Capitolo quindicesimo
Quello era solo l’inizio
Quella stessa sera, Menshiki mi chiamò per dirmi che gli operai sarebbero venuti l’indomani mattina alle dieci.
Il giorno dopo, un mercoledí, piovigginava, ma non cosí tanto da intralciare i lavori. Non c’era neanche bisogno dell’ombrello, bastava indossare un impermeabile e un cappello, o un cappuccio. Menshiki aveva un berretto verde oliva in testa, uno di quelli che gli inglesi usano quando vanno a caccia di anatre; non si distingueva quasi dagli alberi che iniziavano a prendere i colori autunnali e man mano che si bagnava diventava piú scuro.
Servendosi di un furgone, gli operai portarono su una piccola ruspa. Una macchina compatta, concepita appositamente per essere usata in spazi ristretti. In tutto gli uomini erano quattro: il manovratore della ruspa, due manovali e un capocantiere. Arrivarono tutti insieme sul furgone. Indossavano casacche e pantaloni blu impermeabili, pesanti stivali da lavoro sporchi di fango. In testa avevano caschi rinforzati. Menshiki e il capocantiere sembravano conoscersi già da tempo, perché si misero a chiacchierare cordialmente vicino al tumulo. Malgrado la relativa confidenza, però, si notava l’atteggiamento deferente del secondo nei confronti del primo.
In effetti, per procurarsi in cosí breve tempo uomini e mezzi, Menshiki doveva davvero essere una persona molto influente. Ero impressionato da quel rapido sviluppo della situazione, ma provavo anche un certo disagio. Mi sembrava che tutto mi stesse sfuggendo di mano, e in un certo senso vi ero quasi rassegnato. Quando ero piccolo, succedeva che con altri bambini iniziassimo un gioco, finché a un certo punto si intromettevano dei ragazzini piú grandi e se lo accaparravano, ne facevano un gioco loro, escludendoci. Era esattamente la sensazione che provavo in quel momento.
Per prima cosa gli operai livellarono il suolo con le pale, servendosi anche di sassi e tavole di legno, per permettere alla ruspa di muoversi in sicurezza, poi iniziò il lavoro vero e proprio. In men che non si dica i cingoli avevano schiacciato le piume della pampa tutt’intorno al tumulo. A poca distanza, noi osservavamo le pietre venire sollevate a una a una e posate poco lontano. Non notammo niente di particolare. Un normalissimo lavoro di scavo, come se ne fanno ogni giorno in ogni parte del mondo. Anche i gesti degli operai erano quelli soliti, seguivano con indifferenza una sequenza di gesti per loro solita. L’uomo che manovrava la ruspa ogni tanto si fermava e gridava qualcosa al capocantiere, ma non sembrava mai trattarsi di qualche problema insormontabile. Un breve scambio di parole senza bisogno di spegnere il motore.
Da parte mia, però, non riuscivo ad assistere a quell’operazione con animo sereno. Ad ogni masso che veniva portato via, la mia inquietudine cresceva. Mi sentivo come se i robusti e ostinati denti di quella macchina scavassero dentro di me, strappandomi a uno a uno degli oscuri segreti che avevo a lungo sepolto lontano da occhi indiscreti. Ma la cosa piú grave, quella piú angosciante, era che nemmeno io sapevo bene in cosa quei segreti consistessero. Piú volte, mentre osservavo impassibile, pensai che dovevo interrompere quegli scavi, subito. O per lo meno, che quell’enigma non andava risolto usando un mezzo grosso e potente come una ruspa, non era il modo giusto. Come mi aveva detto Masahiko al telefono, sarebbe stato meglio non disturbare quella creatura. Avrei voluto afferrare Menshiki per un braccio e urlargli: «Basta, smettiamola! Rimettiamo le pietre al loro posto!»
Naturalmente non lo feci. Non ne fui capace. Avevamo preso una decisione, i lavori erano iniziati. Coinvolgevano diverse persone. Era stato pattuito il pagamento di una discreta somma di denaro (non sapevo quanto, se ne occupava Menshiki). Non era possibile interrompere tutto di punto in bianco. Le cose erano andate avanti un passo dopo l’altro, in modo indipendente dalla mia volontà.
Come se mi leggesse nel pensiero, a un certo punto Menshiki mi venne vicino e mi diede una leggera pacca su una spalla.
– Non si deve preoccupare di nulla, – disse in tono rassicurante. – Tutto procede senza problemi. Vedrà che presto risolveremo ogni cosa.
Annuii in silenzio.
Verso mezzogiorno la maggior parte dei massi erano stati spostati. Quelle antiche pietre ammonticchiate confusamente in un tumulo semidiroccato ora formavano a poca distanza una piccola piramide, sovrapposte in modo ordinato e fin troppo regolare. La pioggia fine vi cadeva sopra senza rumore. Una volta rimosse, tuttavia, al loro posto non era rimasta la nuda terra. Sotto c’erano altre pietre. Allineate in modo relativamente regolare, costituivano una base lastricata, un quadrato di circa due metri di lato.
– Che razza di roba è? – chiese il capocantiere venendo a mettersi di fianco a Menshiki. – Ero sicuro che le pietre fossero accumulate direttamente sul terreno, invece guardi lí. È una specie di pavimento, e sotto pare che ci sia uno spazio vuoto. Ho provato a infilare una sottile stecca di metallo in una fessura, ed è andata giú di parecchio. Si direbbe una buca profonda, ma al momento non saprei dirle quanto.
Menshiki e io salimmo insieme, con molta cautela, su quella base lastricata appena venuta allo scoperto. Le pietre, bagnate, erano molto scure e in qualche punto scivolose. Erano state tagliate e accostate con regolarità, ma il tempo ne aveva ormai arrotondato i bordi, tanto che tra l’una e l’altra si aprivano larghe fessure. Ecco da dove proveniva il tintinnio che si faceva sentire ogni notte! Da lí probabilmente poteva entrare e uscire anche l’aria. Mi chinai a scrutare in uno spiraglio, ma non vidi nulla. Solo buio.
– Può anche darsi che con queste pietre ci abbiano chiuso un antico pozzo. Anche se l’apertura è un po’ troppo grande per un pozzo, – disse il capocantiere.
– Ma si possono togliere, secondo lei? – chiese Menshiki.
L’uomo si strinse nelle spalle.
– Mah! Non era previsto e il lavoro è piú complicato… ma non è impossibile. La cosa migliore sarebbe usare una gru, ma portarla fin qui è impensabile. Però le lastre, prese una per una, non sono molto pesanti e non combaciano perfettamente, se ci inventiamo qualcosa magari riusciamo a staccarle con questa ruspa. Adesso ci fermiamo per pranzare. Mangiando ci facciamo venire qualche idea, e nel pomeriggio ci rimettiamo al lavoro.
Menshiki e io rientrammo in casa. Andai in cucina a preparare dei sandwich con prosciutto, lattuga e un po’ di sottaceti, poi ci sedemmo tutti e due in terrazza e mangiammo guardando la pioggia.
– Per colpa di questa faccenda, saremo in ritardo con il nostro impegno piú importante, il ritratto, – dissi.
– No, il ritratto non è urgente, – fece Menshiki scuotendo leggermente il capo. – Prima bisogna risolvere questo mistero. Poi ci rimetteremo al lavoro.
Mi chiesi se quell’uomo desiderava davvero che io lo ritraessi. All’improvviso venni colto da questo dubbio, un dubbio senza alcun fondamento oggettivo, che covava fin dall’inizio in un angolo della mia testa: Menshiki voleva sul serio soltanto un ritratto, o la sua richiesta celava un’intenzione diversa? Il dipinto era solo il pretesto che aveva trovato per avvicinarsi a me?
Quale potesse essere quest’intenzione diversa, però, per quanto mi scervellassi, non riuscivo proprio a immaginarlo. Forse proprio scavare sotto quelle pietre? Figurarsi! Prima non ne sapeva nulla, la storia era saltata fuori quando stavo già lavorando al ritratto. Tuttavia sembrava occuparsene con fin troppo zelo. Era anche disposto a spendere una somma non indifferente. In una questione che, in fin dei conti, non aveva alcun rapporto con lui.
Mentre ero assorto in questi pensieri, Menshiki mi chiese:
– Lo ha poi letto, Un legame che dura due vite?
– Sí, – risposi.
– E cosa ne pensa? Una storia incredibile, no?
– Sí, ha ragione, – gli dissi. – Pazzesca.
Mi fissò per qualche secondo.
– Ad essere sincero, – proseguí – quel racconto mi ha sempre affascinato, non so perché. Se queste stranezze che stanno succedendo adesso qui mi interessano tanto, è anche per questo motivo.
Bevvi un sorso di caffè e mi asciugai le labbra con un tovagliolino di carta. Due grossi corvi attraversavano il cielo sopra la valle, gracchiando per chiamarsi l’un l’altro. Non sembravano badare alla pioggia. Le loro ali bagnate apparivano nerissime.
– Senta, di buddismo non me ne intendo molto e se entriamo nei particolari della dottrina non ci capisco nulla. Ma per un monaco «fare nyūjō» significa che ha deciso di propria volontà di essere sepolto vivo e andare incontro alla morte? – domandai.
– Esattamente. Fare nyūjō in origine significava «accedere al nirvana», e per distinguere le due cose si usa anche l’espressione seinyūjō, cioè «accedere al nirvana da vivi». Si costruisce una cripta sotterranea fatta di pietre, dotandola di una canna di bambú che spunti in superficie per permettere l’aerazione. Prima di entrarvi, il monaco segue per un periodo determinato una dieta che si chiama mokujiki, in modo che una volta morto il suo corpo non si decomponga, ma venga perfettamente mummificato.
Mokujiki?
– Sí. Vuol dire mangiare soltanto erba, noci, bacche… Non mettere in bocca nulla che sia cucinato. Mentre è in vita, insomma, espelle dal corpo tutta la massa grassa e una gran percentuale d’acqua. Per poter diventare una mummia, deve alterare la propria costituzione fisica. Solo dopo aver completamente purificato il proprio corpo, il monaco va sotto terra. Una volta sepolto in quella cripta, non mangia piú, recita solo i sutra battendo un gong. O facendo tintinnare una campanella. Il suono arriva all’esterno grazie alla canna di bambú. Finché a un certo punto non si sente piú. È il segnale che il monaco ha smesso di respirare. E poco per volta diventerà una mummia. Lo si tira fuori dopo tre anni e tre mesi, è il tempo rituale stabilito.
– Sí, ma che scopo ha, tutto questo?
– Diventare un sokushinbutsu. Cioè raggiungere l’illuminazione e accedere a un territorio al di là della vita e della morte. Cosa che a sua volta ha un legame con la salvezza degli esseri umani. In altre parole, è il nirvana. Il monaco dissotterrato, la mummia cioè, viene deposta in un tempio, e la gente va in pellegrinaggio a venerarla e chiederne l’aiuto.
– In pratica, è una sorta di suicidio.
– Certo, – disse Menshiki annuendo. – Infatti nel periodo Meiji fare nyūjō venne vietato per legge. E chi aiutava un monaco in questo percorso veniva accusato di favoreggiamento. Tuttavia pare che la pratica sia continuata di nascosto anche dopo. Con la conseguenza che in molti casi la mummia non è piú stata riesumata, è rimasta sotto terra per sempre.
– Pensa che quel tumulo nel bosco risalga a dopo il divieto?
Menshiki scosse il capo.
– Non è detto, per saperlo dobbiamo aprire la cripta. Ma non lo escludo. La canna di bambú non l’abbiamo trovata, ma il tumulo era costruito in modo che le fessure tra pietra e pietra permettano il passaggio sia dell’aria che del suono.
– Quindi là sotto ci sarebbe qualcuno ancora vivo, che ogni notte continua a suonare un gong, o una campanella?
Di nuovo Menshiki scosse la testa.
– No, la ragione ci dice che non è possibile, ovviamente, – disse.
– Raggiungere il nirvana… che non è la stessa cosa che morire, vero?
– No, non è la stessa cosa. Neanch’io conosco bene la dottrina buddista, ma da quanto riesco a capire, il nirvana è qualcosa al di là della vita e della morte. Il luogo dove si sposta l’anima dopo la distruzione del corpo. Questo lo si può concepire. Che il corpo sia solo un contenitore temporaneo, cioè.
– Se il monaco dopo aver fatto nyūjō raggiunge il nirvana, da lí può tornare a incarnarsi?
Menshiki mi osservò un momento senza parlare. Poi diede un morso al sandwich e bevve un sorso di caffè.
– Sarebbe a dire? – chiese.
– Fino a quattro o cinque giorni fa quel suono non si udiva, – dissi. – Di questo sono sicuro. Altrimenti me ne sarei accorto. Anche se fosse stato appena percettibile, non mi sarebbe sfuggito. Ma è solo da alcune notti che ho iniziato a sentirlo. Di conseguenza, ammettendo che sotto quelle lastre di pietra ci sia qualcuno, non è da molto tempo che ha iniziato ad agitare una campanella.
Menshiki posò la tazza sul piattino. Mentre ne osservava le decorazioni, sembrava riflettere.
– Lei ha mai visto di persona un sokushinbutsu?
Feci cenno di no.
– Io sí, diverse volte, – disse Menshiki. – Da giovane ho viaggiato nella prefettura di Yamagata, da solo, e ho potuto vederne alcuni, conservati in vari templi. Non so perché, ma si trovano soprattutto nel Tōhoku, e in particolare nella prefettura di Yamagata. Ad essere sincero, non è un bello spettacolo. Forse è a causa della mia scarsa fede, ma davanti a quelle mummie non è che abbia provato un particolare sentimento di gratitudine. Sono marrone, piccole, rinsecchite… mi facevano venire in mente il manzo essiccato. È proprio vero che il corpo è solo un futile alloggio temporaneo. Almeno questo, i sokushinbutsu ce l’hanno insegnato. Per quanti sforzi facciamo, alla fine tutto quello che resta di noi è un pezzo di manzo essiccato.
Cosí dicendo, Menshiki osservava il sandwich che teneva in mano come se fosse qualcosa di raro. Quasi fosse la prima volta che vedeva un sandwich al prosciutto in vita sua.
– In ogni caso, – proseguí – possiamo solo aspettare che gli operai tornino al lavoro e rimuovano quelle pietre. A quel punto si chiariranno tante cose. E forse non tutte piacevoli.
Intorno all’una e un quarto tornammo nel bosco, sul luogo degli scavi. Gli uomini avevano finito di mangiare e si erano rimessi all’opera. Per smuovere le pietre i due operai infilavano una specie di cuneo negli interstizi fra l’una e l’altra, poi legavano il cuneo alla ruspa e tiravano. Le lastre smosse a loro volta venivano attaccate a una corda e di nuovo si faceva ricorso alla ruspa per sollevarle. Ci voleva del tempo, ma una per una sarebbero state rimosse tutte e spostate lí accanto.
Menshiki e il capocantiere avevano parlato per un po’, in disparte, poi erano venuti verso di me.
– Come avevo pensato, le pietre non sono molto spesse, si dovrebbero spostate facilmente, – mi spiegò l’uomo. – Sembra che poggino su un altro coperchio, una specie di grata, che fa da base di sostegno. Poi dovremmo togliere anche quella. Ammesso che sia possibile. Non riesco a immaginare cosa troveremo al di sotto. Appena abbiamo finito con le pietre, vi avvertiamo. Ma visto il ritmo a cui avanziamo, ci vorrà ancora un po’ di tempo, potete aspettare a casa, se volete. Stare qui ad aspettare è del tutto inutile.
Ci avviammo verso casa. Avrei potuto usare quell’attesa per portare avanti il ritratto di Menshiki, ma sentivo che non sarei riuscito a concentrarmi abbastanza. Avevo i nervi a fior di pelle. Sotto quel tumulo di pietre era apparso un pavimento quadrato di due metri di lato. Sotto il pavimento, una solida grata. E ancora al di sotto sembrava esserci uno spazio vuoto. Quell’immagine non se ne voleva andare dalla mia testa. Aveva ragione Menshiki. Prima di pensare a qualsiasi altra cosa, dovevamo risolvere quell’enigma.
– Mentre aspettiamo, è possibile ascoltare un po’ di musica? – mi chiese. Gli risposi di sí, poteva mettere tutti i dischi che voleva, naturalmente. Nel frattempo sarei andato in cucina a preparare qualcosa da mangiare per cena.
Scelse un disco di Mozart, una Sonata per violino e pianoforte. Dalle casse Tannoy arrivava un suono stabile e profondo. Sono le migliori per ascoltare la musica classica, soprattutto la musica da camera, benché il marchio non sia dei piú noti. E gli amplificatori con valvole termoioniche sono i piú adatti alle casse vecchio modello. Al pianoforte c’era George Szell, al violino Rafael Druian. Menshiki si accomodò sul divano, chiuse gli occhi e si lasciò portare dal suono della musica. Poco distante, io ascoltavo preparando un sugo di pomodoro. Avevo comprato una gran quantità di pomodori ed era meglio cuocerli prima che andassero a male.
Misi sul fuoco un pentolone d’acqua, sbollentai i pomodori, li pelai e li tagliai a pezzi col coltello. Dopo averli ripuliti dei semi, li schiacciai, li buttai in una grande padella di ferro con dell’aglio e un filo d’olio d’oliva, e li lasciai cuocere per un po’. Era un sugo che preparavo spesso quando vivevo con mia moglie. Una ricetta che richiedeva un po’ di tempo e di lavoro, ma semplice. Mentre mia moglie era in ufficio, io mettevo nello stereo un cd e preparavo quel sugo in cucina, da solo. Mi piaceva cucinare ascoltando jazz. Soprattutto Thelonious Monk. Dei suoi lp, quello che preferivo era Monk’s Music; gli assolo di Coleman Hawkins e John Coltrane in quel disco mi mandavano in visibilio. Però anche preparare il sugo ascoltando musica da camera non era male.
Non era passato molto tempo dall’ultima volta che avevo cucinato tutto il pomeriggio ascoltando Monk (da quando mi ero separato da mia moglie, erano trascorsi solo sei mesi), eppure adesso mi sembrava il ricordo di un’epoca lontanissima; che fosse un episodio storico avvenuto una generazione prima, un evento di cui solo un pugno di persone serbava il ricordo. Tutt’a un tratto pensai a mia moglie: cosa stava facendo, in quel momento? Viveva con un altro uomo? Abitava ancora sola nell’appartamento di Hiroo? In ogni caso, a quell’ora doveva essere al lavoro, in ufficio. Quanto era diversa la vita che conduceva ora da quella di prima, quando c’ero io? E cosa significava per lei quella differenza, che sentimenti le ispirava? Questi erano i pensieri che mi passavano per la testa, senza che mi ci soffermassi sul serio. Chissà se anche lei considerava gli anni trascorsi con me una storia appartenente a un’epoca lontana?
Quando il disco terminò, sentendolo frusciare andai nel soggiorno e vidi che Menshiki, appoggiato un poco di traverso allo schienale, le braccia conserte, si era addormentato. Sollevai la puntina dal disco che continuava a girare, fermai il piatto. Il fruscio cessò, ma Menshiki non accennò a svegliarsi. Doveva essere stanco. Russava anche un po’. Lo lasciai dormire. Tornai in cucina, spensi il fuoco sotto la padella, bevvi un grande bicchiere d’acqua. Visto che restava ancora tempo, mi misi a soffriggere delle cipolle.
Menshiki era già sveglio quando squillò il telefono. Era andato in bagno a lavarsi la faccia e stava facendo i gargarismi. A chiamare era il capocantiere, quindi gli passai la cornetta. Menshiki scambiò qualche parola con lui, poi gli disse che saremmo arrivati subito.
– Il lavoro è quasi terminato, – mi annunciò restituendomi il telefono.
Fuori aveva smesso di piovere. Il cielo era ancora coperto, ma c’era piú luce. Il tempo si stava rimettendo al bello. Salimmo in fretta i gradini di pietra e ci inoltrammo fra gli alberi. Dietro il tempietto i quattro uomini erano in piedi attorno alla fossa. Guardavano all’interno. Il motore della ruspa era spento, nulla si muoveva e nel bosco era calato uno strano silenzio.
Le lastre di pietra che facevano da coperchio erano state rimosse tutte. Anche la grata, di legno spesso, era stata tolta e posata lí accanto. Sembrava molto pesante. Nonostante fosse molto vecchia, non era marcita. Dove prima c’era il tumulo, restava solo una grande buca aperta. Una stanza circolare dalle pareti di pietra. Misurava un po’ meno di due metri di diametro per due e mezzo di profondità. Il pavimento invece, chissà perché, era in terra battuta. Non vi cresceva neanche un filo d’erba. La cripta era vuota. Non c’era nessuno che chiedesse aiuto, ma nemmeno una mummia incartapecorita. Però sul fondo era posata una campanella. Anzi, piú che una campanella, sembrava un antico strumento musicale fatto di minuscoli cimbali. Era dotato di un manico lungo circa quindici centimetri. Il capocantiere lo illuminò dall’alto con un piccolo proiettore.
– Dentro c’era solo quello? – gli chiese Menshiki.
– Sí, nient’altro. Abbiamo seguito le sue istruzioni, dopo aver tolto il coperchio in pietra e la grata, non abbiamo toccato nulla.
– Strano… – fece Menshiki, come parlando fra sé. – È proprio sicuro che non ci fosse altro, vero?
– L’ho chiamata subito, appena abbiamo aperto. Nessuno è sceso dentro la buca. L’abbiamo trovata cosí come la vede, – rispose l’uomo.
– Sí, certo, – disse Menshiki, la voce un po’ secca.
– Può darsi che in origine fosse un pozzo, – proseguí il capocantiere. – Un pozzo in seguito riempito di terra fino a questo livello. Ma il diametro è un po’ troppo grande, per essere un pozzo, e le pareti sono state costruite con troppa precisione. Un lavoro non da poco, altroché! Bah, avevano di sicuro uno scopo cui tenevano molto, per dedicarci tanto tempo e fatica.
A quel punto il capocantiere esitò.
– Meglio che scenda prima io, – disse poi, con aria preoccupata. – Non vorrei mai che succedesse qualcosa. Se non ci sono problemi, dopo può scendere anche lei, signor Menshiki. È d’accordo?
– Naturalmente, – rispose Menshiki. – Faccia cosí.
L’uomo andò a prendere nel furgone una scala pieghevole di metallo, la aprí e la calò nella fossa. Si rimise il casco, e un gradino dopo l’altro scese sul pavimento di terra, due metri e mezzo piú in basso. Si guardò attorno, alzò gli occhi verso l’alto, poi facendosi luce con una torcia elettrica ispezionò minuziosamente le pareti e il fondo. Osservò con grande attenzione lo strumento posato al suolo. Senza toccarlo, però. Strofinò piú volte con gli stivali la terra sotto i suoi piedi. Provò a colpirla col tacco. Fece qualche respiro profondo per fiutare l’aria. In tutto, rimase nella fossa cinque o sei minuti. Quindi risalí lentamente lungo la scala.
– Non mi pare che ci siano pericoli, – disse. – L’aria è pulita, nessun insetto strano. Anche il suolo è solido. Può scendere tranquillamente.
Menshiki si tolse l’impermeabile e, in camicia di flanella e pantaloni chino, la torcia elettrica appesa al collo, scese anche lui servendosi della scala. Noi lo guardavamo dall’alto senza fiatare.
Il capocantiere illuminò con il proiettore il fondo della buca. In piedi là sotto, Menshiki rimase qualche momento immobile, come se stesse studiando la situazione, poi cominciò a toccare le pareti, si accovacciò per tastare il terreno. Raccolse l’aggeggio simile a una campanella e vi diresse sopra il fascio di luce della sua torcia. L’osservò bene, lo scosse leggermente piú volte. Subito si udí quell’inconfondibile tintinnio. Non mi potevo sbagliare. Qualcuno la notte l’aveva fatto suonare. Ma chi? Quel qualcuno ormai lí dentro non c’era piú. Restava solo quello strumento. Menshiki l’osservava scuotendo il capo. «Strano», sembrava dire. Ancora una volta ispezionò attentamente le pareti tutt’attorno. Come se cercasse un’uscita segreta da qualche parte. Ma non trovò nulla di simile. Alzò la testa per guardare noi. Mi parve del tutto disorientato.
Salí qualche gradino della scala, sollevò una mano e mi tese la campanella. Mi piegai a prenderla. Il vecchio manico di legno era freddo e impregnato di umidità. Come aveva fatto Menshiki, la scossi leggermente. Fece un suono molto piú forte e squillante di quanto mi aspettassi. Non sapevo di cosa fosse fatto, ma la parte in metallo non era rovinata. Era sporca, sí, ma non arrugginita. Come si spiegava che non lo fosse, dopo essere rimasta anni e anni in un’umida buca sotto terra?
– Che cos’è quell’arnese? – chiese il capocantiere. Era un uomo di mezza età, dal fisico robusto, la faccia abbronzata e mal rasata.
– Mah, non saprei, – risposi. – Sembra un arredo d’altare buddista. Molto antico, in ogni caso.
– Era questo che cercavate?
Scossi la testa.
– No, ci aspettavamo qualcos’altro.
– Comunque è un posto molto strano, – disse l’uomo. – Non so come dire… ma lí dentro c’è un’atmosfera strana. Mi chiedo chi possa aver fatto costruire una buca come questa, e a che scopo. Visto che questo strumento è antico… a quei tempi c’era da spezzarsi la schiena a trasportare fin quassú e ammonticchiare tutte quelle pietre.
Finalmente anche Menshiki risalí. Chiamò il capocantiere e rimase a lungo a parlottare con lui. Nel frattempo io mi tenevo sul bordo della buca, la campanella in mano. All’inizio avevo pensato di scenderci anch’io, ma poi ci avevo ripensato. Non ero Masahiko, ma concordavo con lui: meglio evitare di ficcare il naso in cose che non mi riguardavano. Meglio non attirare l’attenzione, se possibile. Posai la campanella davanti al tempietto e mi strofinai piú volte il palmo della mano sui pantaloni.
Menshiki mi raggiunse.
– Farò ispezionare meticolosamente quella struttura. A prima vista sembra solo una buca, ma per scrupolo vorrei che fosse controllata meglio. Può darsi che scopriamo qualcosa. Anche se ci credo poco, – disse, poi guardò la campanella che avevo posato davanti al tempietto. – Strano però che sia rimasta soltanto questa. In teoria, là dentro c’era qualcuno che ogni notte la faceva suonare.
– Può anche darsi che suonasse da sola, di sua iniziativa.
Menshiki rise.
– Una spiegazione divertente, ma non mi convince. Qualcuno, sul fondo di quella buca, inviava intenzionalmente un segnale. Un segnale diretto a lei. O a noi. O a un numero indeterminato di persone. Quel qualcuno però si è volatilizzato come fumo. Oppure è riuscito a sgusciare fuori.
– A sgusciare fuori?
– Sí, se l’è svignata sotto i nostri occhi.
Non capivo cosa volesse dire veramente.
– Uno spirito non è qualcosa che si veda, – disse Menshiki.
– Lei crede che gli spiriti esistano?
– E lei?
Non sapevo cosa rispondergli.
– Da parte mia, non penso che occorra per forza credere alla loro esistenza, – proseguí lui. – Al tempo stesso, non sostengo neanche l’idea opposta, e cioè che non dobbiamo crederci. Mi sono espresso in modo un po’ confuso, ma ha capito cosa intendo, no?
– Piú o meno.
Menshiki prese in mano la campanella. La fece tintinnare piú volte.
– Probabilmente, in fondo a quella buca, un monaco ha smesso di respirare suonando questa e recitando i sutra. In assoluta solitudine, sul fondo di un pozzo chiuso da un pesante coperchio, nel buio totale. E in segreto, inoltre. Chi fosse questo monaco, non lo so. Un monaco importante? Un credente qualsiasi? Comunque sia, qualcuno ha poi eretto una stele di pietre sopra quella buca. Cosa sia successo dopo non lo so, ma per qualche motivo la gente ha completamente dimenticato che quel monaco, qui, aveva fatto nyūjō. Poi chissà quando c’è stato un terremoto, la stele è franata ed è diventata un semplice mucchio di pietre. Nel terremoto che ha colpito il Kantō nel 1923, intorno a Odawara molti luoghi hanno subito forti danni. Forse è successo quella volta. Cosí tutto è stato inghiottito nell’oblio.
– Se è andata davvero come dice lei, quel sokushinbutsu, quella mummia, dove sarà finita?
– Non ne ho idea, – fece Menshiki scuotendo il capo. – Può darsi che a un certo punto qualcuno l’abbia tirata fuori di lí e portata in un tempio.
– Per farlo avrebbe dovuto togliere tutte le pietre, poi rimetterle una sull’altra, – obiettai. – Chi era allora a suonare questa campanella ieri notte?
Di nuovo Menshiki scosse la testa per dire che non sapeva. Poi fece una risatina ironica.
– Cose da pazzi! – disse. – Abbiamo fatto venire fin qui una ruspa, spostato un cumulo di massi che pesavano quintali, scoperchiato una cripta rivestita di pietre, con quale risultato? Che non ci capiamo assolutamente nulla. Di chiaro c’è soltanto una cosa: tutto quello che ci resta in mano è questa vecchia campanella.
Nella buca vennero effettuati esami scrupolosi, ma non fu rinvenuto il minimo indizio della presenza di qualche congegno: era soltanto una fossa circolare che misurava due metri di diametro e due e mezzo di profondità (misure calcolate con precisione). La ruspa venne caricata sul furgone, gli uomini raccolsero tutti i loro attrezzi e se ne andarono. Rimase solo la scala, che il capocantiere aveva lasciato per farci un favore. Sulla buca aveva fatto mettere alcune spesse tavole di legno, in modo che nessuno ci cadesse dentro per disattenzione. Le tavole erano tenute ferme da alcune grosse pietre, cosí non rischiavano di venir portate via da una folata di vento. Quanto alla grata in legno che in origine fungeva da coperchio, era troppo pesante per essere trasportata e cosí venne posata sul terreno a poca distanza, coperta da un telo di plastica.
Una volta sistemato tutto, Menshiki aveva raccomandato al capocantiere di non parlare a nessuno di quei lavori. Gli disse che forse avevano un’importanza archeologica, e che quindi era meglio non diffondere la notizia fino al momento opportuno.
– Non si preoccupi. Resterà tra di noi. Dirò anche agli altri di non parlarne in giro. Stia tranquillo, lasci fare a me, – aveva risposto l’uomo.
Quando tutti se ne furono andati, nel silenzio che tornò a riempire i monti quel luogo appariva ulcerato e dolente, come la pelle umana dopo un’operazione chirurgica. Le piume della pampa, prima lussureggianti, erano completamente calpestate, sul terreno scuro e umido restavano solo le profonde impronte dei cingoli. La pioggia era cessata del tutto, ma il cielo era ancora coperto da un uniforme strato di nubi grigie.
Guardando le pietre accumulate a qualche distanza dal pozzo, pensai di nuovo che il nostro ficcanasare era stato un errore. Avremmo dovuto lasciare tutto cosí com’era. Al tempo stesso, non avevamo potuto fare diversamente, la verità era questa. Continuare a sentire notte dopo notte, all’infinito, quel misterioso tintinnio non era concepibile. Oltretutto se non avessi conosciuto Menshiki, non avrei avuto i mezzi per aprire quella buca. Se quel lavoro era stato possibile, era grazie a lui, che aveva pagato − e chissà quanto! − per far intervenire gli operai.
Già. Ma era stato veramente un caso, se il mio incontro con quell’uomo, con Menshiki, aveva portato a una scoperta cosí importante? Le cose, a pensarci bene, non si erano svolte in modo fin troppo rapido, fin troppo facile? E se tutta questa storia fosse stata pianificata molto prima? In preda a questi dubbi che non riuscivo a zittire, tornai a casa insieme a Menshiki. La campanella trovata nella buca ce l’aveva lui. Camminando, la teneva in mano come se in quel contatto cercasse di percepire qualche messaggio.
– Questa dove la mettiamo? – fu la prima cosa che mi chiese appena rientrammo.
Non ne avevo idea, non mi veniva in mente un posto adatto, in quella casa. Per il momento l’avrei conservata nell’atelier. Anche solo tenere quella campanella sotto il mio stesso tetto mi metteva a disagio, ma non per questo potevo lasciarla fuori. Probabilmente era un oggetto di culto con un qualche valore spirituale. Dovevo trattarla con rispetto. Per questo decisi di metterla in quello che si sarebbe potuto definire un terreno neutro − l’atelier era costruito in modo da formare una stanza indipendente, separata dal corpo della casa. Feci un po’ di spazio su una delle lunghe mensole ingombre di colori, e la posai lí. Accanto a una brocca piena di pennelli, sembrava uno strumento di lavoro qualsiasi.
– È stata una giornata… particolare, non trova? – mi disse Menshiki.
– Le ho fatto perdere un giorno intero, sono desolato, – gli risposi.
– No, no, non dica cosí. Per quel che mi riguarda, ho trovato la cosa molto interessante. Questo però non significa che sia finito tutto qui.
Sul viso di Menshiki apparve un’espressione indefinibile, sembrava guardare lontano.
– Cioè, pensa che succederà qualcos’altro? – gli chiesi.
– È difficile da spiegare, ma ho come l’impressione che questo sia solo l’inizio, – rispose lui scegliendo con cautela le parole.
– Solo l’inizio?
Menshiki rifece il gesto di sollevare i palmi delle mani verso l’alto.
– Naturalmente non posso affermare nulla, ma questa storia potrebbe anche concludersi cosí, con la considerazione che «è stata una giornata particolare». E probabilmente sarebbe la cosa migliore. Se ci pensa un attimo, però, capisce che non abbiamo risolto niente. Molti dubbi sono rimasti tali. Dubbi molto grossi. Per questo ho il presentimento che succederà qualcos’altro.
– Questa sensazione ha a che fare con quella stanza di pietra?
Menshiki guardò fuori dalla finestra.
– Non lo so, – fece poi. – Cosa vuole che le dica? È solo un presentimento.
Il suo presentimento − o la sua profezia − si rivelò giusta. Come aveva detto lui, quello era solo l’inizio.