era ogni giorno piú freddo. Foglie umide di brina
tappezzavano il terreno. Molte erano cadute sulle assi che
coprivano la buca, aggiungendovi una nota di colore. Le pesanti
pietre che tenevano ferme le assi, tuttavia, sembravano un poco
spostate rispetto all’ultima volta che le avevo viste. Non di
molto, però l’effetto complessivo era diverso.
Bah, non era qualcosa di
cui dovessi preoccuparmi troppo. Ad avventurarci fin lí eravamo
soltanto Menshiki e io. Spostai un’asse per dare un’occhiata
all’interno: nessuno. Anche la scala era appoggiata alla parete
come l’avevamo lasciata. Quella cripta buia, profonda e silenziosa,
era sempre lí, ai miei piedi. La richiusi, rimisi le pietre sul
coperchio.
Erano quasi due
settimane che il Commendatore non si faceva vedere, ma nemmeno
questo mi inquietava. Come aveva detto lui stesso, anche le idee
hanno tante cose da fare. Cose che vanno oltre il tempo e lo
spazio.
Quel giorno accaddero
diversi fatti. Sí, fu una domenica oltremodo confusa.