Capitolo diciannovesimo
Vede qualcosa dietro di me?
Sabato, all’una del pomeriggio, la mia amante arrivò sulla sua Mini rossa. Uscii per andarle incontro. Aveva un semplice vestito beige, una leggera giacca grigia, occhiali da sole.
– Preferisci che lo facciamo in macchina? O è meglio a letto? – le chiesi.
– Stupido! – fece lei ridendo.
– Be’, non era niente male, in macchina. In uno spazio ristretto si è obbligati a inventarsi tante cose.
– Un’altra volta.
Ci sedemmo nel soggiorno a bere un tè.
– Sai, ho terminato il ritratto che mi ha tanto impegnato, – le dissi. – Quello di Menshiki… in teoria. Ma è molto diverso dagli altri ritratti che ho dipinto su commissione.
Chissà perché, lei sembrava molto interessata al mio racconto.
– Potrei vederlo? – chiese.
Scossi la testa.
– Sei in ritardo di un giorno. Avrei voluto sentire anche il tuo parere, ma il signor Menshiki se l’è già portato via. I colori non erano ancora del tutto asciutti, ma lui non vedeva l’ora di averlo tutto per sé. Neanche avesse paura che se lo prendesse qualcun altro!
– Vuol dire che gli è piaciuto.
– Sí, me l’ha detto anche lui. E non vedo ragione di dubitarne.
– Il quadro è venuto bene, il committente è soddisfatto… Tutto è bene quel che finisce bene, allora, no?
– Forse, – dissi. – E io, per quel che mi riguarda, sono anche contento. È un’opera molto diversa dalle mie solite, apre tante strade per il futuro.
– Vuoi dire che sei approdato a un nuovo stile?
– Mah, chi può dirlo… Magari ho ottenuto questo risultato proprio perché stavo ritraendo il signor Menshiki. Oppure no, il modello non c’entra: magari è per caso che dipingendo un normale ritratto sono giunto a qualcosa di nuovo. Di certo non so se una cosa del genere potrà verificarsi ancora, nemmeno se ritraessi di nuovo il signor Menshiki. Forse è stata una coincidenza irripetibile di fattori molto diversi tra loro. Fatto sta, ed è la cosa piú importante per me al momento, che mi è tornata la voglia di dipingere.
– In ogni caso, hai terminato il quadro, congratulazioni.
– Grazie, – dissi. – E ho anche guadagnato una bella somma.
– Be’, è generoso, questo tuo signor Menshiki! – osservò lei.
– Inoltre, per festeggiare il completamento dell’opera, mi ha invitato a casa sua. Cenerò con lui martedí sera.
Le parlai di quell’invito. Omettendo la parte che riguardava la mummia, ovviamente. Le dissi solo che saremmo stati in due, piú un cuoco e un barman.
– Ecco che finalmente potrai mettere piede in quella grande villa bianca! – fece lei impressionata. – Nella dimora misteriosa di quell’uomo misterioso. Guarda bene tutto, mi raccomando! Sono molto curiosa.
– Guarderò quello che riuscirò a vedere.
– E non dimenticare i piatti che verranno serviti. Dovrai elencarmi tutti gli ingredienti.
– Cercherò di ricordarmelo. A proposito, l’altro giorno mi hai detto che hai informazioni nuove, sul signor Menshiki.
– Sí, le ho avute col solito sistema. Sai, il tam-tam nella giungla…
– E cos’hai saputo?
Lei parve un po’ perplessa. Prese la tazza e bevve un sorso di tè.
– Te ne parlerò piú tardi, – disse. – Prima vorrei fare una cosetta…
– Cioè? Sentiamo.
– Be’, non sono cose che si descrivono, dài! Diventerei tutta rossa.
Dal soggiorno ci spostammo in camera da letto. Come sempre.
Durante la mia vita matrimoniale con Yuzu, non avevo mai avuto rapporti sessuali con altre donne. Non perché non se ne fosse presentata l’occasione; quello a cui piú tenevo, a quell’epoca, non era cercare altrove nuove possibilità, ma condurre un’esistenza serena insieme a mia moglie. E anche riguardo al sesso, i rapporti che avevo con Yuzu soddisfacevano ampiamente i miei appetiti. Ed ecco invece che a un certo punto, senza alcun preavviso (per lo meno cosí parve a me), mia moglie si scusava e mi annunciava che si era stufata di vivere con me. Aveva preso una decisione irremovibile, che non lasciava spazio a discussioni o compromessi. Disorientato, non avevo saputo come reagire. Né trovare le parole giuste. Una cosa però l’avevo capita: non potevo piú restare lí con lei.
Di conseguenza avevo raccattato quelle poche cose che mi servivano e mi ero messo in viaggio senza una meta precisa sulla mia Peugeot 205. La primavera era iniziata da poco piú di un mese, ma io mi ero spostato nel Tōhoku e nell’Hokkaidō, dove il clima era ancora invernale. Finché la macchina aveva alzato bandiera bianca. Durante tutto il viaggio, la notte pensavo sempre a Yuzu, al suo corpo. Ad ogni singola parte, ogni dettaglio. Alle reazioni che aveva quando la toccavo, ai suoi movimenti, alla sua voce, a tutto. Non volevo ricordare, ma non ne potevo fare a meno. E a volte, eccitato dal ricordo, avevo un orgasmo. Anche se non era stata mia intenzione.
Una sola volta però, durante quel lungo viaggio, avevo fatto sesso con una donna in carne e ossa. Per una strana concatenazione di eventi, ero finito nello stesso letto con una ragazza che non conoscevo. Non perché l’avessi voluto io.
Era accaduto in una piccola città costiera della prefettura di Miyagi. So che era vicino al confine con la prefettura di Iwate, ma in quel periodo mi spostavo ogni giorno di molti chilometri, attraversando una serie di cittadine tutte uguali di cui avevo dimenticato il nome. Ricordo che era un importante porto ittico, ma da quelle parti quasi tutte le città lo sono. E ovunque si sente odore di gasolio e di pesce.
Stavo cenando da solo in un ristorante per famiglie lungo la statale. Saranno state le otto di sera. Riso al curry con gamberi e insalata della casa. I clienti nel locale si sarebbero potuti contare sulle dita di due mani. Mi ero seduto a un tavolo accanto alla finestra e mangiavo leggendo un libro, quando all’improvviso una ragazza era venuta a sedersi di fronte a me. Senza esitazioni, senza dirmi una parola, era scivolata svelta sulla sedia di plastica. Come se non ci fosse nulla di piú naturale al mondo.
Alzai la testa sorpreso. Non la conoscevo, ovviamente. Non l’avevo mai vista. La cosa era stata cosí improvvisa che mi aveva spiazzato. C’erano tanti tavoli liberi. Che motivo aveva di venire a mettersi proprio di fronte a me? Oppure era una cosa che in quella città si faceva comunemente? Posai la forchetta, mi asciugai gli angoli della bocca con un tovagliolo di carta e la guardai.
– Assomiglia a una persona che conosco, – disse senza preamboli la ragazza. – È come se ci fossimo dati appuntamento qui.
Aveva una voce roca, o forse era cosí in quel momento a causa della tensione. Aveva un leggero accento del Tōhoku.
Chiusi il libro dopo aver messo il segnalibro alla pagina che stavo leggendo. La ragazza doveva avere venticinque o ventisei anni. Indossava una camicetta bianca con il colletto rotondo e un cardigan blu. Non sembravano capi di buona qualità, né l’una né l’altro. E nemmeno alla moda. Il genere di roba che ci si mette per andare al supermercato del quartiere. I capelli erano neri e corti, la frangetta le copriva la fronte. Non sembrava truccata. Sulle ginocchia aveva posato una borsa nera di stoffa con la tracolla.
Un viso abbastanza anonimo. I lineamenti non erano male, ma nel complesso non dicevano niente. Una di quelle facce che ci passano accanto senza lasciare impressioni particolari. Che si dimenticano subito. Teneva le labbra serrate, respirava col naso. Mi parve che ansimasse un po’. Le narici le fremevano leggermente. Il naso piccolo creava uno squilibrio con la bocca troppo grande. Mi venne in mente l’immagine di uno scultore che, mentre fa una statua, a un certo punto si trova a corto di argilla e ne toglie un po’ dal naso.
– Mi sembrava di conoscerla, d’accordo? – ripeté la ragazza. – La smetta di fare quella faccia sbalordita.
– Va bene, – risposi, senza capirci nulla.
– Continui a mangiare normalmente. E faccia finta di parlare con me come se fossimo in confidenza.
– Di cosa devo parlare?
– Lei è di Tōkyō?
Riprendendo in mano la forchetta, feci cenno di sí. Mangiai un pomodorino. Bevvi un sorso d’acqua.
– L’ho capito dal suo accento, – proseguí lei. – Ma cosa ci fa in un posto come questo?
– Passavo di qui… – dissi.
Una cameriera con l’uniforme giallo zenzero venne al tavolo tenendo lo spesso menu stretto fra le braccia. Aveva un seno straordinariamente prosperoso, i bottoni dell’uniforme sembravano dover saltare da un momento all’altro. La ragazza di fronte a me non prese il menu. Non alzò nemmeno la testa a guardare la cameriera.
– Un caffè e una fetta di cheesecake, – disse soltanto, continuando a fissare la mia faccia. Come se l’ordinazione la stesse facendo a me. La cameriera annuí in silenzio e se ne andò, il menu sempre tra le braccia.
– Senta, per caso si è ficcata in qualche guaio? – chiesi.
La ragazza non rispose. Si limitava a osservarmi, come se stesse valutando il mio viso.
– Vede qualcosa dietro di me? C’è qualcuno? – mi domandò.
Gettai un’occhiata alle sue spalle. Vidi solo gente normale che mangiava normalmente. Dopo di lei, non erano entrati altri clienti.
– No, niente. Non c’è nessuno, – risposi.
– Non smetta di guardare. Se vede qualcosa, me lo dica. Intanto continui a parlare, disinvolto.
Dal nostro tavolo si vedeva il parcheggio del locale. Anche la mia vecchia Peugeot sporca di fango. C’erano altre due macchine: un’utilitaria verde e una grossa monovolume nera. La monovolume doveva essere nuova. Erano ferme lí già da un po’. Altre automobili non ne erano arrivate. La ragazza forse era venuta a piedi. Oppure ce l’aveva portata in macchina qualcuno.
– Passava di qui per caso? – mi chiese la ragazza.
– Sí.
– Sta facendo un viaggio?
– Piú o meno… – dissi.
– Cosa stava leggendo? Che libro è, quello?
Glielo porsi. Era un romanzo di Mori Ōgai.
La famiglia Abe, – disse lei, e me lo restituí. – Perché legge questa vecchia roba?
– Era nella sala comune di un ostello di Aomori dove mi sono fermato a dormire qualche giorno fa. Ne ho letto qualche pagina, l’ho trovato interessante e me lo sono portato via. In cambio ho lasciato alcuni libri che avevo già finito.
– Non ho mai letto La famiglia Abe. Le piace?
Era la seconda volta che lo leggevo. La storia era affascinante, ma adesso quello che mi interessava di piú era capire perché Mori Ōgai l’avesse scritto, per quale ragione profonda, quale urgenza lo spingeva. Spiegare tutto questo alla ragazza era impensabile, rischiavamo di andare per le lunghe. Non eravamo mica in un gruppo di lettura! Senza contare che la ragazza mi aveva chiesto del libro solo perché era la prima cosa che le era caduta sotto gli occhi, per conversare con me in modo naturale (o per lo meno per dare quest’impressione a chi ci guardava).
– Penso che valga la pena di leggerlo, – dissi.
– Di cosa si occupa?
– Mori Ōgai? In questo libro?
Lei sbuffò.
– Ma no, si figuri! Cosa vuole che me ne importi di Mori Ōgai! Lei, sto parlando di lei. Che cosa fa, nella vita?
– Dipingo quadri.
– Ah, un pittore.
– Sí, penso che mi si possa definire cosí.
– E che cosa dipinge?
– Ritratti.
– Tipo quelli che nelle aziende sono appesi nell’ufficio dell’amministratore delegato? Ritratti di gente importante che dalle pareti ti guarda dall’alto in basso?
– Proprio cosí.
– È specializzato in quel genere di quadri?
Annuii.
A quel punto lei smise di parlare di pittura. Forse l’argomento non l’incuriosiva piú. Perché, diciamolo, la maggior parte della gente non ha il minimo interesse per i ritratti, a parte le persone che vi sono raffigurate, s’intende.
In quel momento i pannelli della porta automatica si aprirono ed entrò un uomo alto, di mezza età. Indossava un giubbotto di pelle nera e in testa aveva un berretto con il marchio di un produttore di articoli da golf. Fermo sulla soglia gettò uno sguardo circolare nel ristorante, scelse un tavolo a un paio di metri da noi e venne a sedersi lí. Si tolse il berretto, si lisciò piú volte i capelli con le mani, e si mise a studiare il menu che gli portò la cameriera dal grosso seno. Tra i capelli tagliati a spazzola ce n’erano molti bianchi. Era magro, col viso cotto dal sole. Rughe profonde che si susseguivano come onde gli solcavano la fronte.
– È entrato un uomo, – dissi alla ragazza.
– Com’è?
Ne feci una breve descrizione.
– Me lo potrebbe disegnare?
– Farne il ritratto, cioè?
– Sí. È o non è un pittore?
Tirai fuori dalla tasca taccuino e matita a scatto, e con pochi tratti raffigurai il volto dell’uomo. Ci misi anche l’ombreggiatura. Mentre disegnavo, non avevo nemmeno bisogno di guardare l’uomo. Ho il talento di cogliere le caratteristiche di un viso alla prima occhiata e imprimermele nel cervello. Posai il ritratto sul tavolo e lo girai verso la ragazza. Lei lo prese, strinse un po’ le palpebre e lo osservò a lungo, con lo stesso sguardo sospettoso con cui un impiegato di banca controlla la firma su un assegno. Posò di nuovo il foglio sul tavolo.
– Accidenti! È proprio bravo a disegnare, – disse guardandomi. Sembrava davvero impressionata.
– È il mio mestiere, – risposi. – Comunque, lo conosce o no, quest’uomo?
Lei scosse la testa in silenzio e strinse le labbra, senza cambiare espressione. Piegò il mio disegno in quattro, lo mise nella borsa. Non capivo per quale ragione lo volesse tenere. Poteva appallottolarlo e gettarlo.
– No, non lo conosco, – disse alla fine.
– Quest’uomo però la sta cercando, non è cosí?
Non rispose alla mia domanda.
La cameriera portò il cheesecake e il caffè e, finché non si allontanò, la ragazza rimase in silenzio. Poi tagliò un pezzetto di torta e ci giocò con la punta della forchetta. Mi ricordava un giocatore di hockey che si allena prima di una partita. Finalmente lo mise in bocca e lo masticò. Inghiottí, bevve un sorso di caffè dopo averci messo un po’ di latte. E spinse da parte il piatto, come se non le servisse piú.
Alle macchine parcheggiate si era aggiunto un Suv bianco. Una vettura tozza e alta. Con grossi cerchioni lucenti. Doveva appartenere all’uomo appena entrato. Era rivolta col portabagagli verso il ristorante. Sul coperchio della ruota di scorta attaccata al portellone c’era scritto SUBARU FORESTER. Finii di mangiare il mio riso al curry. Quando la cameriera venne a ritirare i piatti, ordinai un caffè.
– È da molto che è in viaggio? – mi chiese la ragazza.
– Sí, da parecchio tempo.
– Viaggiare le piace?
La risposta esatta sarebbe stata che non era un viaggio di piacere. Ma il discorso si sarebbe fatto lungo e complicato.
– Piú o meno, – mi limitai a dirle.
Mi osservò come se si trovasse davanti a un animale raro.
– Certo che non è un chiacchierone, lei.
La risposta esatta sarebbe stata che dipendeva da chi avevo di fronte. Ma di nuovo, il discorso si sarebbe fatto lungo e complicato.
Il caffè arrivò, ne bevvi un sorso. Per avere gusto di caffè, lo aveva, ma non si poteva certo dire che fosse buono. Almeno era caldo. Nel ristorante, dopo l’uomo dai capelli sale e pepe non era entrato nessun altro. Lo sentii ordinare ad alta voce del riso e un hamburger.
Gli altoparlanti diffondevano Fool on the Roof in un adattamento per strumenti ad arco. Chi l’aveva composta, quella canzone? John Lennon o Paul McCartney? Non lo ricordavo. Forse John Lennon. Non me ne fregava nulla, ma non sapevo a cos’altro pensare.
– È venuto in macchina? – mi chiese la ragazza.
– Sí.
– Che macchina?
– Una Peugeot rossa.
– Targata come?
– Shinagawa, – dissi.
Dalla faccia, non sembrava contenta di quelle risposte. Come se una Peugeot rossa targata Shinagawa rievocasse per lei brutti ricordi. Comunque si sistemò le maniche del cardigan e controllò che la camicetta fosse abbottonata bene. Prese un tovagliolo di carta e si asciugò le labbra.
– Andiamo! – disse di punto in bianco.
Bevve metà dell’acqua nel bicchiere e si alzò. Sul tavolo lasciò il caffè di cui aveva bevuto solo un sorso e la fetta di cheesecake di cui aveva mangiato solo un boccone. Quasi stesse abbandonando in fretta e furia il luogo di un disastro.
Senza sapere dove eravamo diretti, mi alzai anch’io. Presi il foglietto del conto e andai a pagare alla cassa. Il conto includeva la sua consumazione, ma lei non si sognò di ringraziare. A quanto pareva, l’idea di pagare la sua parte non la sfiorava nemmeno.
Quando uscimmo dal ristorante, l’uomo di mezza età che era entrato dopo di noi stava mangiando con poco entusiasmo il suo hamburger. Alzò la testa per lanciarci un’occhiata, ma fu tutto quello che fece. Subito dopo tornò a guardare nel piatto e servendosi di coltello e forchetta riprese a mangiare. Quanto alla ragazza, non voltò neppure gli occhi dalla sua parte.
Mentre passavamo davanti alla Subaru Forester bianca, notai che sul paraurti posteriore era attaccato un adesivo col disegno di un pesce. Forse un pescespada. Chissà perché uno si attacca al paraurti l’adesivo di un pescespada… magari il proprietario lavorava nel commercio ittico, oppure era un pescatore.
Lei non disse dove voleva andare. Si sedette accanto a me e col dito mi fece segno di proseguire lungo la strada che avevamo davanti. Sembrava conoscere bene la zona. Forse era nata da quelle parti, o ci abitava da molto tempo. Mi avviai nella direzione indicatami. Avanzammo per qualche chilometro sulla nazionale che si allontanava dalla città, finché apparve l’insegna vistosa di un love hotel. Lei mi disse di parcheggiare lí, io eseguii e spensi il motore.
– Stanotte dormo qui, – mi disse in tono declamatorio. – Perché a casa non ci posso tornare. Venga con me.
– Veramente… stanotte pensavo di fermarmi in un altro posto, – replicai. – Ho già fatto il check in, e ho lasciato lí i miei bagagli.
– Dove sarebbe?
Le dissi il nome di un piccolo business hotel vicino alla stazione ferroviaria.
– Be’, qui è molto meglio, mi pare. Cosa va a fare in quell’alberghetto di terza categoria! – fece lei. – Scommetto che la camera non è piú grande di un armadio a muro!
Aveva ragione, la stanza aveva piú o meno le dimensioni di un ripostiglio.
– Inoltre una donna sola in questo posto non l’accettano, – proseguí. – Mi scambiano per una escort, non si fidano. Non faccia storie, per favore, venga con me, forza!
Alla reception pagai una notte (anche questa volta lei non mostrò il minimo segno di gratitudine), poi presi la chiave che mi venne consegnata. Appena fummo in camera, per prima cosa la ragazza riempí la vasca da bagno di acqua calda, accese il televisore, regolò attentamente le luci. La stanza era molto piú accogliente di quella che avevo prenotato al business hotel. La ragazza dava l’impressione di esserci già stata − o per lo meno in un posto simile − diverse volte. Si sedette sul letto e si tolse il cardigan. Si tolse anche la camicetta. La gonna a portafoglio. I collant. Reggiseno e slip erano bianchi, semplicissimi. Non nuovi. Il genere di biancheria che una casalinga mette per andare al supermercato. Passò svelta le braccia dietro la schiena per slacciarsi il reggiseno, lo piegò e lo posò accanto al cuscino. I suoi seni non erano né grandi né piccoli.
– Dài, vieni, – mi disse. – Dal momento che siamo qui, facciamo sesso, no?
Fu la sola avventura erotica che ebbi durante quel lungo viaggio − quel lungo vagabondare. Scopammo come pazzi. Lei raggiunse l’orgasmo quattro volte. E per poco credibile che possa sembrare, non erano orgasmi simulati. Io venni due volte. La cosa strana, però, è che da parte mia non provai molto piacere. Per tutta la durata del rapporto ero con la testa altrove.
– Di’, mi sa che era da molto che non facevi sesso, tu, – mi disse la ragazza a un certo punto.
– Qualche mese, – le risposi sinceramente.
– L’avevo capito. Ma come mai? Non mi sembri il tipo che con le donne non ha successo.
– Be’, ci sono diversi motivi…
– Poverino, – disse lei facendomi una carezza sul collo. – Poverino…
Poverino… ripetei mentalmente. Ora che me lo sentivo dire, sí, ero davvero una persona da compatire. Mi trovavo in una città sconosciuta, in un posto assurdo, in circostanze incomprensibili, accanto a una donna di cui non conoscevo nemmeno il nome.
Tra un rapporto e l’altro, bevemmo insieme un paio di birre che prendemmo dal frigo. Ci addormentammo forse verso l’una del mattino. Quando mi svegliai, lei era scomparsa. Non aveva neanche lasciato un messaggio. Ero solo, disteso in quel letto enorme. L’orologio segnava le sette e mezzo, fuori dalla finestra era già chiaro. Aprii le tende: si vedeva la costa e la litoranea statale, percorsa nei due sensi da grossi e rumorosi camion con cella frigorifera per il trasporto del pesce. Al mondo ci sono tante cose che danno un senso di vuoto, ma mai quanto svegliarsi il mattino, da soli, nella stanza di un love hotel.
Colto da un sospetto improvviso, controllai i soldi nel portafoglio che tenevo nella tasca dei pantaloni. Contanti, carta di credito, bancomat, patente… non mancava nulla. Tirai un sospiro di sollievo. Se mi avesse rubato il portafoglio, mi sarei sentito perduto. E non era una possibilità da escludere. Dovevo stare piú attento.
Di sicuro lei era uscita il mattino presto, mentre io dormivo ancora profondamente. Ma come aveva fatto a tornare in città − o dovunque abitasse? A piedi? O aveva chiamato un taxi? In ogni caso, non erano piú affari miei. Non valeva neanche la pena di pensarci.
Restituii la chiave alla reception, pagai le birre consumate, risalii sulla Peugeot e presi la strada che portava in città. Dovevo ritirare la borsa che avevo lasciato nell’altro hotel, quello davanti alla stazione, e pagare una notte. La strada passava davanti al ristorante della sera prima. Decisi di fare colazione lí. Avevo una fame tremenda e volevo bere un caffè caldo. Entrando nel parcheggio, vidi un poco piú avanti una Subaru Forester bianca. Orientata allo stesso modo, con lo stesso adesivo di un pescespada attaccato al parafango posteriore. Era quella che avevo visto la sera prima, non avevo dubbi. Era solo parcheggiata un po’ piú in là. Logicamente: quello non era un posto dove la gente passasse la notte.
Entrai. Il locale era quasi vuoto. Come avevo previsto, l’uomo di mezza età stava facendo colazione, seduto forse allo stesso tavolo. Indossava lo stesso giubbotto di pelle nera. Di nuovo si era tolto il berretto da golf nero col marchio della Yonex e l’aveva posato in un angolo. L’unica variante era il giornale piegato che teneva sul tavolo. Davanti a lui c’erano pane tostato e uova strapazzate. Dovevano averglieli appena portati, perché il caffè fumava ancora. Quando gli passai di fianco, l’uomo alzò la testa e mi fissò. Con uno sguardo penetrante e freddo che la sera prima non aveva. Uno sguardo accusatorio. Per lo meno cosí lo percepii.
«So bene dov’eri e cosa stavi facendo», sembrava dirmi.
Ecco, in dettaglio, cosa mi era successo in quella piccola città costiera della prefettura di Miyagi. Cosa volesse da me quella ragazza dal naso piccolo e i denti perfettamente allineati non l’ho mai capito. Né avevo capito se stesse scappando dall’uomo di mezza età con la Subaru bianca, e se lui la cercasse o meno. In ogni caso, ero stato coinvolto in quella loro storia, e per un singolare sviluppo della situazione ero finito in un love hotel con una ragazza appena conosciuta, e ci avevo fatto sesso. Ed era stata l’esperienza erotica piú estrema che avessi mai avuto in vita mia. Eppure il nome di quella città non lo ricordavo.
– Posso avere un bicchier d’acqua? – mi chiese la mia amante. Si era appena svegliata da un breve sonnellino. Mentre lei dormiva, io ero rimasto a guardare il soffitto rievocando lo strano episodio accadutomi in quella città portuale. Erano passati solo sei mesi, eppure mi sembrava un’altra vita.
Andai in cucina, riempii d’acqua minerale un grande bicchiere e tornai a letto. Lei ne bevve la metà in un sorso.
– A proposito, riguardo al signor Menshiki, – disse dopo aver posato il bicchiere sul comodino.
– Riguardo a Menshiki?
– Sí. Prima ti ho detto che ho notizie fresche, no?
– Ah, già. Le informazioni trasmesse dal solito tam-tam…
– Esatto, – fece lei, e bevve un altro sorso d’acqua. – Il tuo amico Menshiki, da quanto mi hanno detto, ha passato un periodo di tempo piuttosto lungo in galera, a Tōkyō.
– In galera a Tōkyō? – chiesi sollevandomi su un gomito e guardandola in faccia.
– Sí. Nel carcere di Kosuge.
– Accusato di cosa?
– Di preciso non lo so, ma credo sia una faccenda di soldi. Evasione fiscale, riciclaggio di denaro sporco, insider trading… forse tutte queste cose insieme. È stato in prigione sei o sette anni fa. Ma lui ti ha detto qual è il suo lavoro di preciso?
– Mi ha spiegato che si occupa di scambio di informazioni, – risposi. – Che aveva messo su un’impresa, e che alcuni anni fa ne ha venduto le azioni a un prezzo molto alto. Adesso vive della plusvalenza ricavata da quella vendita.
– Scambio di informazioni… molto vaga, come spiegazione. Se ci pensi, nella società attuale, in pratica non esistono quasi piú lavori che non richiedano uno scambio di informazioni.
– Da chi hai saputo che è stato in galera?
– Da un amico di mio marito che gioca in borsa. Non so quanto ci sia di vero, però. Sono cose sentite da qualcuno che le ha raccontate a qualcun altro… Non c’è da fidarsi. Ma a giudicare dal tipo di storia, non mi pare una diceria infondata.
– Se era nel carcere di Kosuge, vuol dire che è stato arrestato per ordine della Procura di Tōkyō.
– In realtà è stato poi assolto. Però in prigione c’è rimasto parecchio, e pare che gli interrogatori siano stati davvero tosti. Il periodo di incarcerazione preventiva è stato rinnovato diverse volte, e non gli è stata concessa la libertà su cauzione.
– Però è stato assolto…
– Sí. È stato inquisito, ma è riuscito a farla franca, e ha evitato il processo. Durante gli interrogatori pare che abbia sempre tenuto la bocca chiusa.
– Per quel che ne so io, alla Procura di Tōkyō non scherzano. Sono bravi e ne vanno fieri. Se sospettano di qualcuno, di solito riescono a portarlo in tribunale; le prove, con le buone o con le cattive, le trovano sempre. E sembra che la percentuale di sentenze di colpevolezza sia molto alta. Negli interrogatori non usano certo i guanti: la maggior parte degli indagati non regge allo stress e finisce per confessare quello che vogliono gli inquirenti, e firmano il verbale. Tener duro e non fiatare non è da tutti.
– Comunque il signor Menshiki ce l’ha fatta. Non è solo intelligente, è anche determinato.
Già, Menshiki era una persona fuori dal comune. Aveva una volontà di ferro e un cervello non comune.
– Però c’è una cosa che non mi convince, – dissi. – Che si tratti di evasione fiscale o di riciclaggio, se alla Procura di Tōkyō decidono di arrestare qualcuno, la notizia dovrebbe arrivare sui giornali. E un nome raro come Menshiki me lo ricorderei. Fino a poco tempo fa, leggevo scrupolosamente il giornale tutti i giorni.
– Mah, di questo non so nulla… Ah, c’è ancora una cosa. L’altra volta ti ho detto che ha comprato la villa tre anni fa, ricordi? Be’, a quanto pare ha forzato un po’ la mano. La famiglia che ci abitava l’aveva appena fatta costruire e non sembrava intenzionata a venderla. Per mandarla via e trasferirsi lí, il signor Menshiki si è servito di una grossa somma di denaro o di qualche altro mezzo piú convincente. Un paguro prevaricatore.
– Il paguro non caccia via nessuno dalla sua conchiglia. Fa sua quella lasciata da un mollusco morto, senza usare le maniere forti.
– Sí, ma non è escluso che esistano dei paguri prepotenti.
– È tutto molto strano, – dissi, mettendo fine alla discussione sui paguri. – Se le cose sono andate come dici tu, per quale motivo Menshiki ha voluto impossessarsi di quella casa a tutti i costi? Ha addirittura cacciato via le persone che ci abitavano prima, pur di andare a starci lui! Avrà speso una montagna di soldi, e dovrà essere stato anche molto insistente. E poi mi sembra che quella villa, in fondo, sia troppo lussuosa e appariscente per uno come lui. È sicuramente bellissima, ma non mi sembra il genere di casa che possa piacergli.
– Ed è anche troppo grande. Il signor Menshiki ci vive solo, non ha una domestica, non riceve quasi mai nessuno… che bisogno ha di una casa di quelle dimensioni? – La mia amante bevve l’acqua che restava nel bicchiere in un sorso, poi proseguí: – Per volere proprio quella villa doveva avere una ragione precisa. Non riesco a immaginare quale, però.
– Comunque sia, martedí sera sono invitato lí. Quando vedrò la casa con i miei occhi, magari capirò qualcosa di piú.
– Non dimenticare di controllare la stanza segreta, come nel castello di Barbablú.
– Me lo ricorderò, stai tranquilla – dissi.
– Per ora è andato tutto liscio.
– In che senso?
– Be’, sei riuscito a finire il quadro senza problemi, al signor Menshiki è piaciuto, e tu hai guadagnato un sacco di soldi.
– Sí, è vero. Da questo punto di vista tutto è andato liscio. Per me è un sollievo enorme…
– Congratulazioni, Maestro! – rise lei.
Non mentivo dicendo che mi sentivo sollevato. Che il quadro fosse finito era vero. E anche che Menshiki ne era soddisfatto. Cosí come erano reali il senso di appagamento che avevo provato dipingendolo, e il sostanzioso compenso che avrei ricevuto. Eppure, malgrado tutti questi buoni motivi, non riuscivo ad essere completamente soddisfatto di quella conclusione. Troppe cose nelle quali ero coinvolto erano rimaste irrisolte, mi sentivo senza un appiglio saldo. Avevo l’impressione che piú cercavo di semplificarmi la vita, piú la situazione diventava complicata e incoerente.
Quasi senza rendermene conto, allungai le braccia e strinsi a me la mia amante, come per trovare un appiglio nel suo corpo. Era morbido e caldo. Un po’ umido di sudore.
«So bene dov’eri e cosa stavi facendo», mi aveva detto l’uomo con la Subaru Forester bianca.