Capitolo diciannovesimo
Vede qualcosa dietro di me?
Sabato, all’una del
pomeriggio, la mia amante arrivò sulla sua Mini rossa. Uscii per
andarle incontro. Aveva un semplice vestito beige, una leggera
giacca grigia, occhiali da sole.
– Preferisci che lo
facciamo in macchina? O è meglio a letto? – le chiesi.
– Stupido! – fece lei
ridendo.
– Be’, non era niente
male, in macchina. In uno spazio ristretto si è obbligati a
inventarsi tante cose.
– Un’altra
volta.
Ci sedemmo nel soggiorno
a bere un tè.
– Sai, ho terminato il
ritratto che mi ha tanto impegnato, – le dissi. – Quello di
Menshiki… in teoria. Ma è molto diverso dagli altri ritratti che ho
dipinto su commissione.
Chissà perché, lei
sembrava molto interessata al mio racconto.
– Potrei vederlo? –
chiese.
Scossi la
testa.
– Sei in ritardo di un
giorno. Avrei voluto sentire anche il tuo parere, ma il signor
Menshiki se l’è già portato via. I colori non erano ancora del
tutto asciutti, ma lui non vedeva l’ora di averlo tutto per sé.
Neanche avesse paura che se lo prendesse qualcun
altro!
– Vuol dire che gli è
piaciuto.
– Sí, me l’ha detto
anche lui. E non vedo ragione di dubitarne.
– Il quadro è venuto
bene, il committente è soddisfatto… Tutto è bene quel che finisce
bene, allora, no?
– Forse, – dissi. – E
io, per quel che mi riguarda, sono anche contento. È un’opera molto
diversa dalle mie solite, apre tante strade per il
futuro.
– Vuoi dire che sei
approdato a un nuovo stile?
– Mah, chi può dirlo…
Magari ho ottenuto questo risultato proprio perché stavo ritraendo
il signor Menshiki. Oppure no, il modello non c’entra: magari è per
caso che dipingendo un normale ritratto sono giunto a qualcosa di
nuovo. Di certo non so se una cosa del genere potrà verificarsi
ancora, nemmeno se ritraessi di nuovo il signor Menshiki. Forse è
stata una coincidenza irripetibile di fattori molto diversi tra
loro. Fatto sta, ed è la cosa piú importante per me al momento, che
mi è tornata la voglia di dipingere.
– In ogni caso, hai
terminato il quadro, congratulazioni.
– Grazie, – dissi. – E
ho anche guadagnato una bella somma.
– Be’, è generoso,
questo tuo signor Menshiki! – osservò lei.
– Inoltre, per
festeggiare il completamento dell’opera, mi ha invitato a casa sua.
Cenerò con lui martedí sera.
Le parlai di
quell’invito. Omettendo la parte che riguardava la mummia,
ovviamente. Le dissi solo che saremmo stati in due, piú un cuoco e
un barman.
– Ecco che finalmente
potrai mettere piede in quella grande villa bianca! – fece lei
impressionata. – Nella dimora misteriosa di quell’uomo misterioso.
Guarda bene tutto, mi raccomando! Sono molto curiosa.
– Guarderò quello che
riuscirò a vedere.
– E non dimenticare i
piatti che verranno serviti. Dovrai elencarmi tutti gli
ingredienti.
– Cercherò di
ricordarmelo. A proposito, l’altro giorno mi hai detto che hai
informazioni nuove, sul signor Menshiki.
– Sí, le ho avute col
solito sistema. Sai, il tam-tam nella giungla…
– E cos’hai
saputo?
Lei parve un po’
perplessa. Prese la tazza e bevve un sorso di tè.
– Te ne parlerò piú
tardi, – disse. – Prima vorrei fare una cosetta…
– Cioè?
Sentiamo.
– Be’, non sono cose che
si descrivono, dài! Diventerei tutta rossa.
Dal soggiorno ci
spostammo in camera da letto. Come sempre.
Durante la mia vita
matrimoniale con Yuzu, non avevo mai avuto rapporti sessuali con
altre donne. Non perché non se ne fosse presentata l’occasione;
quello a cui piú tenevo, a quell’epoca, non era cercare altrove
nuove possibilità, ma condurre un’esistenza serena insieme a mia
moglie. E anche riguardo al sesso, i rapporti che avevo con Yuzu
soddisfacevano ampiamente i miei appetiti. Ed ecco invece che a un
certo punto, senza alcun preavviso (per lo meno cosí parve a me),
mia moglie si scusava e mi annunciava che si era stufata di vivere
con me. Aveva preso una decisione irremovibile, che non lasciava
spazio a discussioni o compromessi. Disorientato, non avevo saputo
come reagire. Né trovare le parole giuste. Una cosa però l’avevo
capita: non potevo piú restare lí con lei.
Di conseguenza avevo
raccattato quelle poche cose che mi servivano e mi ero messo in
viaggio senza una meta precisa sulla mia Peugeot 205. La primavera
era iniziata da poco piú di un mese, ma io mi ero spostato nel
Tōhoku e nell’Hokkaidō, dove il clima era ancora invernale. Finché
la macchina aveva alzato bandiera bianca. Durante tutto il viaggio,
la notte pensavo sempre a Yuzu, al suo corpo. Ad ogni singola
parte, ogni dettaglio. Alle reazioni che aveva quando la toccavo,
ai suoi movimenti, alla sua voce, a tutto. Non volevo ricordare, ma
non ne potevo fare a meno. E a volte, eccitato dal ricordo, avevo
un orgasmo. Anche se non era stata mia intenzione.
Una sola volta però,
durante quel lungo viaggio, avevo fatto sesso con una donna in
carne e ossa. Per una strana concatenazione di eventi, ero finito
nello stesso letto con una ragazza che non conoscevo. Non perché
l’avessi voluto io.
Era accaduto in una
piccola città costiera della prefettura di Miyagi. So che era
vicino al confine con la prefettura di Iwate, ma in quel periodo mi
spostavo ogni giorno di molti chilometri, attraversando una serie
di cittadine tutte uguali di cui avevo dimenticato il nome. Ricordo
che era un importante porto ittico, ma da quelle parti quasi tutte
le città lo sono. E ovunque si sente odore di gasolio e di
pesce.
Stavo cenando da solo in
un ristorante per famiglie lungo la statale. Saranno state le otto
di sera. Riso al curry con gamberi e insalata della casa. I clienti
nel locale si sarebbero potuti contare sulle dita di due mani. Mi
ero seduto a un tavolo accanto alla finestra e mangiavo leggendo un
libro, quando all’improvviso una ragazza era venuta a sedersi di
fronte a me. Senza esitazioni, senza dirmi una parola, era
scivolata svelta sulla sedia di plastica. Come se non ci fosse
nulla di piú naturale al mondo.
Alzai la testa sorpreso.
Non la conoscevo, ovviamente. Non l’avevo mai vista. La cosa era
stata cosí improvvisa che mi aveva spiazzato. C’erano tanti tavoli
liberi. Che motivo aveva di venire a mettersi proprio di fronte a
me? Oppure era una cosa che in quella città si faceva comunemente?
Posai la forchetta, mi asciugai gli angoli della bocca con un
tovagliolo di carta e la guardai.
– Assomiglia a una
persona che conosco, – disse senza preamboli la ragazza. – È come
se ci fossimo dati appuntamento qui.
Aveva una voce roca, o
forse era cosí in quel momento a causa della tensione. Aveva un
leggero accento del Tōhoku.
Chiusi il libro dopo
aver messo il segnalibro alla pagina che stavo leggendo. La ragazza
doveva avere venticinque o ventisei anni. Indossava una camicetta
bianca con il colletto rotondo e un cardigan blu. Non sembravano
capi di buona qualità, né l’una né l’altro. E nemmeno alla moda. Il
genere di roba che ci si mette per andare al supermercato del
quartiere. I capelli erano neri e corti, la frangetta le copriva la
fronte. Non sembrava truccata. Sulle ginocchia aveva posato una
borsa nera di stoffa con la tracolla.
Un viso abbastanza
anonimo. I lineamenti non erano male, ma nel complesso non dicevano
niente. Una di quelle facce che ci passano accanto senza lasciare
impressioni particolari. Che si dimenticano subito. Teneva le
labbra serrate, respirava col naso. Mi parve che ansimasse un po’.
Le narici le fremevano leggermente. Il naso piccolo creava uno
squilibrio con la bocca troppo grande. Mi venne in mente l’immagine
di uno scultore che, mentre fa una statua, a un certo punto si
trova a corto di argilla e ne toglie un po’ dal naso.
– Mi sembrava di
conoscerla, d’accordo? – ripeté la ragazza. – La smetta di fare
quella faccia sbalordita.
– Va bene, – risposi,
senza capirci nulla.
– Continui a mangiare
normalmente. E faccia finta di parlare con me come se fossimo in
confidenza.
– Di cosa devo
parlare?
– Lei è di
Tōkyō?
Riprendendo in mano la
forchetta, feci cenno di sí. Mangiai un pomodorino. Bevvi un sorso
d’acqua.
– L’ho capito dal suo
accento, – proseguí lei. – Ma cosa ci fa in un posto come
questo?
– Passavo di qui… –
dissi.
Una cameriera con
l’uniforme giallo zenzero venne al tavolo tenendo lo spesso menu
stretto fra le braccia. Aveva un seno straordinariamente
prosperoso, i bottoni dell’uniforme sembravano dover saltare da un
momento all’altro. La ragazza di fronte a me non prese il menu. Non
alzò nemmeno la testa a guardare la cameriera.
– Un caffè e una fetta
di cheesecake, – disse soltanto, continuando a fissare la mia
faccia. Come se l’ordinazione la stesse facendo a me. La cameriera
annuí in silenzio e se ne andò, il menu sempre tra le
braccia.
– Senta, per caso si è
ficcata in qualche guaio? – chiesi.
La ragazza non rispose.
Si limitava a osservarmi, come se stesse valutando il mio
viso.
– Vede qualcosa dietro
di me? C’è qualcuno? – mi domandò.
Gettai un’occhiata alle
sue spalle. Vidi solo gente normale che mangiava normalmente. Dopo
di lei, non erano entrati altri clienti.
– No, niente. Non c’è
nessuno, – risposi.
– Non smetta di
guardare. Se vede qualcosa, me lo dica. Intanto continui a parlare,
disinvolto.
Dal nostro tavolo si
vedeva il parcheggio del locale. Anche la mia vecchia Peugeot
sporca di fango. C’erano altre due macchine: un’utilitaria verde e
una grossa monovolume nera. La monovolume doveva essere nuova.
Erano ferme lí già da un po’. Altre automobili non ne erano
arrivate. La ragazza forse era venuta a piedi. Oppure ce l’aveva
portata in macchina qualcuno.
– Passava di qui per
caso? – mi chiese la ragazza.
– Sí.
– Sta facendo un
viaggio?
– Piú o meno… –
dissi.
– Cosa stava leggendo?
Che libro è, quello?
Glielo porsi. Era un
romanzo di Mori Ōgai.
– La famiglia Abe, – disse
lei, e me lo restituí. – Perché legge questa vecchia
roba?
– Era nella sala comune
di un ostello di Aomori dove mi sono fermato a dormire qualche
giorno fa. Ne ho letto qualche pagina, l’ho trovato interessante e
me lo sono portato via. In cambio ho lasciato alcuni libri che
avevo già finito.
– Non ho mai
letto La famiglia
Abe. Le piace?
Era la seconda volta che
lo leggevo. La storia era affascinante, ma adesso quello che mi
interessava di piú era capire perché Mori Ōgai l’avesse scritto,
per quale ragione profonda, quale urgenza lo spingeva. Spiegare
tutto questo alla ragazza era impensabile, rischiavamo di andare
per le lunghe. Non eravamo mica in un gruppo di lettura! Senza
contare che la ragazza mi aveva chiesto del libro solo perché era
la prima cosa che le era caduta sotto gli occhi, per conversare con
me in modo naturale (o per lo meno per dare quest’impressione a chi
ci guardava).
– Penso che valga la
pena di leggerlo, – dissi.
– Di cosa si
occupa?
– Mori Ōgai? In questo
libro?
Lei sbuffò.
– Ma no, si figuri! Cosa
vuole che me ne importi di Mori Ōgai! Lei, sto parlando di lei. Che
cosa fa, nella vita?
– Dipingo
quadri.
– Ah, un
pittore.
– Sí, penso che mi si
possa definire cosí.
– E che cosa
dipinge?
– Ritratti.
– Tipo quelli che nelle
aziende sono appesi nell’ufficio dell’amministratore delegato?
Ritratti di gente importante che dalle pareti ti guarda dall’alto
in basso?
– Proprio
cosí.
– È specializzato in
quel genere di quadri?
Annuii.
A quel punto lei smise
di parlare di pittura. Forse l’argomento non l’incuriosiva piú.
Perché, diciamolo, la maggior parte della gente non ha il minimo
interesse per i ritratti, a parte le persone che vi sono
raffigurate, s’intende.
In quel momento i
pannelli della porta automatica si aprirono ed entrò un uomo alto,
di mezza età. Indossava un giubbotto di pelle nera e in testa aveva
un berretto con il marchio di un produttore di articoli da golf.
Fermo sulla soglia gettò uno sguardo circolare nel ristorante,
scelse un tavolo a un paio di metri da noi e venne a sedersi lí. Si
tolse il berretto, si lisciò piú volte i capelli con le mani, e si
mise a studiare il menu che gli portò la cameriera dal grosso seno.
Tra i capelli tagliati a spazzola ce n’erano molti bianchi. Era
magro, col viso cotto dal sole. Rughe profonde che si susseguivano
come onde gli solcavano la fronte.
– È entrato un uomo, –
dissi alla ragazza.
– Com’è?
Ne feci una breve
descrizione.
– Me lo potrebbe
disegnare?
– Farne il ritratto,
cioè?
– Sí. È o non è un
pittore?
Tirai fuori dalla tasca
taccuino e matita a scatto, e con pochi tratti raffigurai il volto
dell’uomo. Ci misi anche l’ombreggiatura. Mentre disegnavo, non
avevo nemmeno bisogno di guardare l’uomo. Ho il talento di cogliere
le caratteristiche di un viso alla prima occhiata e imprimermele
nel cervello. Posai il ritratto sul tavolo e lo girai verso la
ragazza. Lei lo prese, strinse un po’ le palpebre e lo osservò a
lungo, con lo stesso sguardo sospettoso con cui un impiegato di
banca controlla la firma su un assegno. Posò di nuovo il foglio sul
tavolo.
– Accidenti! È proprio
bravo a disegnare, – disse guardandomi. Sembrava davvero
impressionata.
– È il mio mestiere, –
risposi. – Comunque, lo conosce o no, quest’uomo?
Lei scosse la testa in
silenzio e strinse le labbra, senza cambiare espressione. Piegò il
mio disegno in quattro, lo mise nella borsa. Non capivo per quale
ragione lo volesse tenere. Poteva appallottolarlo e
gettarlo.
– No, non lo conosco, –
disse alla fine.
– Quest’uomo però la sta
cercando, non è cosí?
Non rispose alla mia
domanda.
La cameriera portò il
cheesecake e il caffè e, finché non si allontanò, la ragazza rimase
in silenzio. Poi tagliò un pezzetto di torta e ci giocò con la
punta della forchetta. Mi ricordava un giocatore di hockey che si
allena prima di una partita. Finalmente lo mise in bocca e lo
masticò. Inghiottí, bevve un sorso di caffè dopo averci messo un
po’ di latte. E spinse da parte il piatto, come se non le servisse
piú.
Alle macchine
parcheggiate si era aggiunto un Suv bianco. Una vettura tozza e
alta. Con grossi cerchioni lucenti. Doveva appartenere all’uomo
appena entrato. Era rivolta col portabagagli verso il ristorante.
Sul coperchio della ruota di scorta attaccata al portellone c’era
scritto SUBARU
FORESTER. Finii di mangiare il mio
riso al curry. Quando la cameriera venne a ritirare i piatti,
ordinai un caffè.
– È da molto che è in
viaggio? – mi chiese la ragazza.
– Sí, da parecchio
tempo.
– Viaggiare le
piace?
La risposta esatta
sarebbe stata che non era un viaggio di piacere. Ma il discorso si
sarebbe fatto lungo e complicato.
– Piú o meno, – mi
limitai a dirle.
Mi osservò come se si
trovasse davanti a un animale raro.
– Certo che non è un
chiacchierone, lei.
La risposta esatta
sarebbe stata che dipendeva da chi avevo di fronte. Ma di nuovo, il
discorso si sarebbe fatto lungo e complicato.
Il caffè arrivò, ne
bevvi un sorso. Per avere gusto di caffè, lo aveva, ma non si
poteva certo dire che fosse buono. Almeno era caldo. Nel
ristorante, dopo l’uomo dai capelli sale e pepe non era entrato
nessun altro. Lo sentii ordinare ad alta voce del riso e un
hamburger.
Gli altoparlanti
diffondevano Fool on the Roof
in un adattamento per strumenti ad arco. Chi
l’aveva composta, quella canzone? John Lennon o Paul McCartney? Non
lo ricordavo. Forse John Lennon. Non me ne fregava nulla, ma non
sapevo a cos’altro pensare.
– È venuto in macchina?
– mi chiese la ragazza.
– Sí.
– Che
macchina?
– Una Peugeot
rossa.
– Targata
come?
– Shinagawa, –
dissi.
Dalla faccia, non
sembrava contenta di quelle risposte. Come se una Peugeot rossa
targata Shinagawa rievocasse per lei brutti ricordi. Comunque si
sistemò le maniche del cardigan e controllò che la camicetta fosse
abbottonata bene. Prese un tovagliolo di carta e si asciugò le
labbra.
– Andiamo! – disse di
punto in bianco.
Bevve metà dell’acqua
nel bicchiere e si alzò. Sul tavolo lasciò il caffè di cui aveva
bevuto solo un sorso e la fetta di cheesecake di cui aveva mangiato
solo un boccone. Quasi stesse abbandonando in fretta e furia il
luogo di un disastro.
Senza sapere dove
eravamo diretti, mi alzai anch’io. Presi il foglietto del conto e
andai a pagare alla cassa. Il conto includeva la sua consumazione,
ma lei non si sognò di ringraziare. A quanto pareva, l’idea di
pagare la sua parte non la sfiorava nemmeno.
Quando uscimmo dal
ristorante, l’uomo di mezza età che era entrato dopo di noi stava
mangiando con poco entusiasmo il suo hamburger. Alzò la testa per
lanciarci un’occhiata, ma fu tutto quello che fece. Subito dopo
tornò a guardare nel piatto e servendosi di coltello e forchetta
riprese a mangiare. Quanto alla ragazza, non voltò neppure gli
occhi dalla sua parte.
Mentre passavamo davanti
alla Subaru Forester bianca, notai che sul paraurti posteriore era
attaccato un adesivo col disegno di un pesce. Forse un pescespada.
Chissà perché uno si attacca al paraurti l’adesivo di un
pescespada… magari il proprietario lavorava nel commercio ittico,
oppure era un pescatore.
Lei non disse dove
voleva andare. Si sedette accanto a me e col dito mi fece segno di
proseguire lungo la strada che avevamo davanti. Sembrava conoscere
bene la zona. Forse era nata da quelle parti, o ci abitava da molto
tempo. Mi avviai nella direzione indicatami. Avanzammo per qualche
chilometro sulla nazionale che si allontanava dalla città, finché
apparve l’insegna vistosa di un love
hotel. Lei mi disse di parcheggiare
lí, io eseguii e spensi il motore.
– Stanotte dormo qui, –
mi disse in tono declamatorio. – Perché a casa non ci posso
tornare. Venga con me.
– Veramente… stanotte
pensavo di fermarmi in un altro posto, – replicai. – Ho già fatto
il check in, e ho lasciato lí i miei bagagli.
– Dove
sarebbe?
Le dissi il nome di un
piccolo business hotel
vicino alla stazione
ferroviaria.
– Be’, qui è molto
meglio, mi pare. Cosa va a fare in quell’alberghetto di terza
categoria! – fece lei. – Scommetto che la camera non è piú grande
di un armadio a muro!
Aveva ragione, la stanza
aveva piú o meno le dimensioni di un ripostiglio.
– Inoltre una donna sola
in questo posto non l’accettano, – proseguí. – Mi scambiano per una
escort, non si fidano. Non faccia storie, per favore, venga con me,
forza!
Alla reception pagai una
notte (anche questa volta lei non mostrò il minimo segno di
gratitudine), poi presi la chiave che mi venne consegnata. Appena
fummo in camera, per prima cosa la ragazza riempí la vasca da bagno
di acqua calda, accese il televisore, regolò attentamente le luci.
La stanza era molto piú accogliente di quella che avevo prenotato
al business hotel. La ragazza dava l’impressione di esserci già stata − o
per lo meno in un posto simile − diverse volte. Si sedette sul
letto e si tolse il cardigan. Si tolse anche la camicetta. La gonna
a portafoglio. I collant. Reggiseno e slip erano bianchi,
semplicissimi. Non nuovi. Il genere di biancheria che una casalinga
mette per andare al supermercato. Passò svelta le braccia dietro la
schiena per slacciarsi il reggiseno, lo piegò e lo posò accanto al
cuscino. I suoi seni non erano né grandi né piccoli.
– Dài, vieni, – mi
disse. – Dal momento che siamo qui, facciamo sesso,
no?
Fu la sola avventura
erotica che ebbi durante quel lungo viaggio − quel lungo
vagabondare. Scopammo come pazzi. Lei raggiunse l’orgasmo quattro
volte. E per poco credibile che possa sembrare, non erano orgasmi
simulati. Io venni due volte. La cosa strana, però, è che da parte
mia non provai molto piacere. Per tutta la durata del rapporto ero
con la testa altrove.
– Di’, mi sa che era da
molto che non facevi sesso, tu, – mi disse la ragazza a un certo
punto.
– Qualche mese, – le
risposi sinceramente.
– L’avevo capito. Ma
come mai? Non mi sembri il tipo che con le donne non ha
successo.
– Be’, ci sono diversi
motivi…
– Poverino, – disse lei
facendomi una carezza sul collo. – Poverino…
Poverino… ripetei
mentalmente. Ora che me lo sentivo dire, sí, ero davvero una
persona da compatire. Mi trovavo in una città sconosciuta, in un
posto assurdo, in circostanze incomprensibili, accanto a una donna
di cui non conoscevo nemmeno il nome.
Tra un rapporto e
l’altro, bevemmo insieme un paio di birre che prendemmo dal frigo.
Ci addormentammo forse verso l’una del mattino. Quando mi svegliai,
lei era scomparsa. Non aveva neanche lasciato un messaggio. Ero
solo, disteso in quel letto enorme. L’orologio segnava le sette e
mezzo, fuori dalla finestra era già chiaro. Aprii le tende: si
vedeva la costa e la litoranea statale, percorsa nei due sensi da
grossi e rumorosi camion con cella frigorifera per il trasporto del
pesce. Al mondo ci sono tante cose che danno un senso di vuoto, ma
mai quanto svegliarsi il mattino, da soli, nella stanza di
un love hotel.
Colto da un sospetto
improvviso, controllai i soldi nel portafoglio che tenevo nella
tasca dei pantaloni. Contanti, carta di credito, bancomat, patente…
non mancava nulla. Tirai un sospiro di sollievo. Se mi avesse
rubato il portafoglio, mi sarei sentito perduto. E non era una
possibilità da escludere. Dovevo stare piú attento.
Di sicuro lei era uscita
il mattino presto, mentre io dormivo ancora profondamente. Ma come
aveva fatto a tornare in città − o dovunque abitasse? A piedi? O
aveva chiamato un taxi? In ogni caso, non erano piú affari miei.
Non valeva neanche la pena di pensarci.
Restituii la chiave alla
reception, pagai le birre consumate, risalii sulla Peugeot e presi
la strada che portava in città. Dovevo ritirare la borsa che avevo
lasciato nell’altro hotel, quello davanti alla stazione, e pagare
una notte. La strada passava davanti al ristorante della sera
prima. Decisi di fare colazione lí. Avevo una fame tremenda e
volevo bere un caffè caldo. Entrando nel parcheggio, vidi un poco
piú avanti una Subaru Forester bianca. Orientata allo stesso modo,
con lo stesso adesivo di un pescespada attaccato al parafango
posteriore. Era quella che avevo visto la sera prima, non avevo
dubbi. Era solo parcheggiata un po’ piú in là. Logicamente: quello
non era un posto dove la gente passasse la notte.
Entrai. Il locale era
quasi vuoto. Come avevo previsto, l’uomo di mezza età stava facendo
colazione, seduto forse allo stesso tavolo. Indossava lo stesso
giubbotto di pelle nera. Di nuovo si era tolto il berretto da golf
nero col marchio della Yonex e l’aveva posato in un angolo. L’unica
variante era il giornale piegato che teneva sul tavolo. Davanti a
lui c’erano pane tostato e uova strapazzate. Dovevano averglieli
appena portati, perché il caffè fumava ancora. Quando gli passai di
fianco, l’uomo alzò la testa e mi fissò. Con uno sguardo penetrante
e freddo che la sera prima non aveva. Uno sguardo accusatorio. Per
lo meno cosí lo percepii.
«So bene dov’eri e cosa
stavi facendo», sembrava dirmi.
Ecco, in dettaglio, cosa
mi era successo in quella piccola città costiera della prefettura
di Miyagi. Cosa volesse da me quella ragazza dal naso piccolo e i
denti perfettamente allineati non l’ho mai capito. Né avevo capito
se stesse scappando dall’uomo di mezza età con la Subaru bianca, e
se lui la cercasse o meno. In ogni caso, ero stato coinvolto in
quella loro storia, e per un singolare sviluppo della situazione
ero finito in un love hotel
con una ragazza appena conosciuta, e ci avevo
fatto sesso. Ed era stata l’esperienza erotica piú estrema che
avessi mai avuto in vita mia. Eppure il nome di quella città non lo
ricordavo.
– Posso avere un
bicchier d’acqua? – mi chiese la mia amante. Si era appena
svegliata da un breve sonnellino. Mentre lei dormiva, io ero
rimasto a guardare il soffitto rievocando lo strano episodio
accadutomi in quella città portuale. Erano passati solo sei mesi,
eppure mi sembrava un’altra vita.
Andai in cucina, riempii
d’acqua minerale un grande bicchiere e tornai a letto. Lei ne bevve
la metà in un sorso.
– A proposito, riguardo
al signor Menshiki, – disse dopo aver posato il bicchiere sul
comodino.
– Riguardo a
Menshiki?
– Sí. Prima ti ho detto
che ho notizie fresche, no?
– Ah, già. Le
informazioni trasmesse dal solito tam-tam…
– Esatto, – fece lei, e
bevve un altro sorso d’acqua. – Il tuo amico Menshiki, da quanto mi
hanno detto, ha passato un periodo di tempo piuttosto lungo in
galera, a Tōkyō.
– In galera a Tōkyō? –
chiesi sollevandomi su un gomito e guardandola in
faccia.
– Sí. Nel carcere di
Kosuge.
– Accusato di
cosa?
– Di preciso non lo so,
ma credo sia una faccenda di soldi. Evasione fiscale, riciclaggio
di denaro sporco, insider
trading… forse tutte queste cose
insieme. È stato in prigione sei o sette anni fa. Ma lui ti ha
detto qual è il suo lavoro di preciso?
– Mi ha spiegato che si
occupa di scambio di informazioni, – risposi. – Che aveva messo su
un’impresa, e che alcuni anni fa ne ha venduto le azioni a un
prezzo molto alto. Adesso vive della plusvalenza ricavata da quella
vendita.
– Scambio di
informazioni… molto vaga, come spiegazione. Se ci pensi, nella
società attuale, in pratica non esistono quasi piú lavori che non
richiedano uno scambio di informazioni.
– Da chi hai saputo che
è stato in galera?
– Da un amico di mio
marito che gioca in borsa. Non so quanto ci sia di vero, però. Sono
cose sentite da qualcuno che le ha raccontate a qualcun altro… Non
c’è da fidarsi. Ma a giudicare dal tipo di storia, non mi pare una
diceria infondata.
– Se era nel carcere di
Kosuge, vuol dire che è stato arrestato per ordine della Procura di
Tōkyō.
– In realtà è stato poi
assolto. Però in prigione c’è rimasto parecchio, e pare che gli
interrogatori siano stati davvero tosti. Il periodo di
incarcerazione preventiva è stato rinnovato diverse volte, e non
gli è stata concessa la libertà su cauzione.
– Però è stato
assolto…
– Sí. È stato inquisito,
ma è riuscito a farla franca, e ha evitato il processo. Durante gli
interrogatori pare che abbia sempre tenuto la bocca
chiusa.
– Per quel che ne so io,
alla Procura di Tōkyō non scherzano. Sono bravi e ne vanno fieri.
Se sospettano di qualcuno, di solito riescono a portarlo in
tribunale; le prove, con le buone o con le cattive, le trovano
sempre. E sembra che la percentuale di sentenze di colpevolezza sia
molto alta. Negli interrogatori non usano certo i guanti: la
maggior parte degli indagati non regge allo stress e finisce per
confessare quello che vogliono gli inquirenti, e firmano il
verbale. Tener duro e non fiatare non è da tutti.
– Comunque il signor
Menshiki ce l’ha fatta. Non è solo intelligente, è anche
determinato.
Già, Menshiki era una
persona fuori dal comune. Aveva una volontà di ferro e un cervello
non comune.
– Però c’è una cosa che
non mi convince, – dissi. – Che si tratti di evasione fiscale o di
riciclaggio, se alla Procura di Tōkyō decidono di arrestare
qualcuno, la notizia dovrebbe arrivare sui giornali. E un nome raro
come Menshiki me lo ricorderei. Fino a poco tempo fa, leggevo
scrupolosamente il giornale tutti i giorni.
– Mah, di questo non so
nulla… Ah, c’è ancora una cosa. L’altra volta ti ho detto che ha
comprato la villa tre anni fa, ricordi? Be’, a quanto pare ha
forzato un po’ la mano. La famiglia che ci abitava l’aveva appena
fatta costruire e non sembrava intenzionata a venderla. Per
mandarla via e trasferirsi lí, il signor Menshiki si è servito di
una grossa somma di denaro o di qualche altro mezzo piú
convincente. Un paguro prevaricatore.
– Il paguro non caccia
via nessuno dalla sua conchiglia. Fa sua quella lasciata da un
mollusco morto, senza usare le maniere forti.
– Sí, ma non è escluso
che esistano dei paguri prepotenti.
– È tutto molto strano,
– dissi, mettendo fine alla discussione sui paguri. – Se le cose
sono andate come dici tu, per quale motivo Menshiki ha voluto
impossessarsi di quella casa a tutti i costi? Ha addirittura
cacciato via le persone che ci abitavano prima, pur di andare a
starci lui! Avrà speso una montagna di soldi, e dovrà essere stato
anche molto insistente. E poi mi sembra che quella villa, in fondo,
sia troppo lussuosa e appariscente per uno come lui. È sicuramente
bellissima, ma non mi sembra il genere di casa che possa
piacergli.
– Ed è anche troppo
grande. Il signor Menshiki ci vive solo, non ha una domestica, non
riceve quasi mai nessuno… che bisogno ha di una casa di quelle
dimensioni? – La mia amante bevve l’acqua che restava nel bicchiere
in un sorso, poi proseguí: – Per volere proprio quella villa doveva
avere una ragione precisa. Non riesco a immaginare quale,
però.
– Comunque sia, martedí
sera sono invitato lí. Quando vedrò la casa con i miei occhi,
magari capirò qualcosa di piú.
– Non dimenticare di
controllare la stanza segreta, come nel castello di
Barbablú.
– Me lo ricorderò, stai
tranquilla – dissi.
– Per ora è andato tutto
liscio.
– In che
senso?
– Be’, sei riuscito a
finire il quadro senza problemi, al signor Menshiki è piaciuto, e
tu hai guadagnato un sacco di soldi.
– Sí, è vero. Da questo
punto di vista tutto è andato liscio. Per me è un sollievo
enorme…
– Congratulazioni,
Maestro! – rise lei.
Non mentivo dicendo che
mi sentivo sollevato. Che il quadro fosse finito era vero. E anche
che Menshiki ne era soddisfatto. Cosí come erano reali il senso di
appagamento che avevo provato dipingendolo, e il sostanzioso
compenso che avrei ricevuto. Eppure, malgrado tutti questi buoni
motivi, non riuscivo ad essere completamente soddisfatto di quella
conclusione. Troppe cose nelle quali ero coinvolto erano rimaste
irrisolte, mi sentivo senza un appiglio saldo. Avevo l’impressione
che piú cercavo di semplificarmi la vita, piú la situazione
diventava complicata e incoerente.
Quasi senza rendermene
conto, allungai le braccia e strinsi a me la mia amante, come per
trovare un appiglio nel suo corpo. Era morbido e caldo. Un po’
umido di sudore.
«So bene dov’eri e cosa
stavi facendo», mi aveva detto l’uomo con la Subaru Forester
bianca.